Il manifesto, 10 febbraio 2015
In un certo senso è il mondo alla rovescia. Finché eravamo governati da un patto scellerato tra il capo del governo (e della «sinistra di governo») e il capo della destra condannato per frode fiscale, tutto sembrava in ordine. Ora che, dopo un anno di barbarie politica e istituzionale, qualcosa è andato storto e quel contratto contronatura e controragione è entrato in sofferenza, ecco che tutti s’interrogano febbrilmente su come andrà a finire questa storia, se non anche la legislatura. È tutto quanto meno bizzarro.
Ma si spiega, naturalmente. Il fatto è che nulla di quel che si diceva era vero e nulla di ciò che è vero veniva detto. Il governo è stato fiduciato da una maggioranza virtuale che aveva ben poco a che fare con la sua reale base politica.
In teoria aveva i numeri per navigare, solo che Renzi aveva in mente tutt’altre cose rispetto a quelle che aveva detto per scalare la segreteria democratica ed espugnare palazzo Chigi. Cose che, invece, andavano perfettamente a genio al mecenate delle olgettine, col quale ha subito stipulato una fattiva intesa. A danno soprattutto di quella parte del Pd che – stando almeno ai proclami – avrebbe «frenato», corretto, posto condizioni e strappato modifiche. Dimodoché per un anno siamo stati governati da una maggioranza sorretta dall’opposizione contro una parte della maggioranza trasformata in opposizione. Borges si congratulerebbe.
Poi è venuto lo scontro sul Quirinale. Forse Renzi ha avvertito un pericolo. Ha temuto che, se avesse concordato con Forza Italia anche il nome del capo dello Stato, non avrebbe solo avuto problemi dentro il Pd. Sarebbe anche apparso, più che un alleato, il cavalier servente di Berlusconi. Con effetti rovinosi sul piano dell’immagine, che tanto gli sta a cuore. Ma è anche possibile che Renzi abbia deciso di usare la partita del Colle per soggiogare la fortuna, umiliare il vecchio boss e imporsi come uomo solo al comando. Fatto sta che siamo alla lite furiosa di queste ore, agli stracci che volano tra i due compari del Nazareno, al divorzio annunciato.
Ma è vera crisi? Vedremo. Se la politica non fosse anche ricerca del consenso, ci sarebbe di che dubitarne. Le «riforme» renziane stanno a cuore al padrone delle tv almeno quanto al loro autore ufficiale. La distruzione delle tutele del lavoro dipendente, la subordinazione organica del parlamento al governo, l’attribuzione di una maggioranza schiacciante al vincitore delle elezioni, la depenalizzazione delle frodi fiscali figurano tra i desiderata del capo di Forza Italia da sempre, dai bei tempi della P2. In più c’è che Renzi ha sin qui evitato anche solo di nominare il conflitto d’interessi: perché dunque infrangere l’idillio? Ma ha qualche ragione pure chi nelle file berlusconiane scalpita e fa presente che un partito ha anche esigenze di visibilità. Da questo punto di vista la scelta del nuovo presidente è stata in effetti uno sfregio irricevibile. Di qui la sceneggiata della finta defenestrazione di Brunetta, Romani e Verdini. D’altra parte non è pensabile che Renzi adesso, a un tratto, ci ripensi. Torni sui propri passi, disfi la tela e riscriva le sue pessime leggi. I voti forzaitalioti vanno rimpiazzati, sempre che non arrivino comunque. In che modo? Questo è il busillis. E, si può dire, il più bel regalo che la partita del Quirinale ci ha fatto sinora.
I giochi sono all’improvviso venuti al chiaro, inchiodando ciascuno alle proprie responsabilità. Se la destra, che pure le «riforme» le vuole e paventa la crisi, si sfila, è perché prevede che i propri voti non saranno indispensabili. Se Renzi lascia che il patto con Berlusconi vada a ramengo è perché ritiene di non dipendere più dal suo sostegno. La ragione evidente è che conta sul consenso della cosiddetta sinistra del Pd. Dunque ora finalmente il destino del governo e della legislatura è nelle mani dell’ospite ingrato sulla scacchiera renziana, per neutralizzare il quale Berlusconi venne cooptato, di fatto, nella maggioranza.
Che cosa vuol dire tutto questo? Una sola cosa: che non ci sono margini per altre messinscene. Finora, che la «sinistra» democratica votasse o meno le «riforme» era indifferente. Ciò ha reso il suo sistematico cedimento irrilevante, se non meno indecente. Adesso la musica è cambiata. D’ora in poi la «sinistra» del Pd può decidere se puntare i piedi, può ottenere modifiche reali (non le prese in giro sin qui sbandierate) o, in caso contrario, impedire l’approvazione delle leggi. Costringendo il governo a muoversi nella carreggiata definita dal voto popolare di due anni fa.
Molti osservatori prevedono che nulla di tutto ciò accadrà. Pensano che la fronda interna, a cominciare dai suoi capi, sarà d’ora in avanti prona al padrone della «ditta», ritenendosi appagata dalla scelta di Mattarella. Significherebbe che, nonostante mesi di minacce, insulti e mortificazioni da parte del presidente del Consiglio, costoro non andavano in cerca che di un contentino per tornare docili all’ovile. E scongiurare il rischio capitale di una crisi che potrebbe portare alla fine anticipata della legislatura, con tutti i suoi contraccolpi morali e soprattutto materiali.
È possibile che vada proprio così. Tanto più che i portavoce del capo del governo hanno chiuso ogni spiraglio chiarendo che sulle «riforme» non c’è più nulla da discutere. Da martedì sapremo. Si riprenderà a votare sulla «riforma» costituzionale e scopriremo se la «sinistra» democratica vuole davvero fermare il disegno autoritario di Renzi, come giura e spergiura. Oppure, indifferente alla sua pericolosità, ha sin qui recitato soltanto una commedia. Di certo il tempo è scaduto. L’elezione del presidente della Repubblica ha come squarciato un velo dietro al quale tutti gli attori si sono comodamente celati fino ad oggi. Si direbbe un caso di eterogenesi dei fini, e del resto si sa che prevedere il futuro in politica è al contempo necessario e impossibile