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Adriano La Regina
La storia riaffiora oltre l'asfalto
19 Ottobre 2013
Roma
Intervistato da Federico Gurgone, il soprintendente romano dal 1976 al 2004, analizza anche storicamente il caso di via dei Fori Imperiali. «L'aspirazione a creare una zona monumentale nel cuore di Roma è sempre esistita».

Intervistato da Federico Gurgone, il soprintendente romano dal 1976 al 2004, analizza anche storicamente il caso di via dei Fori Imperiali. «L'aspirazione a creare una zona monumentale nel cuore di Roma è sempre esistita». Il manifesto, 18 ottobre 2013

La prima giunta di sinistra ottenne il Campidoglio con lo storico dell'arte Giulio Carlo Argan nel 1976 e lo resse fino al 1985, termine del mandato di Ugo Vetere. In mezzo, la breve e intensa esperienza di Luigi Petroselli. Soprattutto con lui, nonostante gli anni di piombo, la Città Eterna parve davvero lanciata verso quella modernità ancora agognata. Il segno programmatico della discontinuità fu la visione audace di una rivoluzione urbanistica. L'idea di un parco archeologico centrale senza eguali, che sacrificando via dei Fori Imperiali collegasse i fori all'Appia Antica, non poteva accontentarsi di restare materia di discussione per soli intellettuali e guadagnò per mesi le prime pagine della stampa internazionale. Tuttavia, l'ambizioso progetto, approvato in sede tecnica e politica nel novembre del 1982, si arenò con la prematura morte del sindaco. Prima però, si ottennero risultati epocali: nel 1980 furono smantellate Via del Foro Romano, che separava il Campidoglio dal Foro Romano, e la trafficata strada che scorreva tra quest'ultimo e il Colosseo, relegato al ruolo di rotatoria.

Protagonista indiscusso di quegli anni fu Adriano La Regina, soprintendente di Roma dal 1976 al 2004. È quindi d'obbligo chiedere lumi all'archeologo, all'epoca accusato di essere un «Nerone dalle manie demolitorie», per lasciarsi alle spalle gli slogan e penetrare nelle reali problematiche sollevate dal manifesto di Marino, il sindaco con cui l'archeologia torna politica per sigillare una cesura. La Regina è oggi presidente dell'Istituto nazionale di archeologia e storia dell'arte, che ha sede a Palazzo Venezia, luogo del nostro incontro.

È soddisfatto dei primi provvedimenti presi da Marino su via dei Fori Imperiali?Ho aderito con convinzione al suo programma partecipando alla manifestazione del 3 agosto. Finora, tuttavia, abbiamo soltanto ascoltato buone intenzioni, nell'ambito delle quali ottimi segnali sono rappresentati da quella che non è nulla più se non una semplice riduzione del traffico, piuttosto che una reale pedonalizzazione. Di per sé, tale provvedimento è comunque utile perché riduce l'inquinamento che, per le emissioni dei motori e le polveri prodotte dal logorio dei pneumatici sull'asfalto, danneggia gravemente i monumenti. Già avevamo avuto piena consapevolezza di questo dramma nel 1978, quando fu per la prima volta verificato e misurato il decadimento delle superfici marmoree dei monumenti romani.

Sono ancora validi i toni apocalittici usati negli anni '70, quando Argan fu assalito dal dilemma «o i monumenti o le automobili»?Considerando che negli ultimi decenni il traffico è aumentato, simili preoccupazioni sono ancora più attuali: pedonalizzare via dei Fori Imperiali è necessario, non solo preferibile. Se i monumenti sembrano meno deturpati da quel nerume grasso che li affliggeva allora, ciò si deve alla sistematica operazione di pulitura e consolidamento finanziata con la cosiddetta Legge Speciale per Roma, la n. 92 del 23 marzo 1981. Quelle misure devono essere però replicate: curare senza eliminare le cause del danno significa accettare la ciclicità del processo. Il nostro progetto, rispetto a quello attuale, aveva un respiro maggiore perché riguardava il recupero integrale delle piazze monumentali antiche allo scopo di restituirle all'uso urbano, politica che ebbe inizio con l'apertura gratuita del Foro Romano al pubblico.
Del resto, teoricamente, non c'è differenza tra Piazza Navona e il Foro Romano. Ovviamente servono controlli e cautele, ma non possiamo dare per scontato che la nostra società sia incivile e che non sia degna di vivere un monumento. Se ragionassimo così, rinunceremmo a inseguire la crescita culturale della comunità.

Dovremmo quindi attualizzare l'antico senza imbalsamarlo, passando dal concetto di monumento a quello di luogo pubblico. In alternativa alla sostanziale continuità urbanistica tra l'epoca napoleonica, sabauda e fascista, il Parco archeologico assume il volto della più rivoluzionaria intuizione urbanistica concepita dalla Roma moderna.L'aspirazione a creare una zona monumentale nel cuore della città è sempre esistita. Le basi teoriche vennero gettate nel Rinascimento, quando Raffaello volle ricostruire con il disegno la città antica per riguadagnarne la conoscenza. Questa volontà diventò concreto impegno politico nel primo ventennio del XIX secolo, nel momento in cui Pio VII iniziò la trasformazione del Campo Vaccino in un'area archeologica unitaria. Solo nel 1980, con l'eliminazione della strada ai piedi del Campidoglio e il collegamento del Colosseo con il Foro Romano, tale programma è stato completato. Il nostro progetto, quello formalizzato nel 1982, non era stato invece mai adombrato, se non in maniera larvale all'inizio del '900 con Corrado Ricci. Non si poteva però pensare, allora, di sbancare lo storico quartiere Alessandrino, costruito a partire dal XVI secolo sui resti dei Fori Imperiali. La possibilità di immaginare un'organizzazione diversa di quello spazio nacque solo constatando che, con le demolizioni di età fascista, lì si è creato un vuoto. Se ciò non fosse accaduto, in seguito a nessuno sarebbe venuto in mente di scavare un intero rione rinascimentale, come nessuno oggi pensa di buttar giù Piazza Navona per tirar fuori lo Stadio di Domiziano.
Tutto cambiò al cospetto di una catastrofe. Nel 1944, a Palestrina, fu distrutto da un bombardamento l'abitato medioevale sovrappostosi al Tempio della Fortuna Primigenia: a quel punto, fu d'obbligo recuperare il santuario. Allo stesso modo, anche a Roma abbiamo assistito alla cancellazione totale di secoli di storia per creare uno stradone anodino diventato presto un'autostrada urbana. A questo punto, siccome al di sotto abbiamo capolavori di Apollodoro di Damasco, i vari fori e il Tempio della Pace, spingiamoci oltre e scaviamo via dei Fori Imperiali. Ne vale la pena.

Pensa sia questo l'obiettivo del sindaco?C'è sicuramente una certa timidezza da parte dell'amministrazione, forse per evitare di riaprire in maniera eclatante dibattiti che, oltre tutto, non possono che essere utili, se l'opinione pubblica viene coinvolta con chiarezza. Un progetto superiore deve esserci necessariamente. Una semplice pedonalizzazione avrebbe una dimensione contenuta anche perché riguarderebbe solo i romani e turisti che, probabilmente, preferirebbero passeggiare nei fori piuttosto che su via dei Fori Imperiali. Il recupero di un nucleo monumentale senza pari al mondo, invece, accenderebbe un interesse universale. Quanto sta succedendo può evolvere in senso positivo, oppure si può arenare nelle secche di un innocuo cabotaggio.

Quale senso avrebbe la strada senza automobili, taxi, autobus? La via non è un monumento in sé. È chiaro che una pedonalizzazione totale porterebbe nella direzione del suo scavo. Se c'è un padre nobile di un simile approccio, il merito va soprattutto all'architetto Leonardo Benevolo: il teorico di una nuova Roma in cui si deve costruire per sottrazione, non per addizione. Tanti e tali i guasti speculativi da cui è stata mortificata, che per restituire alla città decoro urbano e qualità della vita bisogna procedere per eliminazione. Fu Benevolo, considerato da molti un matto, un Nerone peggiore di me, a conferire valore scientifico al nostro progetto, coinvolgendo urbanisti di primo piano e specialisti del traffico.

Una via dei Fori Imperiali non pedonale ha inoltre il difetto di concentrare il traffico sul centro, mentre bisognerebbe de-localizzare Roma per migliorarla. Il dibattito sui fori deve riguardare anche la periferia? Toccare punti nevralgici comporta obbligatoriamente un nuovo disegno della città, globale. Troppi interventi hanno stravolto la periferia romana. Noi avevamo individuato lo strumento cardine della sua protezione nel vincolo dei suoli agricoli, chiedendo invano una legge che li tutelasse. La maggior parte dei terreni urbani sono stati oggetto di manovre speculative per poterli acquistare come suoli agricoli e, in seguito, chiederne la conversione in edificabili: costa molto meno trasformare un campo in un quartiere, che intervenire su un quartiere già esistente. Pensammo che se questi terreni fossero stati tutelati sarebbe stato indotto automaticamente il recupero delle periferie, così come era avvenuto per i centri storici grazie alla legge Ponte del 1967.

Una prospettiva di città, quella degli anni che vanno dal 1976 all'85, alimentata da un coraggio mai più ritrovato. Perché fallì?Se Petroselli non fosse scomparso così improvvisamente, avremmo ottenuto successi maggiori. Non so, tuttavia, se avrebbe avuto la forza di portare a compimento l'intero progetto. Si cristallizzarono subito due posizioni opposte e troppi furono gli interessi in ballo perché la cultura non fosse soverchiata dalla politica. Il dibattito fu ferocissimo, come si può leggere sui quotidiani dell'epoca. E, alla fine, prevalse la Roma democristiana.

Ma lei ancora ci crede?Io sono sicuro che il Parco Archeologico Centrale si farà e che l'asse Fori-Appia andrà ben oltre i limiti del comune di Roma. L'incertezza riguarda soltanto i tempi. L'idea ha una forza di attrazione inarrestabile; il futuro asseconderà naturalmente questa tendenza. Ci piacerebbe però che non fosse troppo in là, che non ci vogliano duecento anni come fu necessario per riportare in vita il Foro Romano.

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