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Virginia Della Sala
La strategia verde di Taiwan per spezzare la morsa della Cina
17 Novembre 2017
Dalla stampa
il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2017. «Oltre 60 miliardi di investimenti nelle energie rinnovabili: l’isola del Pacifico cerca di smarcarsi da Pechino puntando sull’ecologia. Ma alla Cop23 viene messa alla porta». (p.d.)

il Fatto Quotidiano, 15 novembre 2017. «Oltre 60 miliardi di investimenti nelle energie rinnovabili: l’isola del Pacifico cerca di smarcarsi da Pechino puntando sull’ecologia. Ma alla Cop23 viene messa alla porta». (p.d.)

Bonn, Germania: “Il ministro Lee Ying-yuan dell’amministrazione per la protezione ambientale di Taiwan non ha potuto partecipare a una conferenza sul cambiamento climatico a causa delle obiezioni della Cina”: inizia così il comunicato diffuso lunedì dai media taiwanesi. Alla delegazione sbarcata in Europa è stata negata la partecipazione ufficiale ai lavori della Cop 23 di Bonn, la conferenza sui cambiamenti climatici riservata ai membri dell’Onu, durante la quale si negoziano gli impegni e si fa il punto su quanto fatto in relazione agli accordi di Parigi. L’isola del Pacifico non è membro delle Nazioni Unite ma, soprattutto, la Cina non le ha concesso di presentarsi – neanche a iniziative collaterali – come nazione indipendente. “È responsabilità del mondo farla partecipare alle riunioni – ha detto il ministro – 23 milioni di persone non possono essere ignorate”.
La nuova strategia di Taiwan per farsi riconoscere globalmente ha lasciato la sola avanguardia tecnologica per aprirsi ai cambiamenti climatici. Nell’ultimo anno si è parlato di un investimento di 60 miliardi di dollari per il sostegno alle energie rinnovabili, quasi 30 miliardi solo nel settore dell’energia eolica, almeno 17 nelle pale off-shore. La Taipower company, che detiene il monopolio dell’energia elettrica ed è sotto il controllo del ministero degli Affari economici, è in corso di ristrutturazione: la legge sull’elettricità approvata a gennaio mira a liberalizzare produzione e distribuzione di energia elettrica. Soprattutto, entro il 2025, l’isola intende abbandonare completamente il nucleare, che a oggi produce il 12 per cento dell’energia. Le rinnovabili dovrebbero passare dal 4,8 per cento del 2016 al 20. “Stiamo cercando di attirare investimenti nella green economy”, spiegano funzionari e dirigenti del governo. E basta guardarsi intorno per capire che è davvero così.
Nell’atrio del Taipei 101, come il numero dei piani che lo rendono il grattacielo più alto di Taiwan, c’è una parete ricoperta di dieci tipi diversi di vegetazione. È una dichiarazione di intenti: accanto, tre schermi verticali riassumono con infografiche e numeri l’ecosostenibilità dell’enorme struttura. Il Taipei 101 è passato dall’essere l’edificio più alto del mondo nel 2011, all’essere l’edificio green più alto del mondo. Si ricicla più del 75 per cento dell’immondizia, il 100 per cento dell’acqua piovana viene raccolta e utilizzata per irrigare le piante e per gli scarichi dei water, le emissioni di carbonio sono ridotte di almeno 140 tonnellate. Nel cloud vengono conservati tutti i dati sul consumo energetico dell’edificio: in questo modo è possibile monitorarlo per ottimizzarne l’efficienza. La biblioteca nazionale, invece, ha un tetto intelligente che raccoglie e filtra l’acqua piovana, pannelli solari, spazi pensati per diffondere al meglio la luce naturale. L’edera che ricopre la struttura contribuisce all’isolamento termico, l’assenza di cemento assicura la permeabilità del terreno. Attorno, una balconata: c’è chi legge, chi prega e chi medita. È in corso l’operazione di recupero di un albero sradicato da un tifone. “Un peccato – commenta la volontaria che coordina la visita – ma succede continuamente”.
Taiwan fa di necessità virtù. È al settimo posto tra i Paesi più colpiti dal cambiamento climatico. A giugno, nel distretto Sanzhi di New Taipei City (Taiwan settentrionale) sono stati registrati 615 mm di pioggia in sole nove ore. Nelle regioni montuose ne sono caduti 1.446. A fine luglio, l’isola è stata colpita da due tifoni mentre ad agosto nella zona settentrionale si sono registrate temperature costanti sopra i 37 gradi, superando tutti i record dei precedenti 100 anni. Così, il governo risponde emanando continue leggi e disposizioni ambientali: dal Greenhouse Gas Reduction and Management Act, dalle Linee Guida Nazionali per l’Azione sul Cambiamento Climatico al Greenhouse Gas Reduction Action Plan. Oltre 200 iniziative politiche. Gli obiettivi sono in linea con gli standard internazionali: negli ultimi cinque anni Taiwan si è specializzata nelle politiche ecologiche. Vuole farsi riconoscere agli occhi della comunità internazionale come un’isola sempre più sganciata dalla Cina e sempre più in linea con il resto del mondo. Cerca di rispettare le disposizioni del Unfccc (United Nations Framework Convention on Climate Change), il trattato delle Nazioni Unite siglato nel 1992 per il contrasto al cambiamento climatico. Gli obiettivi: produzione energetica composta al 20% di rinnovabili, al 50% di gas naturali e una diminuzione al 30% del carbone entro il 2025. È la conversione di quella che era definita ‘isola della spazzatura’ verso l’economia circolare. Senza dimenticare nulla.

Long- Jin, ad esempio, è l’amministratore delegato della Get – Green Energy Corporation di Taichung, città nella regione centro-occidentale. Guadagna circa 200 milioni di dollari l’anno. “L’energia solare è la più grande bugia del nostro tempo – esordisce durante l’incontro – produce l’immondizia più inquinante del mondo”. L’intuizione: a un certo punto i pannelli solari si esauriranno e dovranno essere smaltiti. Così Long- Jin ha deciso di riciclarli e trasformarli in altri oggetti. “Come questa maglia – dice indicando gli abiti che indossa – o quel crocifisso”, aggiunge puntando il muro con un dito. Si scompongono i pannelli e, con trattamenti chimici, se ne estrae il silicio con cui poi si creano altri oggetti: batterie a litio, tessuti e materiali isolanti, pezzi di smartphone. “È una fabbrica di soldi”, commenta Long Jin, figlio di un pastore protestante in un paese prevalentemente buddhista, tornato a Dio dopo il fallimento dell’impresa americana con cui produceva aerei da guerra per la Cina. Oggi ha convinto il board della sua azienda a donare il 10% del profitto a organizzazioni caritatevoli. L’anno prossimo aprirà una fabbrica in Spagna. Produrrà pannelli per due anni, inizierà a smaltirli dal 2020. Non ha però intenzione di sbarcare sul mercato cinese. “Non finché non avrò accumulato almeno 2 miliardi di dollari”. Non vuole che accada ciò che succede a qualsiasi compagnia tecnologica che è entrata nel mercato cinese: “Nel giro di due o tre anni si prendono tutto e il proprietario diventa un dipendente. Fagocitano ogni idea. Non hanno paura di nulla”.

Nella sede della Gogoro, nella zona industriale di Taipei, dal 2011 si producono scooter elettrici (a Taiwan ci sono più di 4 milioni di scooter in circolazione e sono previste facilitazioni per il loro acquisto). L’ultima raccolta fondi della società è stata di 300 milioni di dollari e ha visto la partecipazione della Panasonic e di Al Gore. La responsabile della comunicazione è americana, gli spazi aperti e moderni ricordano i quartier generale delle over the top. “Non ci vediamo come un’azienda di motori ma come una tech and energy company”, spiegano. Nell’ultimo anno hanno prodotto due modelli di scooter elettrici (molto somiglianti alla nostra Vespa), venduti più di 34 mila. Gli scooter della Gogoro hanno una batteria elettrica intercambiabile: quando si scarica, ci si può fermare alle apposite colonnine, lasciare quella scarica e prenderne una carica. L’azienda sta stringendo accordi per installarle anche nei 7eleven, i supermarket più diffusi nell’isola. Vogliono raddoppiare le vendite. Già a Berlino con il ride sharing, a settembre sono sbarcati in Giappone: è in questo mercato che Taiwan sperimenta i prodotti. La Cina non è in cima alle mire imprenditoriali.
Chiu Chui-Cheng è il viceministro del Mainland Affairs Council, il consiglio che si occupa degli affari che regolano i rapporti di Taiwan con la Cina. I concetti si ripetono sempre uguali. “Pace”, “distensione”, “stabilità”. Spiega che c’è 1 milione di uomini d’affari taiwanesi in Cina che hanno assunto più di 50 milioni di lavoratori cinesi. “La cooperazione industriale è fitta”, spiega, e questo contribuisce a mantenere un certo equilibrio. Ma non basta. Nonostante molti taiwanesi abbiano votato la candidata del Partito Progressista Democratico, Tsai Ing-Wan (uscita dalle urne del 2016 dopo due mandati del partito nazionalista Kuomintang), perché si aspettavano una chiara dichiarazione d’indipendenza, ci si trova ora di fronte a un governo che mira a mantenere lo status quo ma che spesso soccombe alle “pressioni” dalla Cina. “Vogliamo dignità – spiega Chiu Chui-Cheng –: non sederci ai tavoli ed entrare nell’arena politica mondiale, ma che la Cina riconosca l’esistenza di Taiwan”. Le rare volte che le viene concesso di sedersi a tavoli internazionali è con la definizione di ‘Taipei Cinese’. Così Taiwan è costretta a mettere in moto la sua “diplomazia pragmatica”: “Stiamo scrivendo un capitolo inedito nella storia della diplomazia mondiale”, dice il viceministro. Facile trovare rappresentanti nel dietro le quinte dei grandi appuntamenti: un’attività di lobbying per convincere la comunità internazionale a riconoscerla. I risultati? “Nonostante la situazione alla Cop 23 – conclude il comunicato di lunedì – Lee è riuscito a impegnarsi con delegati di altri Paesi. Il presidente dell’isola di Marshall e il primo ministro dell’isola di Tuvalu hanno partecipato anche a un banchetto organizzato dal ministero degli Esteri.
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