Sui risvolti politici della vicenda Unipol si è già scritto e detto quasi tutto, ma c’è ancora qualcosa da aggiungere in attesa che la Direzione Ds si pronunci l’11 gennaio.
Le questioni che secondo me meritano un chiarimento ulteriore sono almeno tre: quella della diversità della sinistra, quella del fuoco incrociato contro i Ds e, l’ultima, sulla emendabilità del capitalismo italiano. È inutile aggiungere che si tratta di tre questioni interamente intrecciate tra loro nel senso che ciascuna è concausa delle altre due. Insieme stanno e insieme cadono, sicché bisogna anche porsi la domanda se sia nell’interesse del paese risolverle o impedirne la soluzione.
Dico subito che a mio avviso è interesse della democrazia italiana che quelle tre questioni siano risolte e che la loro soluzione non passi attraverso il dissolvimento del gruppo dirigente diessino, anche se è vero che la responsabilità di uscire dal bunker in cui si è cacciato spetta principalmente ad esso (come del resto ha già cominciato a fare Piero Fassino, nell’intervista che pubblichiamo oggi sul nostro giornale).
* * *
A proposito della diversità della sinistra italiana citai la settimana scorsa il «lascito» di Enrico Berlinguer. Un lascito costruito dalla coerenza di tutta la sua azione di dirigente politico, volta a evitare il rischio dell’omologazione del suo partito. Berlinguer aveva misurato quel rischio attraverso l’esperienza fatta dai socialisti. Non solo nella fase craxiana, ma già dal centrosinistra di Nenni e di Giacomo Mancini. La resistenza dei socialisti all’omologazione restando saldi in una versione riformista che incidesse sulla realtà italiana durò poco più d’un anno, dall’autunno del 1962 al giugno del ‘63. Fu la fase della nazionalizzazione dell’industria elettrica e della nominatività delle cedole e dei dividendi, ben presto caduta. La fase guidata da Riccardo Lombardi e da Antonio Giolitti nella breve esperienza della programmazione.
Quella fase ebbe termine con il «rumore di sciabole» del generale De Lorenzo, con l’intervento del ministro del Tesoro Emilio Colombo per una politica economica più rigida, con l’uscita di Giolitti dal ministero e l’emarginazione politica di Lombardi. Da allora la presenza politica del Psi si esaurì (con l’eccezione della legge Brodolini sulla giusta causa) nella «conquista» delle vicepresidenze negli enti pubblici di ogni genere e tipo, cioè nell’occupazione condominiale con la Dc delle caselle d’un potere che diventava rapidamente sempre più clientelare e partitocratico e sempre meno democratico e rappresentativo.
Poi arrivò Craxi e non fu più pioggerella ma grandine. La diversità berlingueriana aveva ben presente quell’esperienza e non voleva che si ripetesse. Non in quei modi. L’austerità berlingueriana era del resto un costume di tutto il partito, del gruppo dirigente, dei quadri, della base sociale in gran parte composta da operai, lavoratori dipendenti, braccianti, insomma proletari. E anche borghesia liberal-radicale.
Oggi la base sociale diessina è in parte cambiata, il partito attuale è, io dico per fortuna, molto diverso dal vecchio Pci, l’ideologismo rivoluzionario e massimalista non c’è più, la libertà è diventata un valore almeno pari ed anzi superiore a quello dell’eguaglianza. Ma la moralità politica è rimasta. Di qui l’anti-berlusconismo. Volete chiamarlo viscerale? Chiamatelo pure così perché viene dalla visceralità della gente di sinistra.
Il presidente della Camera, Casini, ha dichiarato due giorni fa che non vuol più sentir parlare d’una superiorità morale della sinistra. Dal suo punto di vista ha mille ragioni, ma non si tratta di superiorità, bensì di diverso modo di sentire. Ne volete una prova? La gente di destra (e di centro) non è rimasta affatto scossa dalle notizie di denari passati dalla Popolare di Lodi nelle mani di alcuni autorevoli esponenti di Forza Italia, Udc, Lega, An.
Quelle notizie sono scivolate come gocce d’acqua su un vetro. Così pure per il ben più grave problema del conflitto d’interessi di Berlusconi.
Ma è invece bastato un sostegno «tifoso» e certamente impreveggente dei dirigenti Ds all’Unipol per scatenare una tempesta nella sinistra e nei giornali. Perché? Perché la sinistra non solo è diversa nella sua sensibilità morale, ma è considerata diversa anche da chi non è di sinistra. La sua diversità dovuta alle ragioni e alle motivazioni di appartenenza alle quali ho accennato, è dunque un dato di fatto. Si può dire che è un dato di fatto negativo, un errore, un residuo ideologico. Si può dire qualunque cosa, ma resta un dato con il quale sia gli avversari sia soprattutto i dirigenti debbono fare i conti. Se non li fanno sono loro a sbagliare.
Voglio dire al presidente Casini che quel modo di sentire «diverso» rispetto ai temi della moralità pubblica, dell’austerità del vivere, dei valori della solidarietà e dell’eguaglianza, dovrebbero anche essere patrimonio dei cattolici. Di quelli veri e non di quelli che si fanno il «nomedelpadre» baciandosi le dita e poi crogiolandosi nel sistematico malaffare.
Ce ne sono pochi di cattolici veri e sono anch’essi diversi. Mi rammarica perciò il disprezzo con cui il cattolico presidente della Camera parla dei diversi. Mi rammarica ma non mi stupisce. Non sempre i cattolici sono veri cristiani che rinunciano al potere per testimoniare la loro fede.
* * *
E vengo alla seconda questione: il fuoco incrociato contro i Ds. Scrissi la settimana scorsa che la dirigenza diessina ha commesso alcuni gravi errori.
Si è volutamente impigliata in una difesa di Unipol e del milieu circostante a Consorte, offrendo occasione ad un attacco nei suoi confronti e nei confronti del suo partito. Da questi errori non si è ancora completamente districata ed è sommamente opportuno e urgente che se ne liberi.
Che il centrodestra in tutte le sue componenti ne abbia approfittato era nell’ordine delle cose e non può stupire. Fa parte della logica elettorale. Stupisce semmai l’impudenza con cui Berlusconi si è gettato in prima persona nella battaglia; stupisce che abbia potuto rivendicare, nell’indifferenza di gran parte della stampa, la sua estraneità alla mescolanza della politica con gli affari.
La fortuna di Berlusconi come imprenditore immobiliare prima e come concessionario di emittenti televisive poi è interamente legata a connivenze politiche; in particolare al legame strettissimo che ebbe con Bettino Craxi. I decreti craxiani che sospesero l’applicazione esecutiva delle sentenze della Corte costituzionale in materia televisiva, non a caso furono chiamati decreti Berlusconi, primo e gravissimo esempio d’una legislazione «ad personam». Per non parlare della legge Mammì che sancì di fatto il duopolio Rai-Mediaset.
Alla fine, dal 1994, avemmo il gigantesco conflitto d’interessi che tuttora incombe sulla vita nazionale.
Ma se vogliamo restare al tema delle Opa tuttora in atto, è stupefacente che le pagine dei giornali e i resoconti delle tivù siano pieni di Unipol mentre è totale l’assenza delle implicazioni ben più gravi di autorevoli politici del Polo, sottosegretari, presidenti di commissioni parlamentari, a finire con lo stesso presidente del Consiglio significativamente presente in compromettenti intercettazioni.
Perché dunque tanto accanimento unilaterale al quale, lo ripeto, la dirigenza diessina ha colpevolmente offerto il destro? La risposta è semplice.
Esiste in certi settori della politica e della stampa una nostalgia di centrismo che trova come impedimento maggiore la presenza d’un forte partito Ds. L’occasione offerta dal caso Unipol è stata da questo punto di vista preziosa. Ma è preziosa anche per rinverdire la visibilità elettorale di quella sinistra radicale «pura e dura» cui sembra in certe occasioni star più a cuore l’interesse della «ditta» che quello del paese.
Qui non si tratta della diversità berlingueriana ma d’un massimalismo a buon mercato, velleitario quanto nocivo come tutti i massimalismi. Berlinguer, tanto per ricordare ancora una volta la lezione dell’ultimo vero segretario del Pci, fu nel suo partito il punto centrale dello schieramento interno, distinto e spesso in contrasto con la sinistra di Ingrao, con quella filosovietica di Cossutta, oltre che con il gruppo moderato di Napolitano. Non darò – non ne avrei alcun titolo – giudizi di valore su queste diverse posizioni, ma ricordo appunto che Berlinguer rifuggì dal massimalismo e dall’estremismo come già prima di lui Longo e Togliatti.
In conclusione, si spara contro i Ds in nome del centrismo e dell’anti-riformismo. Questa è la verità del «fuoco incrociato».
* * *
Infine la terza questione, l’emendabilità del capitalismo italiano. Questo tema non è stato posto esplicitamente da nessuno con due eccezioni che mi piace citare: Alfredo Reichlin e Franco Debenedetti sulle pagine dell’Unità: due osservatori impegnati con biografie politiche assai diverse e tuttavia in consonanza su un tema di così grande rilievo.
Il capitalismo è stato modificato in modo sostanziale tra gli anni Trenta e gli anni Cinquanta, cioè prima e dopo il secondo conflitto mondiale, dal pensiero di Keynes, dall’azione politica di Roosevelt e da quella successiva di Beveridge in Gran Bretagna e della socialdemocrazia in Germania.
Cioè dal pensiero e dalla pratica liberale e socialista abbinate alla forza del movimento sindacale.
Questo assetto ha configurato il capitalismo nella seconda metà del XX secolo accrescendo benessere e piena occupazione. Da un paio di decenni questa fase si è chiusa; la globalizzazione, l’informatica, la finanziarizzazione dell’economia hanno posto problemi nuovi tra i quali predominano la riforma del mercato del lavoro, la riforma del «welfare» e, soprattutto, la riforma dell’offerta di beni e servizi a cominciare dalla riorganizzazione dei mercati finanziari e delle società che vi operano.
Illudersi che una delle alternative a questa riorganizzazione sia il settore delle imprese cooperative è un grave errore di prospettiva. La cooperazione rappresenta un modello diverso di organizzazione dei consumi e del lavoro, non già un’alternativa al capitalismo. Merita di espandersi ma senza farsi «contaminare». Se non vuole scomparire e essere assorbita e omologata deve restare nel settore «non profit» che costituisce la sua forza e il suo limite.
Un grande partito riformista deve invece porsi il tema di stimolare la riforma dell’offerta, che riguarda la struttura societaria delle imprese capitalistiche, le piccole, le medie, le grandi e grandissime. Il fisco sulle imprese. L’accesso al credito e alla Borsa. Gli intrecci tra banche e imprese.
Gli organi di controllo esterni e interni alle imprese. La dimensione delle imprese.
L’internazionalizzazione e soprattutto l’europeizzazione delle imprese.
Ci sono nel capitalismo italiano forze consapevoli di questa necessità evolutiva del sistema e forze che vi si oppongono. Ma una cosa è certa: il sistema da solo non riuscirà a riformarsi. Lo stimolo politico gli è indispensabile come lo fu per arrivare alla fase denominata «mercato sociale» e «welfare».
Sono dunque tre questioni in una, come abbiamo indicato all’inizio. E ad esse bisognerà porre energicamente mano quando la nottata berlusconiana sarà finalmente passata.