Immersa nella nube di «cupio dissolvi» che troppo spesso la acceca, la sinistra ha perso una formidabile occasione. Astenersi alla Camera, nel dibattito sul disegno di legge costituzionale per la soppressione delle province, è stato un errore imperdonabile. È come se l´opposizione, dopo aver trovato un prorompente e promettente varco politico dentro la società italiana che ha votato alle amministrative e ai referendum, gli avesse improvvisamente e inopinatamente voltato le spalle.
Dilettantismo? Opportunismo? Masochismo? Forse tutte e tre le cose. Sta di fatto che la politica, come la vita, è attraversata da fasi. L´esito della doppia tornata elettorale di maggio e di giugno imponeva una scelta inequivoca, che rendesse manifesta la capacità della sinistra di saper «leggere» la fase, e di saperla cogliere con tempestività e mettere a frutto con intelligenza. La fase suggerisce l´esistenza di un´opinione pubblica sempre più stanca delle menzogne di un governo mediocre e inaffidabile, e sempre più stufa delle inadempienze di una «Casta» ricca e irresponsabile. Il ddl sull´abolizione delle province era la prima opportunità utile, offerta soprattutto al Partito democratico, per dimostrare di saper stare «dentro la fase».
C´era in ballo una ragione tattica, innanzi tutto. Tra molti mal di pancia, l´altroieri il Pdl e la Lega hanno votato contro il testo proposto dall´Idv, rinnegando l´ennesima promessa tradita della campagna elettorale del 2008. La soppressione delle province era nel programma di governo del centrodestra, che ora se la rimangia allegramente, non solo rinunciando a cancellare le province esistenti, ma creandone di nuove. Sbarrargli la strada con un voto compatto di tutte le opposizioni avrebbe significato una quasi certa vittoria parlamentare, una clamorosa sconfitta della resistibile armata forzaleghista e un palese disvelamento delle sue contraddizioni interne.
Ma c´era in ballo soprattutto una ragione strategica. Il «movimento invisibile» che attraversa il Paese (secondo la felice metafora di Ilvo Diamanti) invoca da tempo un sussulto di dignità dall´establishment. Un taglio credibile ai costi della politica (tanto più di fronte all´ennesima burla prevista sul tema dalla manovra anti-deficit da 40 miliardi) resta uno dei temi più sensibili per una quota crescente di opinione pubblica, che subisce con disagio una condizione sociale sempre più dura e insicura e reagisce con indignazione di fronte ai privilegi sempre più intollerabili delle classi dirigenti. Auto blu, aerei blu, stipendi blu, pensioni blu. Tutto è blu, nel meraviglioso mondo del Palazzo.
Gli italiani chiedono alla politica efficienza, produttività, equità. Le misure appena varate dal ministro del Tesoro non gli offrono nulla di tutto questo. L´abolizione delle province era invece il primo test, sia pure collocato su un piano parzialmente diverso, per dare una risposta a questa domanda degli italiani. Il Pd quella risposta gliel´ha negata. E non ha capito che cogliere un «attimo» come questo è il modo migliore per evitare che monti ancora l´onda dell´antipolitica. È il metodo più efficace per contenerla, senza lasciarsi travolgere e poi essere costretti a subirla e a inseguirla. Com´è successo tante volte alla sinistra, dai girotondi di Nanni Moretti ai raduni di Beppe Grillo.
Ai riformisti non si richiede l´agio di lasciarsi «etero-dirigere» dalle masse, rifiutando la fatica necessaria di provare invece a guidarle. Il voto favorevole alla soppressione delle province poteva essere motivato senza cedimenti al populismo e al qualunquismo, perché la buona politica non deve mai ridursi a un´alzata di mano o alla x su una scheda. Il Pd aveva strumenti per inquadrare quel voto in uno schema di riordino complessivo dell´architettura istituzionale, dove non si punta a picconare a casaccio un sistema di autonomie locali codificato dalla Costituzione. Quello che non doveva fare è trincerarsi dietro la difesa di questo sistema, per giustificare la sua codina astensione. Ed è invece esattamente quello che ha fatto. Legittimando così i peggiori sospetti di chi vede in questa mossa malsana l´intenzione malcelata e maldestra di salvare le solite guarentigie e le solite poltrone.
Le province italiane sono 110. Costano al contribuente circa 17 miliardi di euro, cioè quasi la metà dell´importo della stangata a orologeria di Tremonti. Le presidenze di provincia occupate dal Pd sono 40, contro le 36 del Pdl, le 13 della Lega, le 5 dell´Udc. Tutti tengono famiglia. Ma se la sinistra non ha la forza e il coraggio di dimostrare agli italiani che non tutti sono uguali, la partita dell´alternativa non comincia nemmeno. Siamo fermi a Nenni: le piazze si riempiono, ma le urne si risvuotano.
Ha ragione Giannini a denunciare la mancanza di coraggio della sinistra. Ma la sinistra (Giannini si riferisce alla sinistra parlamentare, cioè al PD) non ha sbagliato perché si è astenuta sulla proposta Di Pietro. Proposta che era anch’essa sbagliata, ancora più radicalmente, come è sbagliata la critica alla mancata abrogazione della provincia che è venuta da altre parti della “sinistra coraggiosa”, a cominciare dal suo più interessante rappresentante, Nichi Vendola. La sinistra, quella “senza coraggio” e quella coraggiosa, hanno sbagliato per un’altra ragione.
In realtà la denuncia di Giannini e la critica di Vendola dimostrano quanta distanza c’è tra la puntuale denuncia e critica di ciò che avviene sul territorio (consumo di suolo, frane e alluvioni, malfunzionamenti delle reti delle comunicazioni, della raccolta e smaltimento dei rifiuti, della gestione dell’edilizia pubblica e privata, dell’organizzazione dei servizi di livello territoriale, dell’organizzazione del ciclo alimentare dell’uomo e così via) e la conoscenza degli strumenti mediante i quali quei malanni possono essere sanati.
In tempi nei quali l’attenzione della sinistra (e non solo) era meno miope e più colta, nei quali la strategia non era meno importante della tattica e non ne era schiava, si rifletté a lungo, in Parlamento e fuori, su due versanti paralleli: che cosa fare della provincia, e che cosa fare per risolvere alcuni problemi del territorio. Si trattava appunto dei problemi dai quali cominciavano a nascere quei malanni che ho sopra elencato: malanni che vengono deprecati quando si manifestano, e dei quali si dimostra di ignorare le cause e gli strumenti che permettano di rimuoverle.
Il legislatore di allora comprese ciò che quelli attuali (e i loro suggeritori) hanno dimenticato: che per governare efficacemente il territorio non bastano le competenze dei comuni e quelle delle regioni. Esistono problemi per i quali il comune è troppo piccolo e frammentato, e la regione troppo grande e lontana. Occorre, come in altri paesi, una dimensione intermedia alla quale affidare il governo di “area vasta” . Si tentò una strada in alcune regioni (il Piemonte, la Lombardia, l’Umbria tra gli altri), e in alcuni esperimenti a livello statale (la legge speciale per Venezia del 1973): si inventarono i “comprensori”. I comprensori non funzionarono anche perché, non essendo i loro organi eletti direttamente dai cittadini (allora si credeva fino in fondo alla democrazia, almeno a quella rappresentativa), non riuscivano a decidere quando gli interessi generali confliggevano con quelli del singolo comune. Allora si ebbe un’idea convincente: anziché inventare un nuovo ente elettivo di primo grado, ciò che implicherebbe una modifica della costituzione, perché non utilizzare, modificandone radicalmente competenze e organizzazione, un istituto esistente e allora poco utile, appunto la provincia? Così si fece, con la legge 142 del 1990, al termine di una lunga riflessione e sperimentazione.
Ma i tempi erano cambiati. Era cambiata la politica, era cominciata un’epoca di cui il caxismo è stato” la fase infantile”, il berlusconismo quella matura. La fiducia nella pianificazione, nel pubblico, nel “noi” era scemata. Nell’ombra affilavano i loro dentini i Lupi e i Brunetta. La sinistra era «parassitizzata» (per adoperare la metafora entomologica di Piero Bevilacqua) dall’ideologia neoliberista. La cultura urbanistica ufficiale invitava a praticare la “facilitazione” delle operazioni immobiliari. Anziché essere intelligentemente riformate per adempiere i loro nuovi compiti vennero utilizzate così come lo erano stato, regioni, comuni – e l’ampia e crescente pletora del mondo parastatale. Quasi dappertutto, ma non dappertutto: alcune lavorarono seriamente, nel silenzio dei media; e se il parlamento fosse ancora una cosa seria provvederebbe a studiarne l’operato, prima di discuterne l’eliminazione.
E allora, chiediamo a Massimo Giannini, a Nichi Vendola e agli altri, vogliamo risolvere il problema dando un segnale demagogico e illusorio con l’abolire le province? Oppure decidiamo di impegnare le nostre risorse (e magari, dove li abbiamo, i nostri poteri democratici) per riformarle davvero? Se alla domanda di pulire la politica e ridurne le spese rispondiamo con la demagogia e il pressapochismo, non andremo certo lontano. Aspettiamo risposte.