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Stefano Fatarella
La storia di Stefano, Cent’anni d’Italia
15 Agosto 2005
Altre persone
Questo testo è la rielaborazione, autorizzata dall’autore, di alcune e-mail che ci siamo scambiati nel caldo del luglio 2002. Il primo capitolo del testo è una e-mail che Stefano Fatarella mi ha inviato a seguito della pubblicazione sul mio sito della locandina e alcune recensioni del film La meglio gioventù, di Marco Tullio Giordana. A una mia breve replica in calce alla sua lettera Stefano mi ha risposto con i messaggi pubblicati qui di seguito.

La meglio gioventù

Sono contento che ti sia molto piaciuto . Non ho ancora avuto l'occasione di vederlo ma da quando ho percepito il senso del film mi sono ripromesso che devo vederlo perché credo che possa essere il mio film.

Quando ho visto in un trailer parte della scena dei camion militari a Firenze vicino agli Uffizi nel novembre del '66, ho avvertito un brivido: non ero a Firenze allora, andai poi a Grosseto da miei nonni e lìvidi la rotta dell'Ombrone vicino all'Aurelia dopo il ponte Mussolini. Però feci apposta sega a scuola coscientemente (ero appena entrato in quarta ginnasio) poi con l'autorizzazione dei miei, per andare per 4/5 giorni di seguito dalla mattina alla sera, a pulire i libri che portavano a camionate dalla biblioteca nazionale di Firenze. Eravamo a centinaia di ragazzi e ragazze in uno edificio all'Eur. Si era in saloni immensi, impregnati di umido, odore di muffa e di gasolio, ad adagiare su banchi di legno migliaia di libri manoscritti corredati di splendide miniature; si sollevava con massima cura e cautela ogni pagina, servendoci di pinzette, cercando di separarle senza romperle o strapparle. Dentro c'era di tutto: fango, piscio, benzina, sigarette, pezzetti di vetro, schifezze di ogni genere. Si puliva con attenzione ogni pagina usando piccole spugne morbide imbevute di acqua, poi ogni pagina veniva asciugata con fogli di carta assorbente. Il lavoro veniva svolto a coppie; io quattordicenne facevo coppia con una bellissima ragazza del primo anno di lettere (una donna per me: me ne invaghii). Ogni volta che si finiva di pulirne uno, la sala scoppiava in un applauso. Non so se ti rendi conto del significato emblematico dell'applauso: applausi così non li ho mai più sentiti né con le orecchie né col cuore. Era molto toccante e commovente: giorni intensi e indimenticabili.

Chissà se oggi da parte delle giovani generazioni ci sarebbe lo stesso slancio, analogo senso di responsabilità e di generosità nel capire che bisogna curare lo scrigno della nostra cultura nazionale, del nostro Paese. Ho più che qualche dubbio. Forse la scuola di allora, nonostante tutto, nonostante i sette in condotta, nonostante la giusta severità, nonostante le espulsioni se facevi il cretino (e io lo feci), nonostante fosse la scuola autoritaria dei padroni, anche questo era riuscita a farci capire: il rispetto della cultura nazionale. Purtroppo questo capitava solo in alcune scuole e solo per un parte della cultura nazionale, quella repubblicana e anti-fascista essendo al più e al meglio trattata alla fine dell'anno scolastico e in fretta facendo cenni di Levi, Calvino, Fenoglio e sempre che si avesse la fortuna di trovare un docente colto e sensibile, ma era già qualche cosa rispetto al vuoto di oggi. Magari proprio quella scuola autoritariadei padroni, oltre alla solida scuola di famiglia, mi ha insegnato a capire il senso dell'appartenenza alla res-pubblica. Io non so quanti di noi ragazzi riflettevano pulendo quei libri, ma molti ci si buttarono con slancio, con semplice idealità, senza chiedersi tanto il perché. Ci sentivamo che si doveva farlo, forse perché dentro, in fondo, si pensava semplicemente che fosse un nostro dovere civico e morale. Cominciò così, dal pulire quel fango fetente, quella lunga marcia che mai sarà compiuta da noi; così cominciò a prendere forma quella meglio gioventù che oggi, in parte, costituisce una fetta importante di quello che viene definito in maniera cretina, inadeguata e un po’ offensiva il "ceto medio riflessivo". Quei giovani uomini e donne che hanno gettato se stessi talvolta, che hanno comunque scelto di stare dalla parte dello Stato, a servizio di una collettività nazionale e che non si vergognano dell'idea di essere italiani, ma che anzi di questo modo di essere cittadini italiani sono fieri. Ed è questa quella Bella Italia che molti oltre il Brennero osservano con stupore e ammirano. E noi lo sappiamo e vorremmo che fosse così lo stile italiano di sempre. Altro che l'urlo assordante una volta ogni qualche anno intorno ad un pallone bianco tra i piedi di undici uomini vestiti in azzurro Savoia !

Chiedi: “Chissà se oggi da parte delle giovani generazioni ci sarebbe lo stesso slancio, analogo senso di responsabilità e di generosità nel capire che bisogna curare lo scrigno della nostra cultura nazionale, del nostro Paese”. Ho paura di rispondere alla tua domanda, Stefano. Perché se la risposta è no, la colpa è anche nostra.(e.s.)

L’Italia, com’era

Edoardo ho una certezza. Che non si avrebbe oggi la stessa risposta, con la stessa forza. Io non mi sento affatto in colpa se le giovani generazioni di oggi non risultano così reattive e sensibili ai richiami del senso del dovere, della giustizia, dell'equità, del senso di appartenenza alla comunità nazionale e se a questo antepongono, nei comportamenti quotidiani e per la maggior parte di loro - da che mi pare di cogliere - spesso anti-valori. Forse voi all'università avete qualche cosa da chiedervi e lo sai. Non mi sento in colpa se il 51% degli italiani hanno votato Berlusconi.

Certo io ho avuto la grande fortuna di avere un padre che si è fatto colto e intellettuale; che da una famiglia di proletari semianalfabeti (nonno Modesto classe 1891 manovale delle FFSS e prima palafreniere a un soldo al giorno al deposito equino del Reale Esercito Italiano coi cavalli maremmani in mezzo alla malaria della piana del marais tra mare e Grosseto; nonna Maria contadina casalinga) già a sedici anni scriveva cose splendide, che era amico carissimo di Luciano Bianciardi, che da socialista combattè contro i fascisti prima della guerra, durante la guerra e nella lotta partigiana affianco ai contadini del Monte Amiata e della sua Maremma. Studiò alla facoltà di magistero a Roma, lavorando come un povero cristo, perché Modesto non aveva i soldi. Poi lo chiamarono alla guerra. Alla fine si fece il culo per lavorare.

Con mia madre andarono a lavorare per l'UNRA-CASAS alla Martella (ti dice nulla ?) assieme ai loro due piccoli figlioli. In quel borgo di contadini e contadine ignoranti organizzarono i capifamiglia ad occupare le terre. E fummo buttati fuori da li con il foglio di via dei Carabinieri. Papà fu cacciato dalla Rai dopo aver fatto bellissimi documentari sulla vita dei camionisti, sulle scuole inglesi e sull'inaugurazione dell'autostrada Milano-Bologna, perché non volle prendere la tessera della DC. Io ho fatto e faccio la mia parte e mio fratello pure (è stato anche in galera, seppure perpoco– assieme ad un altro ragazzo e ad un operaio edile furono incolpatidi blocco stardale e di resistenza a pubblico ufficiale: protestavano assieme ai genitori di una scuola media inferiore di una borgata di Roma per i tripli turni: quella gente voleva semplicemente avere servizi pubblici rispettosi dei loro diritti - e pure quando mio padre lavorava a Regina Coeli. Papà per estremo senso della giustizia non lo volle neppure vedere: non perché se ne vergognasse, ma solo perché voleva che avesse lo stesso identico trattamento degli altri cittadini carcerati.).

Mia madre è di altra origine: la piccola borghesia veneziana catto-fascista. Lasua famiglia di Venezia-Cannaregio è piena di medaglie di guerra, pure d'oro. Mio padre solo d'argento ma per la guerra di liberazione contro i nazi-fascisti. Mamma Elettra è stata sottotenente delle ausiliare della Repubblica di Salò; comandante di un reparto di repubblichine ad Alessandria venne imprigionata e come POW (Prisoner Of War) internata per un bel po’ in un campo di prigionia americano a Lucca. La guerra aveva fregato anche lei: era al primo anno di fisica quando si convinse che il basco repubblichino in testa era un gran cosa. Poi, dopo, comprese tutto e divenne mia madre: severa, onestissima, attaccata al dovere peggio di una vite saldata, grandissima lavoratrice, grandissima generosità sul lavoro, con Bollea al neuro-psichiatrico infantile e poi al tribunale dei minori con il fratello di Aldo Moro. La vedevo trascorre le ore di notte e le domeniche spessissimo a scrivere relazioni e relazioni. Era al quarto anno di psicologia quando morì atrocemente a 59 anni. Le mancavano due esami e la tesi.

Casa nostra era negli anni sessanta e settanta un porto di mare aperto a tutti e tutto. Gli studenti del CEPAS di Piazza Cavalieri di Malta, dove papà insegnò Storia dell'Assistenza Sociale in Europa per più di vent'anni, spesso erano la sera a cena da noi dopo riunioni interminabili con papà. C'era di tutto: eritrei, somali, campani, lucani, calabresi, siciliani. Poi c'erano gli Ossicini, i Lombardo-Radice, i Calogero, i Goffredo Fofi, i Cancrini, i compagni avvocati del Soccorso Rosso e tanti, tanti compagni di Lotta Continua, di Potere Operaio, del Manifesto, del PCI e del PSI. Io ero dentro quel porto, con mio fratello e i miei due maestri.

Non mi sento in colpa di nulla. Prenderei a calci nel culo quegli imbecilli di genitori, magari anche più giovani di me, che hanno prodotto figli così deboli; sparerei raffiche di mitra a quei ministri che hanno ridotto la scuola italiana a quella fogna oscena di ignoranza e inciviltà che è; attaccherei sai ben dove quei capi di governo che hanno ridotto la televisione pubblica così com'è. Non condivido il vizio di colpevolizzarsi di qualche cosa, sempre. Se Leopardi scrisse certe cose sugli italiani già il secolo scorso, scusa due secoli fa, pensi che ci siano ragioni per mutare quelle sue osservazioni ? Se mezza Italia ha votato per decenni per i fascisti, se ha votato per la DC per sessant'anni e poi per bananopoli, se gli italiani sono refrattari a mettersi la cintura di sicurezza in auto, se mezza Italia è abusiva, se ai giovani l'idea che accettare un comportamento illecito è giusto, di chi pensi che sia la responsabilità: della sinistra? Non abbiamo fatto abbastanza, immagino che tu dica. Di che mi devo sentire in colpa? Che Pinelli è stato ucciso, delle bombe di Stato, delle lotte sindacali per i diritti civili e sociali, che si era in migliaia in piazza, che si è fischiato all'università di Roma a Lama, che partecipavo alle riunioni dei Proletari in divisa quando facevo il militare, che le città italiane sono delle schifezze invivibili, che il mercato del lavoro è così com'è, che hanno sfasciato la sanità, che impediranno un futuro dignitosi agli anziani, che hanno rubato il domani ai giovani? Non scherziamo. Se colpa c'è a sinistra mi ci tiro fuori e non da ora perché la sinistra non ha fattosempre bene la sinistra. Se pensi che la colpa sia genericamente degli italiani adulti, non sono d'accordo. A mio padre rinfacciavo sempre che la colpa era di Togliatti, di loro in fondo, di non aver voluto fare quello che si doveva fare quando si poteva fare. Al termine della sua vita forse se ne stava convincendo

Italia oggiMercato del lavoro, flessibilità, controllo

E poi leggi ancora queste righe, le avevo scritte tempo addietro e avrei voluto inviartele quando è uscita la legge Biagi. Te le mando ora qui in appresso. È una storia a lieto fine e chi l'ha vissuta si è fatto il culo senza aiuti di papà e mammà.

Mi laureai nel marzo del 1980, un po’ in ritardo per vicende di ordinaria vita: prestai servizio militare e per gravi ragioni familiari: assistetti mia madre agonizzante, devastata dalle metastasi che le avevano mangiato ogni cosa. Per nove lunghi mesi ogni giorno in ospedale al Policlinico Gemelli, dalla mattina alle sette alla sera alle dieci. La mia pelle odorava di ospedale mentre mio padre e mio fratello si erano trasferiti in un altra città per il lavoro. Ci si passa tutti in quel tunnel senza fine; non so quanto bene faccia. A me non ha fatto bene.

Per caso in una di quelle uniche e strane circostanze della vita trovai lavoro. Trovai è il termine più appropriato, come quando uno trova cento lire per terra e le raccoglie. Il mio primo impiego pochi mesi dopo la laurea e proprio per la mia professione: una fortuna rara, unica.

Il comune era piccolo ma completamente distrutto, forse più ancora nell'animo delle persone rese aride e cattive dalla terribile vicenda. In verticale non c'era più nulla, solo una grande spianata bianca di calcinacci e polvere e qualche muro in piedi. Dall'altra parte un'altra spianata bianca ma densa di casette bianche tutte uguali.

Fu grande avere uno stipendio; potei iniziare a pensare a un futuro anche se il contratto era da precario, rinnovabile di anno in anno. Il lavoro era duro, impegnativo, concreto. Richiedeva flessibilità, adattamento, dedizione e cura particolare. La teoria, la disciplina erano lontano secoli dall’urgenza di fare e di fare bene. Fino ad allora la mia vita era stata un po’ caratterizzata da una certa mobilità territoriale. I luoghi nuovi non mi erano estranei, eppure in quel paesello non era facile avere i rapporti con le persone. Però mi piaceva il lavoro, era il mio, ci credevo e ci presi gusto ad essere utile per gli altri. Era bello vedere crescere le cose, dalle delibere, ai programmi, ai progetti, agli appalti, era un prendere corpo giorno dopo giorno. Ti sentivi responsabile. Molte sere restavo in comune per la giunta o il consiglio, senza straordinario retribuito ma solo per dedizione. Tornavo a casa a notte fonda contento dopo una pizza assieme alla giunta.

Mi ricorderò la sera di un consiglio comunale in cui per le piogge torrenziali chiusero il ponte sul grande fiume perché si era rovinata una campata; o quando nel nuovo municipio di tanto in tanto i vetri e le nuove strutture vibravano e oscillavano come fossero di plastica per lunghi secondi, come se la terra non fosse paga del disastro; o quando portai a braccia una signora, immobilizzata nelle gambe, nella nuova casa in costruzione perché potesse rendersi conto della larghezza delle porte, dello spazio nelle stanze, nel bagno, nella cucina, dell'altezza degli interruttori delle luci, delle maniglie delle porte e delle finestre, dello spazio attorno ai sanitari nel bagno; le feci fare la rampa dalla strada all'ingresso di casa perché potesse entrare da sola. Era contenta la signora ma non poche furono le difficoltà per farmi comprendere dal progettista, duro di testa, e dall'amministrazione comunale altrettanto insensibile. Le feci fare la rampa con una pendenza inferiore ai limiti massimi di legge e trovai la soluzione perché la spesa fosse garantita per intero dalla Regione. Strana attenzione dedicai a quella signora, neppure presagissi la malattia che mi avrebbe colpito poi. O quella volta che quell'anziano uomo, piccolo e tarchiato dal viso rubizzo, contadino socialista, vedovo e solo, uno dei pochi sopravvissuti ad una delle tante stragi in cui perirono centinaia di poveri uomini in divisa in mezzo al Mediterraneo durante la seconda guerra mondiale: contento della nuova casa mi fece dono di un coniglio intero. Me lo appoggio sul banco dell'ufficio, appena ucciso, spellato, grondante di sangue tiepido. L'unico regalo in dieci anni trascorsi in quel comune. Non lo scorderò e mi sento fiero di questo. Ma fui costretto anche a chiamare i Carabinieri per effettuare lo sgombero dopo la procedura di occupazione di un suolo su quale c'era ... un pollaio: si spostò il pollaio vicino alla baracca e vissero tranquilli e contenti, galline e uomini, per un po’.

Dopo alcuni anni per stabilizzarci nell'impiego - molti di noi furono assunti con contratti a termine in quei comuni - decisero di farci fare un esame scritto. Partecipai con buona sicurezza, avevo lavorato sodo; con alcuni colleghi ci si trovava la sera dopo il lavoro per ripassare, approfondire, anche perché dalla teoria alla prassi del lavoro in quei comuni, così diversi perché straordinario era stato l'evento immane, la disciplina valeva molto poco: il lavoro quotidiano era un campo di sperimentazione continuo, spesso fuori dalle regole auree ordinarie.

Così feci l'esame: finalmente uscivo dal precariato. Capitò in quella occasione, come capita nella vita, di andare in tilt : mi prese l'ansia e sragionai. Fu un fiasco. Ma fu un dramma. Perdetti la possibilità di trovare un lavoro stabile e sicuro; mi ero sposato qualche tempo prima, mia moglie pure era precaria. La prospettiva di non riuscire a pagare l'affitto ci angosciava il giorno e la notte. Mi sentivo crollare il mondo addosso. In qualche brutto modo riuscii a campare, male, ma campammo, facendoci forza e prendendo quel che la vita passava.

Sperimentai in anni molto lontani i contratti di lavoro Co.Co.Co. Dodici, sei, tre mesi! Tre mesi: erano un lampo, da impazzire per la paura di restare senza soldi. Ci fu una volta in cui arrivai al giorno prima della scadenza del contratto senza che alcuno, né il sindaco né il segretario comunale, mi dicessero qualche cosa, cosa volevano fare di me: si erano dimenticati, quelli imbecilli; per fortuna deliberarono subito. Mia moglie non riusciva a mettersi in salvo sulla ciambella dello stipendio sicuro.

Niente più pensione, niente più ferie retribuite, niente più assenze per malattia pagate. Ogni cosa era diventata aleatoria e incerta. Poi qualche legislatore decise che a certi concorsi regionali potevano partecipare anche i laureati come me, cosa rara, da prendere al volo subito. Lo feci e riuscii bene agli esami con buone votazioni sia agli scritti che all'orale. Mi sentivo maturo e con esperienza pluriennale non mi detti pena neppure di studiare. Al concorso ci fu una selezione reale: da alcune decine iniziali, ne uscimmo in dieci. I posti erano tre. Il mio punteggio era elevato ... ma di un filo appena sotto il terzo in graduatoria. Abile ma non arruolato. Ancora un volta fuori dal giro.

Si diceva che avevano bisogno di gente come me in Regione, che entro la validità della graduatoria concorsuale avrebbero pescato altri. Nel frattempo bisognava sopravvivere e tirare avanti inventandosi qualche cosa e scoprendosi parte del popolo della partita IVA, della carta carburanti, dei versamenti trimestrali, del registro clienti, del registro acquisti, del registro fatture, ecc.

Il tempo passava e passò la validità della graduatoria e gli anni trascorrevano, si era vicini agli anta. Mia moglie ancora non riusciva ad aggrapparsi alla ciambella. Eravamo su un canottino minuscolo e sgonfio in mezzo ai marosi. L'affitto di casa saliva, l'equo canone sparì, il rinnovo del contratto di locazione comportò il raddoppio dell'affitto: una bomba. Si viveva alla giornata o poco più. I programmi erano un lusso non per noi. Ogni tanto osavamo per vedere solo uno spicchio di cielo: un quarantottore a Salisburgo, come essere militari in fuga. Un sabato pomeriggio a Treviso, una domenica a Venezia a ricordarsi e ritrovarsi ancora mano nella mano. Ma tutto con attenzione a non spendere una lira più del previsto perché domani chissà.

Poi uno spiraglio, forse quello buono, in Regione. Nuove funzioni, nuove figure professionali. Si ripesca nella graduatoria scaduta ma, ancora una volta, con contratto a termine, anche se biennale rinnovabile una volta sola per altri due anni: tanto poi si passa di ruolo, assicuravano. Mia moglie sempre precaria lontano dalla ciambella. Io ancora lì, in mezzo al guado: precario anche se con un lavoro e anche se mi dovevo svegliare alle cinque e mezza per prendere il treno alle sei e mezzo per andare a Trieste e se la sera prima delle otto non ero a casa.

A me andò bene: a quarant'anni entrai di ruolo. Poi anche mia moglie riuscì con un concorso a stabilizzarsi. Se mi fossi ammalato quando ero co.co.co., con pochi soldi e senza la rete della protezione sociale, sicuramente non ce l'avrei fatta a sopportare le grandi spese mediche che oggi sopporto perché lo stato sociale è uno sfascio. Meno male che la malattia mi ha colpito quando ero ormai dipendente di ruolo.

Ora lo stipendio è buono, il lavoro lo amo e credo di essere brevetto ma è troppo devastante quello che sta accadendo, c'è poco da essere fieri a dirsi italiani in questa Italia. E un po’ di stanchezza inizia a fare capolino superata la boa della metà del viaggio. In fondo quello che si vuole è essere un paese civile normale, che abbia rispetto di se e dei suoi cittadini, che sia giusto ed equilibrato. Non altro.

Ecco, anche questo è vivere con contratti di lavoro atipici, questa è la facile prospettiva di molti dei ragazzi di oggi ma anche di molti uomini e donne da rottamare, un pezzo oggi e un pezzo domani, magari insieme moglie e marito. Umiliazioni, barbarie, vessazioni, paure e angosce. Così si mercifica l'anima.

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