loader
menu
© 2024 Eddyburg
Lucia Tricia; Caistor-Arendar Saffron; H
La sostenibilità sociale dello spazio urbano
25 Novembre 2011
Dalla stampa
Estratti dal rapporto Design for Social Sustainability. A framework for creating thriving new communities, Young Foundation, Londra novembre 2011. Documento integrale scaricabile (f.b.)

Estratti e traduzione di Fabrizio Bottini

Con le dimensioni assunte a scala globale dal progetto di nuovi insediamenti, emerge la necessità sia di comprendere concretamente, sia di affrontare disciplinarmente il problema delle città socialmente (oltre che economicamente e ambientalmente) sostenibili. L’esperienza insegna quanto spesso non si tenga conto sul lungo termine delle necessità sociali nel programmare ad ampia scala abitazioni e quartieri. Ciò si deve in parte ai modelli di finanziamento dei progetti, dove la pianificazione è svolta dagli uffici pubblici, ma gli investimenti sono dei costruttori privati.

Di norma si dà la precedenza alla realizzazione delle case rispetto ai servizi, per ottenere il gettito con cui si finanziano le infrastrutture o le case economiche. Gli abitanti vanno a stare così in spazi privi di negozi, scuole, autobus, spazi di ritrovo in grado di offrire relazioni sociali. La situazione si protrae spesso per parecchi anni, anche se il quartiere cresce sino a dimensioni che giustificano perfettamente quei servizi locali. Ai problemi della casa si sommano le urgenze economiche, e le varie difficoltà di rapporto fra i soggetti pubblici e privati aumentano ancora la tendenza a pensare prima alle costruzioni che alla qualità urbana. Il che non toglie l’altissimo valore sociale responsabilità politica di affrontare le conseguenze di lungo termine, il degrado dei nuovi quartieri, i problemi emergenti. Del resto sono molto elevati anche i costi di questo degrado, economici certo, ma soprattutto sociali.

Se non si risponde alla necessità e diritto di avere delle infrastrutture a orientamento sociale qualunque nuovo quartiere può rapidamente imboccare la spirale in discesa del degrado. Fra gli esempi più vistosi si possono citale le banlieue di Parigi, il complesso Cabrini Green a Chicago, Broadwater Farmnella fascia settentrionale di Londra, o Park Hill a Sheffield che oggi è in corso di riqualificazione con un costo di 170 milioni di euro. Alcuni quartieri, come il Pruitt-Igoe di St. Louis negli USA o il Fountainwell Placedi Glasgow, sono stati completamente demoliti. In altri casi si interviene con riqualificazioni profonde e altissimi costi, come a Castle Vale a Birmingham, o Robin Hood Gardens e Holly Street a Londra. Sempre a Londra il complesso Heygate a Elephant and Castle, dove abitavano 3.000 persone, è stato demolito nel maggio 2011, con un costo approssimativo di dieci milioni di euro, più naturalmente gli oltre 40 milioni per le nuove case. Le cifre poi non rispecchiano davvero il costo sociale sostenuto dalla comunità, vent’anni di convivenza col crimine, comportamenti devianti, abitazioni di scarsa qualità, la pessima fama di quartiere fra i peggiori della città.

Il complesso Heygate – insieme a tanti altri quartieri popolari degli anni ’60 e ’70 – si è attirato forti critiche per l’architettura cosiddetta “brutalista”. All’inizio piaceva anche agli abitanti per le abitazioni spaziose e moderne, ma presto si iniziò a dire che così si isolavano gli alloggi, sic ostruivano spazi “morti” aumentando il rischio di comportamenti antisociali, ambienti rigidi non in grado di adattarsi alla vita contemporanea, e costosi da mantenere. Ma poi si critica anche oggi la decisione di demolire Heygate. Ci si chiede che logica ci sia nel distruggere tante case economiche in un’epoca in cui ce ne sarebbe tanto bisogno, mettendo in primo piano quanto in vent’anni abbiano contribuito la cattiva gestione e l’abbandono, al degrado. Forse il caso Heygate è il segno di un atteggiamento che cambia verso la casa popolare in generale, lo spazio urbano, la proprietà dell’alloggio.

In altri quartieri non si riesce a realizzare una vera complessità mescolando redditi diversi, case pubbliche e private. A Londra coi Docklands, quartiere di riqualificazione degli anni ’80 e ’90, residenziale e finanziario, si sono visti purtroppo tanti appartamenti di lusso dove vanno gli operatori finanziari, ma nessun intervento di case economiche per i rediti più bassi delle famiglie dell’East End. Il che sfocia in una tensione fra chi già nel quartiere ci abitava e i nuovi arrivati, con problemi di comportamenti antisociali e identità. Prima dell’attuale tendenza alla realizzazione di nuovi insediamenti, uno dei più importanti programmi del mondo per nuove città fu quello inglese delle New Towncon32 insediamenti fra il 1946 e il 1970 abitati complessivamente da tre milioni di persone. Questa esperienza ha dimostrato come ignorare la dimensione sociale dei nuovi spazi, le aspirazioni e opinioni dei residenti, sia causa di problemi di lungo termine.

L’esame della letteratura scientifica sui vari casi di nuovi insediamenti del mondo sottolinea la difficoltà di questi spazi a trasformarsi in vere e proprie città: spesso occorrono anche più di quindici anni perché si sviluppi qualche tipo di rete sociale locale. Alcune ricerche sulla Cina rilevano quanto manchi un sistema di rapporti per periodi assai lunghi, dopo il completamento dei quartieri. Si capisce il bisogno di infrastrutture a carattere sociale di alta qualità, di servizi a sostegno degli abitanti, di partecipazione alle decisioni, di spazi e attività condivisi. Egualmente importanti anche forse meno visibili di facilitazione all’incontro fra abitanti, costruzione di reti e condivisione.

Alcune ricerche della fondazione Joseph Rowntree sui quartieri riusciti ad articolata composizione sociale individuano nove priorità. Precisamente: buone abitazioni; buone scuole; quartieri sicuri, gradevoli, ordinati; assistenti sociali; asili infantili; case economiche integrate nell’insieme; attenta collaborazione fra i vari enti interessati nel progetto; personale che segua il quartiere; supervisione degli spazi pubblici e del verde. Senza questi presupposti un nuovo quartiere difficilmente produrrà coesione,ambienti vivaci che conferiscono identità e appartenenza. I casi studiati mostrano come i quartieri privi di servizi e operatori adeguati soffrano di tutta una seri di disagi sociali. L’insegnamento delle new town britanniche è di alti tassi di malattie, anche psicologiche, isolamento spesso determinato dalla povertà dei collegamenti, raggiungere amici, parenti, posti di lavoro. Altro problema quello di abitazioni poco flessibili, dove non si riesce a mantenere abitanti o attirarne dei nuovi, scarse occasioni di partecipare alle decisioni urbanistiche, con risultati di servizi e spazi inadeguati: e costi economici e sociali.

I quartieri degradati spesso hanno problemi di manutenzione; ad esempio in Gran Bretagna il forte incremento di coloro che comprano case per affittarle ha reso difficile intervenire in quartieri problematici. Difficile impedire a qualcuno di trasferirsi dove vuole, magari abbandonando chi non può farlo. Nei casi più estremi, il quartiere degradato diventa una sacca di emarginati, di soggetti vulnerabili, e relativi comportamenti antisociali, questioni di salute, istruzione, ordine pubblico. Nei quartieri si deve cercare di mantenere un insieme di abitanti a vario reddito, fasce di età, tipo di godimento dell’alloggio, per ottenere spazi desiderabili sul lungo termine. Spesso si sceglie un posto perché le case sono migliori, c’è più spazio pagando meno, ci sono occasioni di lavoro. Ma come insegna l’esperienza e dimostrano le ricerche, se non si risolvono da subito i problemi delle infrastrutture sociali, dell’isolamento, dei piccoli motivi di insoddisfazione, poi rapidamente si può scivolare nel degrado.

Il National Housing Audit del CABE nel 2007 ha rilevato un rapporto diretto tra infrastrutture sociali, servizi, e soddisfazione degli abitanti di un quartiere. E in media anche quando c’era un’ottima opinione per le case, il gradimento calava per i quartieri in generale, si descrivevano problemi di carenza di spazio pubblico, strade poco sicure per i bambini e i ciclisti, poca identità spaziale. L’insoddisfazione cresce man mano si resta di più in un quartiere: dopo un anno è scontento il 18%, solo il 10% chi ci sta da meno. La fama più o meno buona della zona si definisce molto presto: è una volta che c’è, è molto resistente al cambiamento.

L’identità di un quartiere si basa sul tipo di case, la forma o l’uso in proprietà o in affitto, i ceti sociali e il reddito, professione dei capifamiglia, immigrati. Anche se col tempo ci si evolve, la prima impressione può persistere a lungo e influenzare la disponibilità di altri a trasferirsi. Bradley Stoke, nuovo quartiere alla periferia di Bristol realizzato negli anni ‘80, è stato ribattezzato dalla stampa locale “Sadly Broke” [tristemente fallito] per via della quantità di proprietari che faticavano col mutuo. E anche vent’anni dopo quel “Sadly Broke” resiste. Ci sono già segnali che anche la nuova generazione di nuovi quartieri e città incontra certi problemi. Chenggong, a Kunming, Cina meridionale, Ordos e Qingshuihe nella Mongolia interna, sono esempi di “città fantasma”, progettate dal nulla per attirare investimenti e favorire sviluppo locale, sono vuote e lasciate a metà. Si trovano staccate dai centri esistenti, a 20 o 30 chilometri, pensate per particolari attività come estrazione mineraria, uffici governativi, università che dovrebbero trasferirsi lì.

I lavori si sono fermati a Qingshuihe nel 2007 dopo due anni. Oggi ci sono case e alberghi vuoti, giusto di fianco alla città vecchia che è “assai bisognosa di interventi sociali e infrastrutturali”. A Chenggong si dice ci siano 100.000 nuovi appartamenti, edifici pubblici, campus universitari e una metropolitana leggera: ma non ci abita nessuno.Si ritiene che sia la distanza dalle città esistenti, uno dei motivi del fallimento cinese. In un articolo sui problemi di Ordos e Qingshuihe si legge:non è realistico pensare che una comunità si sradichi dal proprio contesto sociale e culturale da un momento all’altro: è insostenibile”. Lo stesso è avvenuto nelle nuove città egiziane del deserto. Mancanza di servizi infrastrutture sociali, unita alla distanza dal Cairo, ha reso molto difficile attirare nuovi abitanti.

In tutti questi esempi, osservatori da vari prospettive ritengono di poter trovare la risposta per come provare negli anni a venire a costruire a dimensione conforme, quartieri adatti agli abitanti. Ma si continuano anche a ripetere i medesimi errori, nonostante la ricerca e l’evidenza indichino obiettivi sociali, economici e ambientali diversi. Le amministrazioni locali, gli uffici governativi, gli enti per le case popolari, devono collaborare con urbanisti e costruttori a far sì che i nuovi quartieri nascano integrati in un quadro sociale, economico, ambientale, con strategie di investimento adeguate, se non si vuole correre il rischio di un fallimento.

(il rapporto integrale, circa 60 pagine con una breve prefazione di Peter Hall, è scaricabile direttamente da qui)

ARTICOLI CORRELATI

© 2024 Eddyburg