Il governo Monti è oggi una speranza per l’Italia. La speranza di voltare pagina dopo l’ingloriosa fine del ciclo berlusconiano, risalendo la china della credibilità perduta, tenendo insieme equità e risanamento, rimettendo in sesto il sistema politico a partire dalla riforma elettorale. Ma non basterà applaudire per sventare i pericoli che incombono sul Paese.
L’emergenza italiana chiede di essere affrontata con forza, oltre che con equilibrio e giustizia. Ci attendono scelte difficili, politiche severe e non si potrà fare a meno di una forte legittimazione del governo (che è cosa diversa dalla sua legittimità). Il governo Monti si forma in una condizione eccezionale: ma sarebbe inaccettabile che si affermasse come il commissariamento della politica da parte delle tecnocrazie europee o delle oligarchie economiche. Per nascere, invece, il nuovo governo deve poggiare su un’assunzione piena, esplicita di responsabilità dei partiti maggiori, a cominciare da Pdl e Pd. Nessuno può far finta di niente o fischiettare. Senza un loro impegno solenne, aperto alla convergenza di tutti, è meglio correre subito alle urne.
Votare non sarebbe un dramma. Il voto è la normalità, la bellezza, la forza della democrazia. E la democrazia non è un lusso, checché ne dicano alcuni. Non c’è responsabilità politica senza consenso. Ma proprio per questo, ciò che mancherà al nuovo governo, devono fornirglielo il Parlamento e i partiti. Un esecutivo può anche avere un profilo tecnico ed è opportuno che i partiti stavolta facciano un passo indietro dalla compagine ministeriale, innanzitutto perché la conflittualità tra Pdl e Pd appare irriducibile ma non esiste una sospensione della politica.
La piena assunzione di responsabilità per il Pd vorrà dire in primo luogo sostenere contenuti di equità nell’azione di risanamento e di rilancio della crescita. Le dimissioni di Berlusconi sono state un grande successo per le opposizioni. Non era facile vista l’ingessatura dell’attuale sistema. Non sarebbe stato possibile senza l’unità d’azione delle ultime settimane.
Bersani disse che il più antiberlusconiano sarebbe stato quello che l’avrebbe fatto cadere, non chi gridava più forte. Può segnare il punto. E può anche dire a testa alta che il suo partito è pronto a un sacrificio la rinuncia a elezioni immediate per aiutare l’Italia a compiere insieme un importante passo avanti.
La verifica dell’equità sociale però è decisiva. Compito del governo Monti sarà integrare con nuove misure le manovre di Berlusconi: come si farà? È chiaro che a pagare l’aggiunta ora dovranno essere soprattutto coloro che fin qui sono stati risparmiati. La lotta contro l’evasione fiscale va rafforzata, senza escludere misure straordinarie come la sovrattassa per gli “scudati”. I privilegi ingiusti vanno colpiti, eliminando il superfuo nei costi della politica ma anche le barriere di professioni, lobby, corporazioni e i superbonus dei supermanager. I grandi patrimoni e le rendite non potranno più essere esentate dal contributo al risanamento. La tassazione si deve spostare dal lavoro alla rendita, perché solo così può ripartire la crescita. E, siccome il costo sarà alto, tutti dovranno rinunciare a qualcosa. Ma se si può chiedere ai lavoratori di accelerare il superamento delle pensioni di anzianità, anticipando il passaggio al contributivo pro rata, deve essere chiaro che l’arma ideologica dell’articolo 18 va deposta. Neppure Confindustria chiede la libertà di licenziamento. Mario Monti non è un liberista, ma uno studioso che si è formato sull’economia sociale di mercato: a lui toccherà promuovere un nuovo patto sociale, superando quella politica di divisione del mondo del lavoro che Berlusconi ha perseguito con ostinazione fino all’ultimo.
Come scriviamo in questo numero del giornale, il governo Monti avrà anche il compito di restituire all’Italia una legge elettorale di tipo occidentale. Il che vuol dire almeno il ripristino di un rapporto diretto tra elettore ed eletto e l’eliminazione del premio di maggioranza (quel surrogato presidenzialista che ha stravolto il nostro modello costituzionale). Siamo a bivio dopo la Seconda Repubblica: o imbocchiamo davvero la via presidenziale (con elezione separata del Parlamento) o costruiamo un sistema parlamentare efficiente. Non è difficile fare in modo che il premier sia il leader del partito più votato, che la sera del voto sia già chiara al mondo la coalizione di maggioranza, che i governi durino normalmente una legislatura, che comunque il Parlamento possa sanzionare un esecutivo senza che si gridi allo scandalo.
La fase nuova che si apre avrà bisogno di più politica. L’auspicio è che le opposizioni a Berlusconi mantengano, nonostante i dubbi e le riserve di oggi, l’unità di questi giorni. Se venisse meno, sarebbe una chance in meno per l’Italia.
Postilla
A proposito di leggi elettorali. Ma le leggi non le fa il Parlamento?