Se l’istruzione per tutti diventa un bersaglio
di Stefano Rodotà
In pubblico, con toni veementi (esagitati?), il Presidente del Consiglio è andato all’attacco della scuola pubblica come luogo di cattivi maestri, dalla quale a buon diritto genitori liberi e pensosi vogliono tenere lontani i figli. Non è una novità. Per raccattare voti, Berlusconi non va mai troppo per il sottile. Ma una scuola allo stremo avrebbe meritato ben altra attenzione da parte del Presidente del Consiglio e della sua sempre fedele ministra dell’Istruzione (così ne avrebbe scritto Damon Runyon). Se una parola doveva venire, questa doveva essere di riconoscenza e rispetto per chi, in condizioni personali e ambientali sempre più difficili, svolge l’essenziale funzione della trasmissione del sapere e della formazione dei giovani. E anche di rispetto per gli studenti, ridotti nelle sue parole ad oggetti docilmente manipolabili, e che invece hanno mostrato di essere tutt’altro che inclini all’indottrinamento, di possedere sapere critico. Ma è proprio il sapere critico che inquieta, che turba il disegno di una scuola tutta e solo votata alla "formazione al settore produttivo"(queste le larghe vedute del Governo).
La scuola pubblica è un’altra cosa. Le sue ragioni sono oggi persino più forti di quelle che indussero i costituenti ad attribuirle valore fondativo, a costruirla come una istituzione affidata alle cure e agli obblighi della Repubblica, come ben risulta dalla severa lezione di diritto costituzionale impartita da Salvatore Settis all’inconsapevole ministra (Repubblica, 1° marzo). Le nostre società sono divenute più complesse, plurali nella loro composizione, attraversate da conflitti. Hanno per ciò bisogno di spazi pubblici dove le persone diverse possano incontrarsi, dialogare. Di fronte all’altro, infatti, non è più sufficiente la tolleranza. Oggi servono soprattutto riconoscimento, accettazione, inclusione. E per questo non bastano le buone parole, peraltro rare, i propositi virtuosi. Sono indispensabili istituzioni capaci di produrre le condizioni personali e sociali del riconoscimento.
Di queste istituzioni, di questi spazi aperti, la scuola pubblica è la prima e la più importante. Il mettere sullo stesso piano scuola pubblica e scuole paritarie annuncia il passaggio ad un sistema che produce scuole di "appartenenza" – cattoliche o musulmane, leghiste o meridionalizzate, per élites o per diseredati – e avvia un tempo in cui non è la libertà di ciascuno ad essere esaltata, ma nel quale il riconoscimento reciproco è sostituito dall’esasperazione della propria identità, il confronto dalla distanza dall’altro. Chiuso ciascuno nel proprio ghetto, tutti preparati a contrapporsi ferocemente l’un l’altro. Si rischia così una società nella quale nessuno è educato alla conoscenza degli altri, ma solo dei propri simili. Dove, dunque, il dialogo tra diversi diviene impossibile o superfluo, dove non solo la soglia della tolleranza si abbassa drammaticamente, ma si perde pure la possibilità di essere educati alla ricerca di dati comuni, che sono poi quelli che consentono di superare gli egoismi e di individuare interessi generali. Solo una scuola pubblica può trasformare la molteplicità in ricchezza.
Con espressione felice, Piero Calamandrei aveva parlato della scuola pubblica come "organo costituzionale". Proprio queste parole ci aiutano a cogliere un altro aspetto sconcertante dell’intervento del Presidente del Consiglio. Un organo costituzionale delegittima un altro organo costituzionale. Pure questa non è una novità. Non v’è più nulla nelle istituzioni che Berlusconi pensi che meriti d’essere rispettato, fuori di se stesso. Nel momento in cui la scuola viene indicata al disprezzo dei cittadini come luogo dove si "inculca" qualcosa, ecco costruita la premessa per giustificare il suo abbandono materiale, il taglio delle risorse, la mortificazione di chi lavora lì dentro – docenti e studenti. E, al tempo stesso, si dà nuovo fondamento al "dirottamento" dei fondi pubblici verso le scuole private.
Uso questa parola non per riaprire qui, come pure sarebbe doveroso, la questione della legittimità del finanziamento pubblico alla scuola privata, ma per porre un altro problema. Essendo indiscutibile l’obbligo dello Stato di istituire "scuole statali per tutti gli ordini e gradi" (art. 33 della Costituzione), nel momento in cui le risorse disponibili si riducono, quella chiarissima prescrizione costituzionale deve essere almeno intesa come criterio per la distribuzione delle risorse disponibili, sì che ai privati si dovrebbe arrivare solo dopo aver soddisfatto le esigenze del pubblico.
Si perde, altrimenti, proprio la qualità di organo costituzionale della scuola pubblica, il suo essere luogo di produzione della conoscenza, dunque di una delle precondizioni della stessa democrazia. Ma l’innegabile natura costituzionale della scuola pubblica, improponibile per una scuola privata che può esserci o non esserci, è specificata dal fatto che di essa la Costituzione parla subito dopo aver detto che «l’arte e la scienza sono libere e libero ne è l’insegnamento». Alla scuola pubblica si deve guardare come al luogo del sapere libero e disinteressato, che è la forma del sapere che costruisce il cittadino. Se l’attenzione, invece, è sempre più rivolta al "settore produttivo", si ha di vista una formazione tutta strumentale, fatalmente riduttiva, persino inadeguata a quelle esigenze di flessibilità culturale che oggi accompagnano qualsiasi lavoro.
Per chi suona la campanella
di Marco Lodoli
La scuola pubblica vacilla sotto le bastonate del governo, sotto le radiazioni mortali delle televisioni e dei nuovi valori dominanti, disprezzata e vilipesa dal primo che passa e dal primo ministro. I professori sono piuttosto vecchi e giovani non ne arrivano, graverebbero troppo sul deficit; anche gli edifici spesso sono malridotti, sistemarli sarebbe un altro costo impossibile; i programmi spesso sono astrusi, frutto di tanti anni di astrattismi furibondi; i ragazzi sono confusi, a volte addirittura maleducati, imparano poco, pensano ad altro o a niente.
Eppure se vogliamo che l´Italia abbia un futuro, dobbiamo tenerci stretta questa scuola così malridotta e cominciare ad amarla di nuovo e di più, dobbiamo investire denaro e energie nell´unico laboratorio culturale che il paese possiede. Certo, ci sono le scuole private, e sono tante: ma vogliamo vederle un po´ più da vicino, vogliamo entrarci? Appena laureato ho lavorato alcuni anni in diplomifici preoccupati di una sola cosa: la retta mensile. Non c´era problema didattico o disciplinare che non potesse venir spianato da un assegno. Ricordo anche il volto attonito del gestore della mia prima scuola quando si rese conto che avevo rimandato in storia il rampollo di una nobile famiglia: «Ma quelli pagano, pagano! Lo capisci o no? Quelli ci mantengono a tutti quanti, anche a te che vuoi fare l´eroe! I soldi nella tua busta paga ce li mettono loro, è chiaro?». E gli studenti questo lo sanno benissimo, questi principi vengono loro inculcati – per usare un verbo alla moda – concordemente dai genitori e dalla scuola. Sanno di andare avanti spinti dal soffio di una mazzetta frusciante di banconote: do ut des, pagare moneta vedere cammello, tanto dal ministero non arriva nessuno a controllare.
L´educazione si snoda attorno a un solo comandamento: i ricchi se la cavano sempre, anche quelli decerebrati. Poi ci sono le scuole private d´elite, e anche queste stanno aumentando perché fanno promesse importanti. Qui non si tratta più di salvare i mentecatti, qui si tratta di preparare il club dei migliori. "Non conta la conoscenza, contano le conoscenze" questo è lo slogan implicito delle nuove scuole private, quelle con gli stemmi, i nomi inglesi, le divise stirate e inamidate. Qui ci si iscrive in una loggia che durerà nel tempo: ci si scambiano indirizzi, visite, week-end, sorelle e fratelli, qui si cementa la nuova classe dirigente. A volte c´è una spolveratina di cattolicesimo, zucchero a velo, ma di sicuro in nessun luogo al mondo le parole di Gesù valgono meno che qui: amore, fratellanza, carità sono solo carta da parati. Qui i cammelli passano in fila e al trotto nella cruna dell´ago. Le rette si aggirano attorno ai mille euro al mese proprio per fare selezione, per tenere fuori i miserabili. Quali valori sociali vengono inculcati nelle tenere menti dei vari Jacopo e Coralla? Non perdete tempo nella commiserazione, fate finta che tutto vada bene e andate avanti, il mondo vi aspetta!
Per tenere insieme la società c´è solo la scuola pubblica. È commovente vedere come i ragazzi italiani e i ragazzi che in Italia sono arrivati da lontano riescono a stare bene insieme, a capirsi, a spiegarsi, quanta solidarietà c´è tra tutti quanti, quanti discorsi crescono insieme e si intrecciano al futuro. Bisogna solo rendere la nostra scuola più bella, perché sia il fondamento di una società giusta: bisogna credere in questi ragazzi, proteggerli, farli crescere bene, anche se non hanno mille euro al mese da spendere.
Così è cresciuto il nostro paese
di Miriam Mafai
Alla fine, a ripensarci adesso, non fu poi così male la nostra scuola ai tempi della cosidetta Prima Repubblica, quando al ministero di Viale Trastevere, comandarono quasi senza interruzione dal 1946 al 1997 uomini della Dc, da Gonella a Gui a Misasi fino a Rosa Russo Iervolino. Qualche battaglia, e non delle meno importanti, è stata vinta. Non fu poi così male la nostra scuola negli anni della Prima Repubblica se, grazie all´impegno dei nostri maestri e delle nostre maestre, si riuscì ad abbattere il tasso di analfabetismo che nel 1951 in Italia era ancora del 14% (con punte del 25% in Puglia e Sicilia e del 32% in Calabria) e si riuscì moltiplicare il numero degli studenti della scuola media che nel 1951 non arrivavano, in tutta Italia, a un milione e venti anni dopo sfioravano i tre milioni.
Non sarà stato merito dei vari ministri democristiani, ma grazie all´impegno dei suoi insegnanti, la nostra scuola pur nelle dure condizioni di quei tempi ha accompagnato e promosso, forse senza programmarla, la crescita del nostro paese. Eravamo allora un paese in movimento, nel quale erano possibili sogni e speranze. Penso alle centinaia di migliaia di contadini meridionali semianalfabeti che, emigrati a Milano o Torino, indicati spregiativamente come "marocchini", sognavano per i propri figli un futuro da operai. Ed erano migliaia gli operai di Torino o Milano che sognavano per i propri figli un futuro da tecnico o da ingegnere. Solo sogni? No, non furono solo sogni: quello che chiamiamo "ascensore sociale" bene o male per un certo periodo ha funzionato, anche grazie all´impegno ed alla fatica dei nostri insegnanti.
Una spinta decisiva in questo senso venne dalla prima vera riforma della scuola che, ereditata dal precedente regime, prevedeva dopo i cinque anni di elementare due percorsi alternativi: da una parte una scuola media con il latino per i ragazzi (e le ragazze) che si ripromettevano di proseguire gli studi fino all´Università. Gli altri potevano, volendo, frequentare un avviamento professionale o, ancora meglio, dare una mano a bottega o nei campi. Va ascritto a merito del primo centrosinistra, presieduto da Amintore Fanfani, avere cancellato per sempre quello che era stato definito un "marchio dei poveri al bivio dei dieci anni" istituendo una scuola media unica obbligatoria per tutti fino ai 14 anni. E senza il latino. Aspramente discussa e contestata la riforma avrebbe aperto a ceti che ne erano stati fino a quel momento esclusi le porte dell´istruzione superiore, fino, eventualmente, all´Università. Al ministero di Viale Trastevere c´era sempre un democristiano, naturalmente. Era Luigi Gui, un veneto personalmente assai poco proclive alle riforme, ma il clima politico era cambiato e la riforma, fortemente voluta e quasi imposta dai socialisti e dal loro uomo di punta, Tristano Codignola, alla fine nel dicembre del 1962 sarà approvata. Qualcuno definì quella riforma un miracolo.
Poi, nel corso degli anni fu la volta di altri provvedimenti, più o meno ambiziosi e condivisi, destinati a suscitare dibattiti e proteste. Nel corso dei quali mi vien fatto di pensare che bisognerebbe ascoltare di più le voci di coloro che nella scuola lavorano, gli eredi di quei maestri e quelle maestre che ai tempi della Prima Repubblica sconfissero l´analfabetismo e avviarono quell´ascensore sociale di cui oggi sentiamo la mancanza.