il Fatto Quotidiano, 21 novembre 2017. «"Cosa possiamo fare se un luogo che amiamo non sa più prendersi cura di sé?" Cosa dovremmo fare, se questo luogo si chiama Italia?». (p.d.)
Giulio Tremonti, che sta ora lanciando con Vittorio Sgarbi un qualche loro rinascimento elettorale, passerà alla storia per qualcos’altro. Per una frase scolpita tra i Fatti e Detti Memorabili del berlusconismo: “Con la cultura non si mangia”. L’antico ministro del Tesoro sostiene di non aver mai pronunciato quelle parole, e possiamo anche credergli anche se, nei suoi anni al governo, a quel principio egli sempre si attenne, come a un Vangelo privato.
A lui risale, con la passiva complicità di Sandro Bondi, il dimezzamento del bilancio dei Beni culturali, le cui conseguenze ancora si sentono; a lui, con l’attiva complicità di Mariastella Gelmini, gli irresponsabili tagli ai bilanci di università e ricerca che costringono all’esilio migliaia di giovani ricercatori, accolti a braccia aperte in tutto il mondo, e a nostre spese (la formazione l’abbiamo pagata noi). E il degrado dei patrii costumi non si arresta: forse per mostrare che con la cultura si mangia, a Montepulciano il famoso paramento murario di palazzo Bucelli, che schiera in facciata decine di urne etrusche come biglietto da visita di un collezionista settecentesco, serve ormai ad appenderci salami e prosciutti. La foto, scrive l’egittologo Francesco Tiradritti, parla più di mille parole. Segnala una gerarchia, prima gli affari e poi gli etruschi; e mette in soffitta la storia sotto una coltre d’insaccati. Col permesso o col silenzio, s’immagina, delle “autorità preposte”. E sì che gli Statuti di Montepulciano del 1337 stabilirono chiaramente “che siano conservate e mantenute in buono stato tutte le strade pubbliche, e non sia permesso ad alcuno di occuparle abusivamente”, punendo severamente chiunque vi faccia per proprio vantaggio qualcosa d’improprio. I contravventori, proseguono gli Statuti (art. VI, 194) dovranno essere obbligati dal sindaco a riparare ogni danno.
La stessa identica gerarchia di valori (prima gli affari, poi la bellezza, l’arte, la storia, il paesaggio) governa dappertutto le scelte politiche. Per restare in Toscana, da poco il Comune di Viareggio ha annunciato l’intenzione di asfaltare una striscia al centro del parco urbano, a sud dello stadio dei Pini, creandovi un’ampia strada verso il mare. Contestata dalle associazioni ambientaliste, questa nuova viabilità distrugge una pista ciclabile e spacca in due il parco urbano che è tra le caratteristiche più amate e celebrate di Viareggio: definendola “asse di penetrazione”, i comunicati comunali fanno uso di una metafora a dire il vero assai più adatta a etichettare uno stupro. Ma a quel che scrive la stampa locale la decisione è presa, e le “categorie produttive” sono invitate a esultare. I ciclisti, forse perché improduttivi, un po’ meno.
Il bello è che questa lenta agonia delle nostre città e dei loro parchi si gioca in nome della bellezza e del turismo. Altro esempio toscano, Cortona. Un recentissimo film della regista americana Sarah Marder e di Olo Creative Farm (The Genius of a Place / L’anima di un luogo) racconta la storia assai istruttiva di questa meravigliosa piccola città, sul confine con l’Umbria, da quando un libro di enorme successo nel mondo anglofono, Sotto il sole della Toscana di Frances Mayes (con relativo film hollywoodiano), ne ha fatto la meta obbligata di un turismo di massa che rischia di distruggerne proprio quelle caratteristiche che fino a qualche anno fa la rendevano unica, attrattiva, piacevole. In questi giorni, il Touring Club Italiano ha scelto e lanciato questo film come rappresentativo di un processo di degrado che minaccia molte città italiane: “Di turismo si può morire. Succede quando una località piccola assurge per motivi diversi alla notorietà. Orde più o meno pacifiche invadono le strade di luoghi altrimenti tranquilli, qualcuno odora l’affare e inizia ad aprire ristoranti e negozi di souvenir a misura di turista, le case diventano b&b, le stanze vengono messe su Airb&B e interi palazzi vengono venduti a stranieri facoltosi che ci vivranno se va bene una settimana l’anno. Così il turismo, benedetto e cercato, finisce per essere tanto invasivo da snaturare l’anima di un luogo e compromettere il suo equilibrio: una quantità esorbitante di macchine e di rifiuti durante l’alta stagione, per esempio, insieme a un utilizzo eccessivo delle riserve idriche”. È quello che si è cominciato a chiamare over-tourism, per analogia con l’over-booking dei viaggi aerei: con la differenza che con l’over-booking qualcuno resta a terra, con l’over-tourism tutti salgono a bordo e la nave affonda.
La nave che affonda è la forma e lo spirito delle città: inseguendo le aspettative (vere o presunte) dei turisti, la qualità di vita dei residenti passa in secondo piano. Anzi, secondo una specie di pulizia etnica in base al censo, molti residenti non reggono più il gioco, e i centri storici si spopolano (Venezia in laguna ha perso 120.000 abitanti negli ultimi cinquant’anni, passando da 175.000 a 54.000). Intanto le periferie si gonfiano di pessime architetture, e i meno abbienti non hanno altra scelta che di andarci a vivere, rendendo il centro sempre meno “vero”, meno autentico, meno civile. E si diffonde l’idea che il futuro delle nostre città non è più (come negli ultimi tremila anni) la creatività e l’inventività dei cittadini, ma la loro abilità di servire i flussi turistici, chiudendo occhi orecchi e cervello a qualsiasi altro stimolo. Come si chiede Sarah Marder nel suo film, “cosa possiamo fare se un luogo che amiamo non sa più prendersi cura di sé?”. Cosa dovremmo fare, se questo luogo si chiama Italia?