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Luciana Castellina
La Storia di Pietro
28 Settembre 2015
Pietro Ingrao
Un secolo in una vita.
Il cinema, la letteratura, le istituzioni, la democrazia. Quando una nuova generazione di giovani comunisti porta nel Pci l’assillo di un confronto con le trasformazioni del capitalismo italiano. Il manifesto online, 28 settembre 2015 (reprint)

Arti­colo uscito nel sup­ple­mento spe­ciale al mani­fe­sto per i cento anni di Pie­tro Ingrao il 31 marzo scorso.

Ricordo ancora niti­da­mente la prima volta che cele­brai un com­pleanno di Pie­tro Ingrao: era il 1965, lui com­piva cinquant’anni (un’età che mi parve avan­za­tis­sima) ed era mezzo secolo fa. Con San­dro Curzi, ambe­due non da molto usciti dalla irre­quieta Fede­ra­zione Gio­va­nile, gli rega­lammo il suo primo paio di mocas­sini, con una dedica che lo sol­le­ci­tava ad essere meno pru­dente: «Cam­mina coi tempi, cam­mina con noi».

Lo ricordo bene per­ché era­vamo in piena bat­ta­glia «ingra­iana», pro­prio alla vigi­lia del fati­dico XI con­gresso del Pci, quando i com­pa­gni che si rico­no­sce­vano nelle sue idee (non una cor­rente, per carità), usci­rono un po’ più allo sco­perto per soste­nerle; e lui stesso operò quella che fu defi­nita una ine­dita rot­tura. Disse con chia­rezza nel suo inter­vento con­gres­suale: «Sarei insin­cero se tacessi che il com­pa­gno Longo non mi ha per­suaso rifiu­tando di intro­durre nella vita del nostro par­tito il nuovo costume di una pub­bli­cità del dibat­tito, cosic­ché siano chiari a tutti i com­pa­gni non solo gli orien­ta­menti e le deci­sioni che pre­val­gono e tutti impe­gnano ma anche il pro­cesso dia­let­tico di cui sono il risultato».

Fu, come è noto, applau­di­tis­simo, ma tut­ta­via suc­ces­si­va­mente emar­gi­nato dal ver­tice del par­tito e «rele­gato» (allora Bot­te­ghe Oscure con­tava più di Mon­te­ci­to­rio) alla pre­si­denza del gruppo par­la­men­tare e poi della Camera dei Depu­tati. E noi dispersi in ruoli minori, fuori dal palazzo.

Lo ricordo bene per­ché in fondo fu allora che comin­ciò la sto­ria de «il mani­fe­sto», che pure vide la luce solo quat­tro anni più tardi. Senza Pie­tro, che come sem­pre nella sua vita ha fatto pre­va­lere sulle sue scelte poli­ti­che la pre­oc­cu­pa­zione di non abban­do­nare il «gorgo», quello entro cui si adden­sava il popolo comu­ni­sta. Non per paura, sia chiaro, ma per via di quello che era il modo di sen­tire pro­fondo di tutto il par­tito, il timore di sacri­fi­care l’opinione col­let­tiva alla pro­pria indi­vi­duale.

Noi del mani­fe­sto alla fine lo facemmo, ma anche per­ché le nostre respon­sa­bi­lità nel Pci erano infi­ni­ta­mente minori e dun­que il nostro gesto non avrebbe potuto certo avere le stesse con­se­guenze di quello di Ingrao. Ma non cre­diate che sia stato facile nep­pure per noi, fu anzi una scelta molto molto sof­ferta e tal­volta è capi­tato anche decenni dopo di inter­ro­garsi se non avremmo dovuto restare a com­bat­tere den­tro anzi­ché met­terci nelle con­di­zioni di essere messi fuori.

(Per favore non rea­gite, voi gio­vani, dicendo: ma che tempi, non si poteva nep­pure dichia­rare un dis­senso! È vero, non era bello. E però le opi­nioni nono­stante tutto pesa­vano più di adesso, la nostra radia­zione fu un trauma per tutto il par­tito. Ora si può dire di tutto, ma per­ché non conta più niente).

Oggi Pie­tro Ingrao di anni ne com­pie 100, e noi de il mani­fe­sto, se con­tiamo anche l’incubazione, 50.

Col tempo si è forse smar­rito il senso di cosa sia stato l’ingraismo, e anzi mi chiedo se tra i gio­vani della reda­zione del gior­nale c’è ancora qual­cuno che sa di cosa si sia trat­tato. Non fu, badate, solo una bat­ta­glia per la demo­cra­tiz­za­zione del par­tito, il famoso diritto al dis­senso. C’era molto di più: si è trat­tato del ten­ta­tivo più serio del pen­siero comu­ni­sta di fare i conti con il capi­ta­li­smo nei suoi punti più alti, di indi­vi­duare le nuove, moderne con­trad­di­zioni e su que­ste — più che su quelle anti­che dell’Italietta rurale — far leva, non per «inse­guire mille rivoli riven­di­ca­tivi» (per usare l’espressione di allora), ma per costruire un vero modello di svi­luppo alternativo.

Si trat­tava della rot­tura con l’idea di uno svi­luppo lineare, col mito della «moder­nità acri­tica», che fu alla base della cul­tura neo­ca­pi­ta­li­sta (e cra­xiana) di que­gli anni. E, ancora, il ten­ta­tivo di capire che la crisi ita­liana non rap­pre­sen­tava una ano­ma­lia (un vizio tutt’ora dif­fuso), ma poteva essere capita solo nel nesso con il capi­ta­li­smo avan­zato quale si stava svi­lup­pando nel mondo.

Dal giu­di­zio sulla fase discen­de­vano due diverse linee stra­te­gi­che e per que­sto il con­fronto non fu solo teo­rico, ma stret­ta­mente intrec­ciato con il che fare poli­tico: se biso­gnava agire per ren­dere l’Italia «nor­male», e cioè alli­nearla alla moder­nità euro­pea, o invece inci­dere su quel nesso anche per risol­vere i vec­chi pro­blemi e pre­pa­rare un’alternativa anche alla «nor­ma­lità» capitalistica.

La destra del Pci ovvia­mente si oppose a que­sta pro­spet­tiva. Quando il Pci, dopo la Bolo­gnina, fu avviato allo scio­gli­mento, pro­prio su que­sta neces­sa­ria inno­va­zione costruimmo — que­sta volta uffi­cial­mente assieme a Pie­tro Ingrao — il senso della famosa «Mozione 2» che alla liqui­da­zione del par­tito si oppo­neva. Non in nome della con­ser­va­zione ma, al con­tra­rio, del cam­bia­mento, che non faceva però venir meno le ragioni dell’alternativa al sistema ma anzi le raf­for­zava. Le vec­chie cate­go­rie non basta­vano più e Ingrao è sem­pre stato attento a non ripe­tere lita­nie ma a indi­vi­duare ogni volta le poten­zia­lità nuove offerte dallo svi­luppo sto­rico, i sog­getti anta­go­ni­sti, a capire come si for­mano e si aggre­gano per diven­tare classe diri­gente in grado di pro­spet­tare una società alter­na­tiva. Oggi e qui.

Come sapete, perdemmo.

Su quel nostro dibat­tito degli anni 60 — che trovò poi una siste­ma­zione nel 1970 pro­prio nelle «Tesi per il comu­ni­smo» del Mani­fe­sto (che non dis­sero che il comu­ni­smo era maturo nel senso di immi­nente, come qual­cuno equi­vocò — e iro­nizzò -, ma che non sarebbe stato più pos­si­bile dare solu­zione ai pro­blemi posti dalla crisi nel qua­dro del sistema capi­ta­li­stico sia pure ammodernato).

Que­sto fu l’XI con­gresso del Pci, quello spar­tiac­que delle cui emo­zioni, pas­sioni, sof­fe­renze Pie­tro Ingrao ha dato eco nel suo libro «Volevo la luna».

Nell’anniversario del suo cen­te­simo anno di vita avrei forse dovuto par­lare di Pie­tro Ingrao ricor­dan­done di più i suoi aspetti umani, la sua per­so­na­lità, il modo come ha dipa­nato la sua esi­stenza, e non invece andar subito dritta al noc­ciolo poli­tico della sua vita di comunista.

L’ho fatto per due ragioni: per­ché troppo spesso ormai nel cele­brare gli anni­ver­sari si tende a ridurre tutto ai tratti del carat­tere di chi si ricorda, alle sue qua­lità morali, e sem­pre meno a riflet­tere sulle loro scelte poli­ti­che. E poi per­ché Pie­tro in par­ti­co­lare, invec­chiando, — e forse anche per via di come sono andate le cose nella sini­stra ita­liana — ha finito per ricor­darsi sot­to­tono, per­sino con qual­che vezzo civet­tuolo, più come poeta che come diri­gente poli­tico. Che è invece stato e di primo piano.

Poeta non ha in realtà mai smesso di essere, basti pen­sare al suo modo di espri­mersi, mai poli­ti­chese, sem­pre attento a illu­mi­nare l’immaginazione e non a ripe­tere cate­chi­smi. Vi ricor­date la sua sor­pren­dente uscita nell’intervento al primo dei due con­gressi di scio­gli­mento del Pci, il XIX nel 1990, quando se ne uscì col suo cla­mo­roso «viventi non umani», per chie­dere atten­zione alla natura e alle sue speci? Non era forse una poe­sia, che come tale suonò, del resto, in quel gri­gio e mesto dibat­tito di fine partita?

Pie­tro non usava il poli­ti­chese per­ché ascol­tava. Sem­bra banale, ma quasi nes­suno ascolta. E sic­come ascol­tava è stato anche ascol­tato da gene­ra­zioni assai più gio­vani, quelle che dei nostri dibat­titi all’XI con­gresso del Pci, e del Pci stesso, non sape­vano niente. Penso al Forum sociale euro­peo di Firenze nel 2002, per esem­pio, dove il suo discorso sulla pace con­qui­stò ragazzi che non sape­vano nep­pure chi fosse.

Ascol­tava per­ché della demo­cra­zia ha sem­pre sot­to­li­neato un ele­mento ormai in disuso, soprat­tutto il pro­ta­go­ni­smo delle masse, la partecipazione.

Può sem­brare curioso, ma molto del pen­siero poli­tico di Ingrao è stato segnato dalla sua ado­le­scen­ziale for­ma­zione cine­ma­to­gra­fica. Nei molti anni in cui per via del mio inca­rico nella pro­mo­zione del cinema ita­liano ho avuto con i big di Hol­ly­wood molti incon­tri e spesso la discus­sione sci­vo­lava sull’Italia e sul come era stato pos­si­bile che ci fos­sero tanti comu­ni­sti. Un po’ scher­zando e un po’ sul serio ho sem­pre finito per ricor­rere ad un para­dosso: «Badate — dicevo — il comu­ni­smo ita­liano è così spe­ciale per­ché oltre­ché a Mosca ha le sue radici qui a Hol­ly­wood, che dun­que ne porta le respon­sa­bi­lità». E poi rac­con­tavo loro la sto­ria, tante volte sen­tita da Pie­tro, della for­ma­zione di un pezzo non secon­da­rio di quello che poi diventò il gruppo diri­gente del Pci nel dopo­guerra: Mario Ali­cata, lui stesso, e anche altri che pur fuori dai ver­tici sul par­tito ave­vano avuto una for­tis­sima influenza, Visconti, Liz­zani, De San­tis. Tutti allievi del Cen­tro spe­ri­men­tale di cinematografia.

Rac­con­tavo loro, dun­que, di Ingrao che mi aveva detto di come la sua gene­ra­zione, già a metà degli anni ’30, avesse avuto il suo ceppo pro­prio nel cinema. E, segna­ta­mente, nel grande cinema — e nella let­te­ra­tura — ame­ri­cani del New Deal, tor­tuo­sa­mente cono­sciuti pro­prio al Cen­tro gra­zie a una for­tuita cir­co­stanza: l’arrivo, come inse­gnante, di un sin­go­lare per­so­nag­gio, Ahr­n­heim, ebreo tede­sco sfug­gito al nazi­smo e chissà come appro­dato pro­prio lì, prima che le leggi raz­ziali fos­sero intro­dotte anche in Italia.

«Pro­prio quelle pel­li­cole — mi disse Pie­tro in occa­sione di un’intervista (per il set­ti­ma­nale Pace e guerra che allora diri­gevo) su una impor­tante mostra alle­stita a Milano sugli anni ’30 — mostra­vano cari­che di socia­lità, in cui c’era la classe ope­raia, la soli­da­rietà sociale, la lotta. Pro­prio gra­zie a quei film, che erano mezzi di comu­ni­ca­zione fra i movi­menti sociali e l’americano qua­lun­que, così diversi dalla cul­tura anti­fa­sci­sta ita­liana degli anni ’20 — eli­ta­ria, erme­tica — che ave­vamo amato, ma non ci aveva aiu­tato; pro­prio quei film che ci apri­vano una fine­stra sull’intellettuale impe­gnato, noi ci siamo poli­ti­ciz­zati. Sono stati il primo passo verso la poli­tica».

Que­sto nesso fra cul­tura e poli­tica è stato un tratto che ha distinto il comu­ni­smo ita­liano. E Pie­tro Ingrao ne è stato uno dei più signi­fi­ca­tivi interpreti.

Gra­zie e tanti auguri, Pietro.

Riferimenti

Su eddyburg, nella vecchia edizione, una cartella dedicata a Pietro Ingrao.
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