il Fatto Quotidiano,
Muhamed si è accasciato sulla terra rossa dei campi del Salento, sotto il sole micidiale di Nardò, in un giorno d’estate del 2015. Aveva 47 anni. Era arrivato dal Sudan, raccoglieva pomodori per un paio d’euro l’ora. Dodici ore al giorno. Lavorava in nero, nella rete dei caporali che portano la manodopera alle aziende agricole del sud. Soffriva di cuore – si è scoperto con l’autopsia – ma non è stato sottoposto a una visita medica prima di iniziare a lavorare. È tornato in Africa in una cassa di legno, accompagnato dalla moglie e dai due figli.
Succede, tra gli schiavi del pomodoro: ogni tanto qualcuno cade. Quella stessa estate è morta Paola Clemente, 47 anni, tarantina, trasformata suo malgrado nella prima martire del bracciantato femminile. La notizia fa il giro delle cronache locali, ogni tanto anche di quelle nazionali. Per i casi più clamorosi arriva il cordoglio delle istituzioni. Poi tutto torna esattamente come prima. Il pomodoro raccolto con il sudore e il sangue degli schiavi rimane sugli scaffali dei supermercati e finisce nelle dispense delle famiglie, in Italia e fuori. La scia criminale riguarda solo i piani bassi: la responsabilità coinvolge i caporali e gli imprenditori agricoli. Ma quel pomodoro viaggia: viene lavorato, trasformato e venduto da imprese multinazionali, finisce nella rete della grande distribuzione. I giganti sono quelli che fanno i prezzi. Si servono di un prodotto raccolto con la violenza e lo schiavismo, ma i loro nomi restano coperti. O meglio, restavano coperti fino a ieri.
L’inchiesta sulla filiera
La morte di Muhamed ha aperto una crepa. La procura di Lecce prima ha individuato i presunti responsabili: è scattata la richiesta di rinvio a giudizio per Giuseppe Mariano, proprietario dell’azienda agricola dove è caduto il bracciante, e per il caporale Sale Mohamed. Le accuse sono omicidio colposo e caporalato. Ma poi la pm Paola Guglielmi si è spinta più in là: ha ricostruito il percorso che hanno fatto i pomodori raccolti dalla vittima e dagli altri schiavi di Nardò. E ha messo nero su bianco, per la prima volta, i nomi di alcune delle grandi imprese che si sono servite della merce raccolta attraverso il caporalato. Si tratta di tre giganti dell’industria dell’oro rosso: Mutti, Conserve Italia (che produce, tra gli altri, Cirio e Valfrutta) e La Rosina. Su queste aziende – è bene specificare – non sono previste ulteriori indagini: non hanno alcuna responsabilità penale nell’inchiesta sulla morte del bracciante. Si discute, semmai, delle responsabilità etiche di chi occupa il vertice della filiera produttiva.
Il percorso dell’oro rosso
I nomi di queste imprese sono finite nell’indagine della sezione anticrimine dei Carabinieri di Lecce, quindi nelle carte della procura: “Dall’esame della documentazione attestante la filiera del pomodoro prodotto dall’azienda agricola in argomento (…) si rileva che il ‘pomodoro’ successivamente alla raccolta viene conferito alla Cooperativa agricola ‘Terre di Federico S.A.S. (…) e da qui trasportato verso le industrie deputate alla successiva lavorazione e trasformazione”. Le tre industrie – si legge – sono “Fiordiagosto Srl”, “La Rosina Srl”, “Conserve Italia Soc. Coop. Agricola”. Il documento dei Carabinieri ne ricostruisce i proprietari: “La Fiordiagosto Srl risulta di proprietà della notissima industria Mutti Spa, (…) colosso nella produzione di conservati, in particolare il pomodoro, commercializzati in tutto il mondo e facilmente reperibili sugli scaffali degli ipermercati e supermercati”, “La Rosina Srl risulta di proprietà della famiglia Russo di Angri, gruppo titolare di industrie alimentari di portata internazionale e con un suo stabilimento produttivo in provincia di Foggia, più grande in Europa, per la trasformazione del pomodoro” e infine “La Conserve Italia Soc. Coop. Agricola opera sotto la partita iva di Conserve Italia (…). Anche questa industria, come è facilmente intuibile ha rapporti commerciali e distribuisce i prodotti conservati su tutto il territorio nazionale ed all’estero”.
I giganti delle conserve
Parliamo di colossi internazionali dell’industria del pomodoro. La Mutti è forse la più importante azienda del paese (occupa oltre un quinto del mercato nazionale) ed è presente in 82 Paesi nel mondo. Si descrive così, sul suo sito: “Da oltre 100 anni, Mutti, azienda di Parma, è leader nella lavorazione del pomodoro; da quattro generazioni la famiglia Mutti si dedica esclusivamente al miglioramento del suo ‘oro rosso’ realizzando concentrato, passata e polpa di pomodoro. Prodotti che oggi sono apprezzati in tutto il mondo”. I numeri della Mutti sono in costante ascesa: nel 2015 la produzione annuale è balzata al +22% (280mila tonnellate di pomodoro), nel 2016 ha stabilito il suo record di fatturato: 270 milioni di euro. Ogni anno, dal 2000, la Mutti assegna agli agricoltori da cui si rifornisce il premio “Pomodorino d’oro”. “Un segno tangibile – secondo l’amministratore delegato Paolo Mutti – della nostra attenzione alla qualità della filiera”.
Conserve Italia è un altro gigante, una delle principali aziende nel settore delle conserve ortofrutticole in Europa. Produce, tra gli altri, i succhi di frutta Yoga e Derby e le polpe di pomodoro Cirio e Valfrutta. Il fatturato aggregato del gruppo nel 2016 ha raggiunto quota 903 milioni di euro. Il pomodoro vale quasi un quinto del giro d’affari totale: il 22,9%.
La Rosina è invece un’azienda di medie dimensioni con base in provincia di Foggia. Nel 2015 ha fatturato poco più di 13 milioni di euro. Le specialità sono datterini e pomodori pelati. Sul suo sito, vanta “un’esponenziale crescita commerciale in campo nazionale ed estero”. E aggiunge: “I Paesi verso i quali ha maggiore esportazione sono: Germania, Olanda, Belgio, Svizzera e Norvegia”. Come ha spiegato il titolare Giovanni Russo in un’intervista, la Rosina movimenta 1.500 tonnellate di pomodoro all’anno, tutte trasformate e poi vendute tramite la grande distribuzione: “Siamo presenti nelle principali insegne del territorio nazionale quali Coop Italia, Sisa, Carrefour, Sma”. Dai campi agli scaffali: la filiera inizia con il lavoro schiavistico dei braccianti e finisce con le file ordinate di barattoli e bottiglie nei supermercati.
La replica delle aziende: non ne sapevano nulla
Le imprese citate nelle carte della procura di Lecce hanno negato ogni responsabilità. Conserve Italia ha esibito il “contratto per la cessione di pomodoro da industria”, che regola i rapporti tra le organizzazioni di produttori e le industrie che trasformano i loro pomodori. Un documento a cui aveva aderito anche l’azienda agricola dove è morto Muhamed (la “De Rubertis Rita”, controllata da Giuseppe Mariano). Nel contratto con Conserve Italia, Mariano si impegnava a garantire – tra l’altro – “l’osservanza delle vigenti normative in materia di sicurezza e salute sul lavoro, dei contratti collettivi nazionali di lavoro, della normativa in materia previdenziale e assistenziale e di quella in materia di lavoro per gli immigrati”. Promesse rimasta sulla carta: Muhamed e gli altri, come detto, lavoravano in nero, per un paio d’euro l’ora, senza la minima forma di tutela e di controllo.
Maurizio Gardini, presidente di Conserve Italia, sottolinea che i rapporti con l’azienda agricola di Mariano sono cessati: “Mettiamo fuori chi non accetta di firmare i nostri protocolli di legalità, ma pure chi li firma e poi non li rispetta”. Nonostante questo impegno, i pomodori raccolti da Muhamed e dagli altri braccianti sfruttati sono finiti anche nelle loro conserve. “Non possiamo controllare tutto – replica Gardini – e non possiamo sostituirci alle autorità ispettive: questa attività spetta all’Inps e alle forze dell’ordine”.
Anche Francesco Mutti, amministratore delegato dell’azienda che porta il nome di famiglia, ha adottato argomenti simili. Quando gli viene chiesto di chiarire gli affari con chi ha sfruttato i braccianti, risponde così: “Noi non abbiamo ricevuto alcun tipo di informazione dalla procura di Lecce e comunque abbiamo interrotto qualsiasi rapporto con quell’azienda fornitrice due anni fa. Oggi solo una piccola parte dei nostri prodotti arriva dal sud e l’80 per cento della nostra raccolta ora è meccanizzata. La De Dominicis (l’azienda agricola di Mariano, ndr) ci aveva fornito un elenco dei lavoratori assunti, di più non possiamo fare”. Il Fatto Quotidiano ha provato, senza successo, a chiedere un chiarimento anche a La Rosina.
Ogni tanto un bracciante cade. I pomodori che raccoglie finiscono sulle nostre tavole. Le aziende che li mettono in commercio non ne sanno nulla.