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Guido Crainz
La società incivile
1 Aprile 2010
Scritti 2010
Senza un'analisi a tutto campo si continuerà a perdere.Tutti, anche gli intellettuali, condividono le responsabilità per l'assenza di una credibile alternativa di governo. La Repubblica, 1° aprile 2010

Sottovalutando o minimizzando, in queste prime ore, il significato del voto il Partito democratico non sembra comprendere davvero quel che è successo.

Eppure, non c´è molto da discutere. Al solidissimo blocco lombardo-veneto del centrodestra si era già unito due anni fa il Friuli-Venezia Giulia e si aggiunge ora il Piemonte: se si considera che entrambe le regioni erano state ben governate, in sostanza, dal centrosinistra, l´inquietudine aumenta.

Restano le regioni rosse, ma in Emilia il centrosinistra perde quasi l´11% rispetto al 2005 e la Lega, che aveva allora poco più del 4%, giunge a sfiorare il 14%. Per non parlare del 6% conquistato ancora in Emilia dal movimento di Beppe Grillo o, per altri versi, del generale rafforzarsi di Antonio Di Pietro.

C´è poi il Mezzogiorno. Qualcuno dovrebbe spiegare come si è passati dalla nuova stagione annunciata nel 1993 dall´elezione di Bassolino a sindaco di Napoli al disastro di ieri e di oggi, mentre appare più facilmente comprensibile il crollo calabrese: un "suicidio annunciato" cui il gruppo dirigente del Partito democratico ha assistito con una inerzia sorprendente. Inerzia compensata dal grande impegno profuso per perdere anche in Puglia, contrastando con tutte le forze la candidatura del governatore uscente.

Sarebbe un errore, però, attribuire il panorama di oggi solo alla inadeguatezza dei dirigenti del centrosinistra. Occorre invece riflettere sulle cause più lontane di questo esito, guardando sia ai processi che hanno attraversato la società sia alle responsabilità della politica e dello stesso mondo intellettuale. Lo richiede, del resto, l´ingigantirsi stesso dell´astensionismo. Dal 1948 in poi la percentuale dei votanti oscillò per più di trent´anni fra il 92% e il 94%, scendendo sotto il 90% solo nelle regionali del 1980. Fu l´annuncio di un processo che negli anni successivi mescolò l´astensione e il voto di protesta, catalizzato allora dal tumultuoso emergere delle Leghe. Domenica scorsa un italiano su tre non è andato a votare, e rispetto al 2005 il calo è dell´8%.

Il precipitare della crisi degli anni ottanta portò al crollo della "repubblica dei partiti": quasi vent´anni dopo dobbiamo fare i conti con una crisi forse più profonda nel rapporto fra cittadini e istituzioni. Dobbiamo fare i conti, anche, con la sostanziale assenza di una credibile alternativa politica e con il dichiarato progetto del premier di stravolgere il quadro costituzionale e l´equilibrio fra i poteri dello stato. Progetto che esce dal voto rafforzato, oltre che appesantito dalle ipoteche della Lega. Dobbiamo fare i conti, infine, con il consolidarsi di settori sempre più corposi di "società incivile", la cui incubazione prese corpo negli anni ottanta e che poterono confluire nella "idea di Italia" di cui Berlusconi è stato alfiere. Sembrarono però aperte molte vie, nella crisi di Tangentopoli, sino all´"abbaglio" favorito dalle elezioni amministrative del 1993: la voragine che si era aperta allora al centro permise infatti una larga vittoria della sinistra. Il quadro fu radicalmente modificato da due fattori, non da uno solo: dalla scesa in campo di Berlusconi, naturalmente, ma anche dalla incapacità della sinistra di offrire al paese prospettive ed esempi convincenti di buona politica. Prospettiva ed esempi assolutamente necessari in un Paese in cui la critica ai partiti era dilagata, alimentata sia da buone che da cattive ragioni.

Tutto questo avveniva quasi vent´anni fa, e in quest´arco di tempo sono fortemente cresciuti processi di decadimento sia della società civile che della politica, segnati dall´ulteriore deperire dell´etica pubblica e della cultura delle regole. Più ancora, dal nostro orizzonte sembra scomparso il futuro. Sembra scomparsa cioè la capacità di mettere al centro i grandi temi, le grandi sfide.

In un paese sempre più ripiegato su se stesso sono mancati in realtà alla prova quasi tutti gli attori, e il mondo intellettuale è largamente fra essi. In altri momenti della storia della repubblica riviste, gruppi e voci differenti hanno aperto o rafforzato la riflessione sui nodi di fondo. Hanno messo talora in discussione vulgate consolidate, rimescolato schieramenti, aperto frontiere. E´ impietoso il confronto fra la ricchezza del dibattito culturale e politico che precedette il primo governo di centrosinistra, all´alba degli anni sessanta, e la povertà del panorama in cui trent´anni dopo ha preso corpo – o meglio, avrebbe dovuto prender corpo – una rinnovata ipotesi riformatrice: una ipotesi capace di avviare una nuova ripresa dell´Italia e di sgomberare il campo da corpose macerie. Così non fu, e furono lasciate vaste praterie al discutibile "nuovo" variamente rappresentato da Forza Italia e dalla Lega.

Tutto questo rende oggi molto più difficile, e al tempo stesso indifferibile, una radicale inversione di tendenza del centrosinistra e di quelle forze intellettuali e sociali che a quell´area guardano. Esaurite da tempo – o in via di esaurimento – le rendite di posizione, il centrosinistra non può pensare di vincere, e neppure di sopravvivere, senza mettere in campo un "valore aggiunto" capace di parlare alla accresciuta area di cittadini segnati dalla sfiducia, e anche a quelli spesso al confine fra rassegnazione e adeguamento. Capace di scuotere coscienze e intelligenze, rimettendo realmente nell´agenda politica il profilo del nostro domani. Al tempo stesso, se non vuole solo vegliare sul proprio declino, il Partito democratico deve dare segnali robusti e chiarissimi di rinnovamento. Non sembra tempo di ricambi al vertice: un vertice insediato da pochi mesi e privo di alternative credibili, almeno nell´immediato. È però tempo di mutare radicalmente – a tutti i livelli e in tutte le sedi – il volto, la fisionomia, il modo di essere del partito. Anche da questo dipende la sua credibilità residua.

Se un "valore aggiunto" è richiesto al ceto politico del centrosinistra, altrettanto è richiesto alla società civile, o a quel che resta di essa. Negli anni di Tangentopoli Antonio Gambino osservava, su questo giornale: il quadro è fosco non perché da noi i disonesti siano più numerosi che in altre società occidentali ma perché da noi «manca una "cultura dell´onestà". Manca cioè un numero di persone attivamente oneste, capaci di fornire quel "punto di appoggio" senza il quale appare irrealizzabile ogni tentativo di sollevare il paese dal pantano in cui si è infilato». Anche da qui occorre ripartire: nelle professioni, nella società, nelle istituzioni. Sarebbe stato necessario allora ma è ancor più necessario oggi, in un momento importante della "costruzione dei nuovi italiani". Ci si interroga spesso sui mutamenti che i flussi dell´immigrazione possono indurre nel nostro modo di essere: ci si dovrebbe interrogare al tempo stesso su quanto la società italiana – con il suo calante senso delle regole e delle istituzioni – influirà sul modellarsi di questi flussi. Su quanto rafforzerà al loro interno le tendenze negative o quelle positive. La sfida che abbiamo di fronte si gioca anche su questo terreno.

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