La Repubblica, 16 maggio 2015
In Europa, la modernizzazione è avvenuta in un arco temporale di secoli, e dunque è stato possibile adattarsi alla stessa, ammorbidire il suo impatto dirompente, attraverso il Kulturarbeit, vale a dire la formazione di nuove narrazioni e miti sociali; in altri contesti invece – in modo esemplare nelle società musulmane – l’impatto della modernizzazione è stato diretto, senza schermi o differimenti, determinando il collasso del loro universo simbolico: queste società hanno perso il loro fondamento (simbolico) senza avere il tempo di stabilire un nuovo equilibrio (simbolico). Non stupisce allora che, in alcuni casi, sia stato necessario levare lo scudo del “fondamentalismo”, la riaffermazione psicotico-delirante- incestuosa della religione quale accesso diretto al Reale divino; il che ha prodotto effetti disastrosi, in particolare la rivincita dell’oscena divinità superegotica che esige tributi di sangue. Il dominio del Super-io è uno degli aspetti che accomuna la permissività postmoderna e il nuovo fondamentalismo. Ciò che li distingue è il luogo del godimento: nel primo caso, a dover godere siamo noi; nel fondamentalismo, a godere è Dio.
Forse il simbolo supremo della devastata Corea post-storica è l’evento musicale dell’estate 2012: Gangnam Style di Psy. Il video di questo brano è il più visto di tutti i tempi, dopo aver superato, su YouTube, il numero di visualizzazioni di Beauty and a Beat di Justin Bieber. Il 21 dicembre 2012, giorno in cui chi dava credito alle predizioni del calendario maya si attendeva la fine del mondo, Gangnam Style ha raggiunto il numero magico di un miliardo di visualizzazioni. È probabile allora che gli antichi Maya avessero ragione: ciò èeffettivamente il segno del collasso di una civiltà. Il testo della canzone e l’allestimento scenico del video si prendono gioco dell’insensatezza e della vacuità dello Gangnam Style (secondo alcuni, con intento sottilmente rivoluzionario); malgrado questo, è difficile non farsi catturare dal demenziale ritmo da marcetta, riprodurlo in modo puramente mimetico. Il Gangnam Style è un prodotto ideologico in virtù della distanza ironica che stabilisce con il suo contenuto. Molti spettatori trovano la canzone disgustosamente seducente, e cioè «amano odiarla», o, piuttosto, amano trovarla ripugnante, e così la ascoltano ripetutamente per prolungare il disgusto – questa natura compulsiva dell’oscena jouissance è ciò da cui la vera arte dovrebbe liberarci. Ma non dovremmo allora osare un parallelo tra un concerto di Psy in un grande stadio di Seul e gli spettacoli allestiti non molto lontano, oltre la frontiera, a Pyongyang, per celebrare gli amati leader nordcoreani? In entrambi i casi, non siamo forse di fronte a rituali neosacri indirizzati a una jouissance oscena?
Si potrebbe ritenere che in Corea, come altrove, sopravvivano numerose forme di saggezza tradizionale in grado di mitigare l’impatto traumatico della modernizzazione. Tuttavia, è facile riconoscere come queste vestigia della tradizione siano già state trans-funzionalizzate, tradotte in strumenti ideologici volti ad accelerare la modernizzazione stessa. Questa impressione trova conferma nella cosiddetta spiritualità orientale (il buddhismo), che invita a stabilire un rapporto più “gentile”, equilibrato, olistico ed ecologico con il mondo. Non basta affermare che il buddhismo occidentale – questo fenomeno pop che predica l’indifferenza verso le frenetiche e competitive dinamiche del mercato – è verosimilmente la via più efficace per prendere parte alla società capitalistica preservando l’apparenza della salute mentale (in breve, che è l’ideologia paradigmatica del tardo capitalismo); occorre anche aggiungere che non è più possibile contrapporre questo buddhismo occidentale alla sua “autentica” versione orientale.
La mia analisi sembra essere confermata da Propaganda, un documentario del 2012 (facilmente reperibile in rete) sul capitalismo, l’imperialismo e la mercificazione della cultura di massa in Occidente, in particolare sugli effetti pervasivi di questi fattori in ogni aspetto della vita delle moltitudini beatamente istupidite e zombificate. Si tratta di un mockumentary, una parodia che finge di essere nordcoreana, mentre in realtà è stata girata da un gruppo di neozelandesi. Vengono illustrati l’uso della paura e della religione per manipolare le masse e il ruolo dei media nel distogliere l’attenzione dai problemi cruciali attraverso una varietà di diversivi. Uno dei pregi del film è il modo in cui demolisce il culto della celebrità: affermando che Madonna o Brad e Angelina «vanno a fare shopping di bambini nei paesi del Terzo mondo »; analizzando l’ossessione occidentale per la vita “glamour” dei vip e l’individualismo, unitamente all’indifferenza per le condizioni di vita dei senzatetto e in generale di chi soffre; raffigurando i vip come strumenti di mercificazione, anche inconsapevoli, ruolo che spesso li conduce sull’orlo della follia – tutto questo è trattato in modo talmente puntuale da risultare spaventoso: è il mondo attorno a noi. Il documentario, in particolare la parte dedicata a Michael Jackson – uno sguardo su «cosa ha fatto l’America a quest’uomo» –, sa raccontare verità difficili da digerire.
Se cancellassimo quegli spezzoni in cui si esalta la saggezza del grande e amato leader ecc., Propaganda verrebbe a coincidere con una classica critica del consumismo, della mercificazione e della Kulturindustrie – specificamente nello stile del marxismo occidentale della Scuola di Francoforte. Ma si deve prestare attenzione a un’avvertenza all’inizio del film: la voce narrante rivela agli spettatori che, per quanto ciò che vedranno potrebbe imbarazzarli e scioccarli, il grande e amato Leader confida sul fatto che siano abbastanza maturi da sopportare l’orribile verità sul mondo esterno – parole che un’autorità benevola, protettrice e materna userebbe per comunicare a un bambino un evento spiacevole.