La situazione del trasporto pubblico a Roma è catastrofica. Che si intende fare per rimediare al disastro? La giunta cinquestelle sfugge al confronto sul merito, caccia chi dissente e non informa i cittadini. (m.b)
La situazione di ATAC, l'azienda dei trasporti partecipata al 100 % dal Comune di Roma, è catastrofica. Ma non da ora. Da anni. Per molti motivi e con molte responsabilità, dalla lunga serie di cambiamenti ai vertici, con emolumenti stratosferici e buone uscite incredibili - soprattutto a fronte degli inesistenti risultati raggiunti - alle assunzioni clientelari, da ascrivere non solo alla parentopoli più famosa della Giunta Alemanno, ma alla levitazione costante del personale (dirigenti e impiegati), al sistematico spoil system e alle solite mangiatoie elettorali che hanno accomunato destra e sinistra. Per non parlare dei molti casi di mala amministrazione finiti nelle aule giudiziarie. E dell'alto tasso di assenteismo dei dipendenti e - va detto - del corporativismo di una categoria dove proliferano le sigle sindacali. E dell'evasione tariffaria record degli utenti. E del lungo braccio di ferro Comune - Regione per i fondi per il trasporto pubblico della Capitale. E di molto altro ancora.
Non è un mistero che l'ATAC sia arrivata alla frutta da un pezzo. Lo racconta anche l'ex Sindaco Ignazio Marino nel suo libro, dove descrive assai bene come spesso l'interesse per l'azienda da parte di pezzi della politica di destra e di sinistra si attivasse «più per il salario o il posto di lavoro di un dirigente», che «per la necessità di ridimensionare e rendere più produttiva l'azienda»; e già allora, racconta Marino, «secondo alcuni osservatori avrei dovuto portare i libri contabili in tribunale e dichiararne il fallimento».
Oggi la situazione non è migliorata, anzi. Le parole dell'ex direttore generale dell'ATAC, Bruno Rota (il manager milanese nominato dalla Sindaca Raggi, a cui sono state affidate le deleghe operative poco più di un mese fa) non lasciano spazio all'interpretazione: «L’azienda è in stato di dissesto conclamato. Oltretutto in queste condizioni ci sono anche chiari obblighi di legge: se non riesce a far fronte ai propri impegni, noi abbiamo l’obbligo di ufficializzare questa situazione(...) Bisogna ristrutturare il debito».
Rota parla chiaro anche sulle motivazioni che lo hanno spinto a lasciare l'incarico: «Come dico nella lettera di dimissioni, [lascio] per la gravissima situazione di tensione finanziaria della società. Una situazione che può essere risolta soltanto con un intervento drastico e con il pieno riconoscimento di quanto accaduto. Avrei dovuto sentire attorno a me un clima di totale fiducia. E così non è stato».
Parole inequivocabili che come altre dichiarazioni rilasciate alla stampa in questi giorni, tirano in ballo il tentennamento della Sindaca e della Giunta nell'affrontare con serietà e coraggio un’emergenza non più rinviabile. E appare orwellianamente inquietante l'interpretazione della vicenda pubblicata sulla pagina facebook della Sindaca Virginia Raggi (forse opera dei suoi spin doctor), in cui ribalta la situazione e attribuisce il passo indietro del direttore generale non alla mancanza di sostegno al suo piano da parte dell’Amministrazione capitolina, ma a personali preoccupazioni sulle possibili conseguenze legali. E che quello della Sindaca sia un maldestro gioco di prestigio verbale, simile a quelli dei politici navigati invisi ai Cinque Stelle, ci sembra evidenziato dal fatto che non vengano date spiegazioni ai cittadini, a cui ci si rivolge solo con brevi post pubblicati in rete.
Perché il vero punto è: che cosa intende fare questa Amministrazione - facendolo rapidamente - per affrontare una situazione del trasporto pubblico ormai abbondantemente oltre il punto di non ritorno, che a quanto pare sta per implodere definitivamente? Quali sono state le vere cause della rottura (tra l'altro annunciata) e perché il Piano di Rota non andava (più) bene? Quali piani alternativi esistono, a parte tirare a campare aspettando l'ennesimo uomo della provvidenza?
Più in generale, perché, in un anno di permanenza nella stanza dei bottoni, questa amministrazione non è ancora stata capace di aprire le porte del Campidoglio e mostrare gli scheletri nell'armadio dei conti che non tornano? Dove sono finiti gli ardimentosi consiglieri M5S che dall'opposizione promettevano sfracelli sui cosiddetti "derivati" e che avrebbero fatto chiarezza una volta per tutte sul debito monstre della Capitale e sulle mangiatoie bipartisan delle partecipate? E per quanto ancora le mancanze e le devianze di - alcune - Giunte precedenti saranno usate dalla Giunta Raggi come scudo spaziale per proteggersi dalle critiche? Dopo più di un anno bisogna cominciare a rispondere ai cittadini di quello che si è fatto e non fatto. In modo chiaro e trasparente, con la serietà dovuta verso chi ti ha eletto per cambiare le cose.
Invece la Sindaca chiude il suo post invitando i suoi consiglieri e e i suoi assessori a «non distrarsi dal lavoro alimentando sterili polemiche» avvertendo «chi preferisce polemizzare" che «si mette da solo fuori dalla squadra.» Un ulteriore segnale della debolezza di questa maggioranza pentastellata, che si preoccupa di silenziare la critica e il dissenso, e sfugge dal confronto sul piano delle idee e dei fatti. Ma ma anche un vizio con cui dovrebbe fare i conti fino in fondo il MoVimento, se ambisce davvero a fare un salto di qualità.
Perché a Roma - e non solo - i Cinque Stelle hanno due possibilità.
Vivere alla giornata, gloriandosi di iniziative secondarie e titubando di fronte a scelte strutturali e improcrastinabili. Cercando di farsi meno nemici e inimicandosi tanti, amici e non amici. Estromettendo le voci critiche e ritrovandosi circondati dagli yes men e dagli adulatori. Affidandosi alle tecniche di distrazione di massa degli esperti di comunicazione anziché dire ai cittadini come stanno le cose. Pensando alle elezioni nazionali e non alla drammatica quotidianità dei cittadini romani.
Oppure andare dritti per la propria strada, scegliendo la trasparenza, il confronto democratico e la partecipazione della cittadinanza, senza temere il conflitto, né l'impopolarità. La strada di chi cerca di fare la cosa giusta e che per questo è sicuro di sé, anche se è disposto a mettere in discussione le proprie scelte quando è necessario.
Noi ci auguriamo che nel Movimento prevalgano le teste pensanti e non gli esperti di marketing.