il manifesto), Roberto Saviano e Ilvo Diamanti (la Repubblica), Claudio Magris (Corriere della sera), 19 e 20 aprile 2015
Fuggivano da guerra e miseria anche i 700 disperati dei quali non si ha notizia e ancora tanti sono i dispersi in mare, solo 49 risultano in salvo. Non c’è bisogno che lo dica il Vaticano che fuggivano da guerra e miseria per averne una conferma. Guardate la geografia dei luoghi da dove, ogni santo giorno, arrivano in fuga: Nigeria, Mali, Niger, Siria, Somalia, Libia, Egitto, Iraq…ecc. ecc. Non c’è una sola realtà che non veda la costante povertà della quale siamo responsabili – per favore qualcuno veda come abbiamo ridotto il Delta del Niger, una regione grande come l’Italia in Nigeria, “grazie” ai nostri pozzi petroliferi e a quelli delle altre multinazionali del petrolio. Una fogna di bitumi che hanno devastato l’ambiente, rimasto semplicemente senza acqua.
Ma questo è poco. Ognuno di quei paesi è in preda certo alle scellerate avanzate dell’Isis, ma grazie al terreno fertile di macerie che abbiamo provocato con le nostre guerre. E’ stata la Nato a trasformare la Libia, il paese con il reddito più alto dell’Africa, in un cumulo di rovine senza istituzioni rappresentative con tre governi che si combattono e ora sicuro santuario dello jihadismo estremo per tutto il Medio Oriente.
O vogliamo parlare delle magnifiche sorti e progressive dello scenario somalo? Senza dimenticare l’uso occidentale strumentale dei jihadisti in chiave anti-Assad per poi scoprire che così facendo hanno preso piede in due terzi dell’Iraq, paese dove l’occupazione militare statunitense — come riconosce lo stesso Obama – ha permesso alla fine l’avvento e le stragi degli ultimi radicalismi islamisti dello Stato islamico.
Fuggono da queste guerre e da questa miseria. Noi siamo perlomeno co-responsabili. E invece l’Unione europea dichiara che “non può fare nulla”, annunciano gli alti funzionari dell’immigrazione Ue. E invece, come scrivono ormai perfino i giornali tedeschi, sarebbe doveroso, urgente e riparatorio avviare subito una missione di Mare nostrum stavolta europea.
Quando c’era Mare Nostrum il numero delle vittime è calato improvvisamente. Semplicemente li soccorrevamo: è quello che dobbiamo fare anche adesso.
Ma chi paga? E’ sempre dai giornali tedeschi che arriva il suggerimento: il prossimo vertice del G7 costerà milioni ai paesi europei. Basta premiare il nefasto ceto polico continentale con alberghi a 6 stelle e con pranzi raffinati. Impegniamo quei soldi per una missione navale che soccorra e salvi i migranti, subito.
E’ tempo di fare spending review in questa Unione europea che se non trova ragioni per esistere nemmeno per questa tragedia, è meglio che chiuda i battenti. Toccherà a noi che siamo internazionalisti e per questo europeisti convinti, rifondarne un’altra solidale ed eguale.
Quanto allo squalo Salvini, propone un blocco navale militare - di 150 navi da guerra - per impedire che i disperati arrivino. Come se non fosse mai accaduto: qualcuno si ricorda del massacro della Kater I Rades con 100 albanesi, donne, bambi e vecchi, speronata da una nave militare italiana nel 1997? E aggiunge lo sciacallo-squalo che ci vogliono tanti campi di concentramento in Africa per decidere lì “chi è davvero clandestino e chi ha bisogno d’aiuto”.
Tutti loro hanno bisogno d’aiuto. Noi non abbiamo certo bisogno del razzismo e dell’odio di Salvini. Il fascio-leghista promette che andrà a Palermo e si metterà su un gommone. Così lo vediamo che se ne va…su un gommone
La RepubblicaILMEDITERRANEO FOSSA COMUNE
COSÌ QUEI MORTI DI NESSUNO
PESANO SULLE NOSTRECOSCIENZE
di Roberto Saviano
Il punto è che il primo obiettivo dovrebbe essere quello: salvare delle vite, prendersene cura. Invece si è riusciti a far diventare questa volontà come ridicola, romantica, naif. Qualunque riflessione sul dolore degli altri, di chi arriva da un “sottomondo”, deve essere contenuta. C’è un’economia nella sofferenza. Chi valuta il dolore, chi misura la tragedia umana, chi cerca di svegliare il torpore della conta degli affogati è iscritto di diritto al movimento “buonista”.
“Buonista” è l’accusa di chi non vuol spender tempo a capire e ha già la soluzione: respingimenti, arresti, blocchi. Un miscuglio di frustrazione personale che cerca il responsabile del proprio disagio, una voglia di considerare realistica e vincente solo la soluzione più autoritaria. La bontà considerata come sentimento ipocrita per definizione. E, cosa assai peggiore, una qualità morale che può avere solo l’uomo perfetto, candido, puro: quindi nessuno se non i morti, la cui vita è trasfigurata e le cui azioni sono già spese. Chiunque cerchi, nella sua umana imperfezione, di agire diversamente è marchiato con un giudizio unico: falso. La bontà diviene quindi sentimento senza cittadinanza, ridicolo, proprio perché non può essere compiuto se non nella rotonda perfezione. Questo è il cinismo miope, che liquida tutto con solerte sarcasmo.
Ovvio che razionalmente non è immaginabile una smisurata accoglienza universale, senza regole, ma la strada intrapresa delle mezze concessioni e dai mezzi respingimenti non regge più. Il peso politico che avremmo dovuto avere essendo Stato-cerniera non c’è stato riconosciuto. Dovevamo pretendere di scontrarci sul tema immigrazione con il resto dell’Europa. Dovevamo pretendere di essere ascoltati, senza che “il problema” venisse scaricato su di noi, delegato a noi.
La perenne campagna elettorale di Renzi, che sul piano internazionale sembra più voler acquistare una credibilità diplomatica piuttosto che porre e imporre temi, non ci sta aiutando ma ci sembra ingeneroso dare a questo governo ogni responsabilità. L’Europa colpevolmente tace, possiamo però tentare di cambiare le cose. Possiamo impegnarci a interpretare, a raccontare, a non permettere che queste vite siano schiacciate e sprecate in questo modo. Che siano lasciate indietro, tanto indietro da sparire dalla nostra vista. Diventando un fantasma, uno stereotipo, un fastidio.
Inventarci percorsi laterali, chiamare a raccolta tutta la creatività possibile. Parlarne in tv e sul web ma in modo diverso: come dicevamo “profugo” o “clandestino” sono termini che diluiscono la specificità umana costruendo una distanza irreale che abbassa il volume all’empatia.
Dobbiamo chiedere ai partiti di candidare donne e uomini che vengono da quest’esperienza, aprire loro le università. Tutto questo diminuirà il consenso politico con la solfa del «prima noi e poi loro»? Probabilmente sì, accadrà questo. Ma solo nella prima fase ben presto ci si accorgerà dell’enorme beneficio che avremmo. La storia degli sbarchi e dei flussi di migranti deve diventare un tema che il governo sentirà fondamentale per il suo consenso.
Renzi e il suo governo sono solleciti a rispondere quando un tema diventa mediatico e popolare: se percepiscono che il giudizio su di loro sarà determinato dal problema migrazione inizieranno a sparigliare, a trovare nuova strategia ad avere nuovi sguardi. Il semestre italiano in Europa è stato una profonda delusione, in termini di proposte sui flussi dei capitali criminali (era l’occasione per porre il tema del riciclaggio) e in termini di emigrazione. Ma in questo momento inutile rimpiangere il non fatto è necessario che l’Europa decida in maniera diversa. Dare spazio non episodico alle vicende dei migranti. La tv li accolga, cominciando a pronunciare bene i loro nomi e quelli delle loro nazioni, raccontando il loro quotidiano e la loro resistenza.
Gli unici che in queste ore rappresentano ciò che l’Europa dovrebbe essere sono gli italiani, i molti italiani che salvano vite tutti i giorni rischiando di violare leggi. La figura che sintetizza questi italiani colmi di onore è descritta dal pescatore Ernesto nel bellissimo film “Terraferma” di Crialese che viola l’ordine della Capitaneria di tenersi con il suo peschereccio lontano da un gommone rispondendo con un semplice , umano e potente: «Io gente in mare non ne ho lassata mai».
OLTRE novecento persone morte in un barcone, in viaggio dalla Libia verso la Sicilia. Sparite in fondo al mare. Insieme ad altre migliaia, vittime di molti altri naufragi. Accomunate e travolte dalla stessa disperazione.
CHE spinge ad affrontare il mare “nemico” per sfuggire alla fame, alla miseria, alla violenza. Oggi: alla guerra. Più che di “migrazione”, si tratta di “fuga”. Anche se noi percepiamo la “misura” della tragedia solo quando i numeri sono “smisurati”. Salvo assuefarci anche ad essi. Ed è questo, come ho già scritto, che mi fa più paura. L’abitudine. La distanza da una tragedia che, invece, è a due passi da noi. La tentazione di “piegarla” e di “spiegarla” in chiave politica. Per guadagnare voti. Eppure le migrazioni sono un fenomeno ricorrente. Tanto più e soprattutto in fasi di cambiamento e di trasformazione violenta (in ogni senso), come questa. Allora, le popolazioni si “mobilitano”, alla ricerca di nuove e diverse condizioni di vita.
È capitato a noi italiani, lo sappiamo bene. In passato, ma anche oggi. Soprattutto ai più giovani. D’altronde, due italiani su tre pensano che i loro figli, per fare carriera, se ne debbano andare all’estero (Osservatorio Europeo sulla Sicurezza, curato da Demos e Osservatorio di Pavia per Fondazione Unipolis). Come, puntualmente, avviene. Infatti, l’Italia è al quinto posto in Europa, come Paese di immigrazione. Dopo Gran Bretagna, Germania, Spagna e Francia. Ma — il fenomeno è meno noto — è al quarto posto come Paese di “emigrazione”. Gli stranieri che vivono — e lavorano — in un Paese dell’Ue sono infatti soprattutto turchi, marocchini, rumeni e, appunto, italiani. In Germania, Svizzera e Francia, dunque, noi siamo come i marocchini e i turchi. Proprio per questo, peraltro, le paure sono, al proposito, comprensibili.
La xenofobia, letteralmente: paura dello straniero, riflette l’impatto con un fenomeno nuovo. Che si è sviluppato in modo rapido e violento. Secondo il Centro Studi e Ricerche Idos, gli stranieri in posizione regolare, alla fine del 2013, erano circa 5 milioni e 440 mila. Cioè, l’8% della popolazione. Con un aumento rispetto all’anno precedente di circa il 4%. In confronto al 2004, quando gli immigrati erano meno di 2 milioni, significa un aumento di quasi tre volte. E di 4, rispetto al 2001. Il nostro paesaggio sociale e demografico, dunque, è cambiato profondamente e molto in fretta. Difficile che questo avvenga senza fratture, senza reazioni. Tuttavia, nonostante tutto, la società italiana si è adattata. Per necessità, ovviamente, visto che gli occupati stranieri sono 2,4 milioni, oltre il 10% del totale, mentre nel 2001 erano solo il 3,2%. Ma anche perché ha cominciato ad abituarsi alle diversità, alle differenze etniche e culturali. Come altrove si sono abituati a noi, in passato.
Anche se la recente Indagine dell’Osservatorio sulla sicurezza in Europa (febbraio 2015), condotta da Demos (insieme all’Osservatorio di Pavia e alla Fondazione Unipolis), rileva un deterioramento degli atteggiamenti verso i migranti, in Italia. Più di un italiano su tre percepisce, infatti, gli immigrati come un “pericolo per l’ordine pubblico e la sicurezza delle persone” (33%). Tuttavia, occorre rammentare che, fra il 2007 e il 2009, questo indice aveva proporzioni ben diverse: fra il 45 e il 50%. Da allora l’immigrazione non ha smesso di crescere. Ma è cambiato l’approccio. Da parte della società, anzitutto. Perché, come si è detto, ci siamo abituati agli “altri intorno a noi”. E abbiamo cominciato, per questo, a percepirli come “altri noi”.
Così, la diffidenza ha cominciato a declinare. Per altro verso, è cambiata la narrazione del fenomeno da parte dei media. Come ha sottolineato l’Osservatorio di Pavia, negli ultimi anni le notizie sull’immigrazione, sui notiziari di prima serata delle principali reti nazionali, continuano ad essere numerose: 1007 notizie nel 2013 e 901 nel 2014. Ma, soprattutto dopo la visita di papa Francesco a Lampedusa, nel 2013, i sopravvissuti al mare diventano “migranti” e non più “clandestini”. E le ordinarie storie di intolleranza, raccontate in precedenza, lasciano il passo a storie di solidarietà, altrettanto ordinarie. Dai luoghi dei naufragi. Lo stesso avverrà, sicuramente, anche questa volta.
Vale la pena di aggiungere, ancora, che l’immigrazione è vissuta come un problema anche altrove. In Europa. L’immigrazione è, infatti, considerata una delle due principali emergenze dal 13% degli italiani (Pragma per l’Osservatorio Europeo sulla Sicurezza in Europa), ma da quasi il 50% in Gran Bretagna e in Germania. D’altronde, da noi l’immigrazione è sempre più di “passaggio”. Verso altri Paesi che offrono prospettive di lavoro migliori. Perché l’immigrazione, non dobbiamo dimenticarlo, può essere fonte di preoccupazione, ma è, comunque, un indice di sviluppo. Quando gli immigrati cominciano ad andarsene, come effettivamente avviene da qualche tempo, è perché il nostro mercato del lavoro non è più in grado di attrarli e di assorbirli.
Tuttavia, ieri come oggi, in Italia come altrove, gli immigrati possono essere una risorsa politica. Soprattutto in tempo di campagna elettorale. Un argomento agitato da imprenditori politici della paura, per tradurre l’insicurezza — e le vittime degli scafisti — in voti. Il Front National, in Francia. Ukip di Farage, in Gran Bretagna. La Lega di Salvini, in Italia. Così diversi eppure così vicini. Nel segno dell’Anti-europeismo e della paura degli altri. Ma invocare blocchi navali e respingimenti, di fronte a tragedie immense, come quella avvenuta ieri nel mare di Sicilia, non è in-umano. È semplicemente ir-reale. Come se fosse possibile — oltre che giusto — fermare la fuga dalla guerra e dal terrore che ci assediano. A pochi chilometri da noi.
Ma l’unico modo per fermare i disperati che, a migliaia, si dirigono verso le nostre coste — e, a migliaia, muoiono nel viaggio. Ostaggi di mercanti di morte. L’unico modo possibile per respingerli, per tenerli lontani da noi: è chiudere gli occhi. Fingere che non esistano. Rinunciare alla compassione verso gli altri.
Non avere pietà di noi stessi.