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Prospero. Michele
La strana cultura dei tecnici: più ideologia che pragmatismo
9 Febbraio 2012
Articoli del 2012
Sembra che non rieca a fare neppure la buona politica di una destra liberale. Forse perché la destra liberale non c’è più. L’Unità, 9 febbraio 2012

Al ritrovamento del linguaggio della verità non ha fatto seguito la necessaria coerenza Con tanto dogmatismo sull’articolo 18 si complica molto il lavoro della ricostruzione

C’era bisogno dei tecnici, così è stato detto, per far respirare una politica in affanno e restituirle credibilità, dopo la irreparabile caduta di autorevolezza determinata da un Cavaliere dormiente dinanzi alla crisi. Ad una politica impigliata nella trama di una competizione senza tregua, doveva subentrare una più pragmatica azione di governo. Ebbene, questo recupero di prestigio delle istituzioni grazie alla buona amministrazione viene sovente ostacolato da una abitudine a chiudere in battute e in immagini caricaturali dei problemi assai complessi.

Il ritrovamento del linguaggio della verità, pur sollecitato come condizione per il ripristino del rendimento della politica, non si è sempre verificato con la necessaria coerenza. Non c’è più la fuga dal reale dei tempi di Berlusconi, che scambiava il governo per uno spot pubblicitario senza tempo. Ma è comparsa una inclinazione surreale a risolvere le aspre condizioni di vita delle persone con annunci del tutto inverosimili. Le timide politiche di liberalizzazione? Porteranno almeno dieci punti in più del Pil. L’abbattimento dell’articolo 18? Una autentica manna: investimenti esteri a palate e in breve tempo almeno altri 8 punti in più di crescita. Questo modo di argomentare (un Pil che cresce di 18 punti!) non è tollerabile.

Dai competenti ci si attenderebbe un piglio manageriale, con poche narrazioni e con delle realizzazioni puntuali in agenda, sempre verificabili. Così non è. I tecnici amano fare gli ideologi complicando molto il lavoro della ricostruzione. Il problema, purtroppo, non è di infortuni nella comunicazione. No, i tecnici, con le loro simbologie ardite, rivelano una lettura troppo semplicistica e deformata della società. Senza una analisi rigorosa è da temere il peggio nell’azione di governo. Come si fa a ricondurre il declino italiano al troppo buon cuore delle vecchie classi politiche incapaci di imporre misura, rigore? E come si fa a invocare la riforma dello statuto dei lavoratori perché, in caso contrario, gli investitori si manterranno per sempre lontani dal bel paese?

Qualcuno svegli i tecnici e li ridesti finalmente dal loro sonno dogmatico. Le norme sul mercato del lavoro non sono una priorità per la crescita. La neve precipitata in questi giorni disvela un paese che non dispone di mezzi, di strutture, di cultura di gestione del rischio. Quando in una città piove o nevica si crea una prolungata situazione di emergenza. C’entra davvero l’illusione del posto fisso in questa estrema vulnerabilità di un paese che a stento può ancora essere annoverato tra le nazioni civili? La domanda vera è semmai che cosa è il pubblico dopo anni di ideologia liberista per cui la ricchezza privata soltanto conta e il cimitero dei beni comuni può riposare in pace.

Nel deserto arido di beni pubblici, cadono anche gli investimenti perché l’eutanasia della statualità rende il paese debole, arcaico, non competitivo. Gli investitori in Calabria non arrivano, ma non certo perché si tema la morsa dell’articolo 18 ma perché il treno più veloce che collega la regione alla capitale impiega quasi dieci ore. Invece di incontinenze verbali, il governo dovrebbe con urgenza riprogettare la dimensione territoriale delle politiche per lo sviluppo. Dinanzi alla rispazializzazione negativa e asimmetrica, che consegna molte aree del paese al sottosviluppo, occorrono politiche attive, non leggende.

A spaventare i capitali è il mitico articolo 18 o il tempo biblico della giustizia civile? E davvero le bandiere dei sindacalisti fanno più paura delle bocche di fuoco delle ecomafie? Agli apostoli della concorrenza crea fastidio il sindacato e non preoccupa il fatto che in molte regioni le merci sono prodotte e scambiate in forme del tutto illegali. Non è affatto vero che la contrattazione collettiva spaventi i capitali più della presenza di contratti evanescenti e sprovvisti di una qualsiasi garanzia giuridica efficace ed esigibile. Quando le mafie con i loro governi privati hanno il monopolio territoriale delle attività illecite, i diritti di proprietà sono molto sbiaditi, i costi della transazione diventano più cospicui, le sanzioni degli inadempimenti appaiono del tutto improbabili.

Invece di scherzare sulla mammà dei disoccupati, il ministro degli interni dovrebbe forse cominciare a rimuovere lo spaventoso onere di queste esternalità negative che, non solo al sud ormai, determinano una possente disincentivazione degli investimenti produttivi. Le imprese si mostrano del tutto irretite dinanzi alla spettacolare accumulazione dei capitali avvenuta grazie alla simbiosi di coercizione e affari, pubblico e privato. Senza politiche per i beni collettivi (giustizia, sanità, istruzione, infrastrutture) evapora la dimensione locale dello sviluppo. Ci sono questioni colossali da affrontare per una effettiva politica di “cresci Italia” e invece i tecnici preferiscono fare cattiva ideologia sul mercato del lavoro. Peccato.

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