Ascoltare Giorgio Lunghini è sempre un piacere. Da una parte perché ha fatto propria quella attitudine di alcuni grandi teorici dell'economia della chiarezza. Dall'altra perché si intravedono nei suoi occhi e risuonano nelle sue parole echi di letture lontane dalla sua disciplina. Colto, affabile e comunque rigoroso nell'esposizione del suo punto vista. Che è quello di un economista che non nasconde i continui riferimenti all'analisi marxiana dello sviluppo capitalistico spesso associati a una lettura innovativa del pensiero di Lord Keynes. Negli ultimi anni, Giorgio Lunghini ha più volte scritto attorno a temi al centro della attualità, dalla disoccupazione alla «crisi della società del lavoro», dalle proposte di riforma, o meglio di controriforma del welfare state al ruolo della cosiddetta «economia sociale». Ma lo ha sempre fatto preferendo l'analisi al rumore di fondo che spesso caratterizza la discussione pubblica. Scelta che gli ha dato l'agio di poter affrontare argomenti controversi a partire da un agire comunicativo lontano dalle esemplificazioni. L'intervista che segue ruota attorno al welfare state, argomento che le recenti proposte di politica economica hanno posto sullo sfondo nella prossima azione del governo.
In passato lei ha sostenuto che non è più possibile parlare di stato sociale solo per accenni, perché ciò darebbe luogo a fraintendimenti. È ancora così?
Credo ancora che oggi si debba affrontare quel tema senza fraintendimenti. Con questo intendo dire che bisognerebbe parlare di stato sociale senza preconcetti contro di esso e senza i diffusi e indimostrati pregiudizi circa la sua desiderabilità e la sua sostenibilità. Per quel che riguarda l'avversione al welfare state, è noto che molti - a meno che non siano evasori fiscali - non desiderrebbero affatto meno imposte se ciò dovesse comportare una riduzione dei servizi sociali. A proposito della sostenibilità, poi, basta ricordare che un ridimensionamento dello stato sociale non implicherebbe una riduzione della spesa a carico della collettività per procurarsi le prestazioni corrispondenti. Al contrario, se i servizi venissero forniti da privati anziché dallo stato la spesa sarebbe maggiore, basta guardare all'esempio degli Stati Uniti, dove però molti ne sono esclusi. Lo stato sociale è più efficiente del mercato nell'assicurare i servizi fondamentali, e sopratutto assicura quelli che i privati non troverebbero conveniente fornire per la loro scarsa redditività di breve periodo, o che sarebbero inaccessibili alla maggior parte dei cittadini.
Nel cosiddetto postfordismo, la questione del rapporto stato-mercato assume una rilevanza fondamentale. Partendo dal presupposto che il compito principale delle istituzioni politiche è quello di garantire la coesione e l'eguaglianza sociale, lei ritiene che davanti alle sfide poste dalla globalizzazione dell'economia i sistemi di welfare oggi in vigore sono in grado di ottenere questo risultato?
La tesi prevalente è che lo stato sociale determinerebbe una perdita di competitività, la riduzione delle esportazioni, il calo degli investimenti e dunque dell'occupazione, e così via. Ma non esiste alcun argomento teorico solido e alcuna evidenza empirica a favore di questa tesi.
È ovvio che in un'economia aperta al commercio internazionale la competitività è un problema. Però, la riduzione del costo del lavoro nazionale non è una condizione necessaria né sufficiente per un aumento della competitività del settore privato. Sarebbe impossibile ridurre i costi del lavoro italiano al livello dei paesi meno sviluppati, e non sarebbe accettabile ridurre a quel livello i salari per via indiretta, tagliando i servizi sociali, rendendo precario il posto di lavoro, riducendo la spesa pubblica per la previdenza, per l'istruzione, per la ricerca, per la cura di quanti per sfortuna o per età sono deboli e perciò dipendono da altri. Si può caricare di tutti questi oneri la famiglia, istituzione di cui peraltro si parla troppo? O non dovrebbe provvedere lo stato, di cui si parla troppo poco, e semmai male? I bassi salari non sono la risposta adeguata alla disoccupazione. È la disoccupazione che costringe a accettare lavori precari e poco remunerati.
Gli imprenditori che pagano poco la forza lavoro dirigono imprese inefficienti o marginali, e cercano di compensare in questo modo la loro inefficienza. Sono loro, che dovrebbero essere licenziati. Se si paga meglio un lavoratore, si rende più efficiente il suo datore di lavoro, forzandolo a scartare impianti e metodi obsoleti e affrettando così l'uscita dal mercato degli imprenditori meno capaci. Basta leggere un po' di storia economica. Se poi si considera che il mondo è un sistema chiuso, si capisce che una riduzione universale del costo del lavoro si tradurrebbe in una crisi generale di sovrapproduzione. La competitività di un sistema economico non dipende dal costo del lavoro, dipende dalla capacità, o incapacità, degli imprenditori di fare il loro mestiere. Guarda caso, la delocalizzazione delle produzioni nazionali, in paesi con un minor costo del lavoro, non si traduce in una diminuzione del prezzo delle merci, bensì in un aumento dei profitti. La presenza dello stato nell'economia e nella società è l'unica risposta possibile alle conseguenze economiche e sociali della globalizzazione, a meno che non si preferisca un mondo di imprese multinazionali senza legge a un mondo di stati nazionali civili.
Nel suo libro «L'età dello spreco. Disoccupazione e bisogni sociali» lei afferma che la disoccupazione non è un fenomeno naturale. È invece un fenomeno normale nei sistemi capitalistici, dove i frutti del cambiamento tecnico non sono distribuiti in maniera eguale. Per arginare questo fenomeno alcuni studiosi propongono l'introduzione di un reddito di esistenza o di cittadinanza e la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Cosa ne pensa di queste proposte?
Sul reddito di esistenza è in corso un ampio e fecondo dibattito, mentre non mi pare all'ordine del giorno la riduzione dell'orario di lavoro a parità di salario. Tuttavia io credo che al reddito di esistenza siano preferibili i servizi sociali, che non costringono a passare per il mercato. Sul mercato non si può comperare la sicurezza, si comprano soltanto merci.
La teoria economica si è espressa in maniera chiara sull'origine del valore: o esso è dato dalla quantità del lavoro necessaria a produrre un bene o dalla sua scarsità/utilità, che oggi è dominante. Entrambe queste interpretazioni dimenticano il contenuto relazionale intrinseco allo scambio. Crede che in un epoca in cui la conoscenza, che per definizione non è scarsa, è centrale nel processo produttivo sia possibile avanzare una teoria del valore capace di incorporare la dimensione relazionale?
Il lavoro è in sé una attività relazionale. Lo è, in primo luogo, perché il lavoro è la principale attività materiale con la quale l'uomo si pone in rapporto con la natura, al fine di cavarne valori d'uso. Qui non è questione di fordismo o postfordismo. La crescente importanza del general intellect nella forma attuale del processo di produzione e riproduzione, d'altra parte, complica la tassonomia delle diverse attività lavorative e semmai infittisce, non dirada, la rete delle relazioni tra i produttori. Rete di cui magari i lavoratori non si rendono conto. Il che può rendere più difficile l'analisi del processo lavorativo e la regolamentazione del mercato del lavoro, ma non toglie al lavoro la sua forma di lavoro salariato.
È noto che il capitalismo ha una indubbia capacità di metamorfosi. Nell'attuale fase del suo sviluppo, come si modifica il rapporto tra lavoro concreto e lavoro astratto, categorie abbastanza rilevanti nella critica al capitalismo?
La capacità di metamorfosi del capitalismo non deve indurci a liquidare frettolosamente le categorie analitiche dell'economia politica classica e della critica marxiana, né a sposare categorie dubbie come quella di «capitale umano». L'evoluzione strutturale degli ultimi decenni - nella scelta dei mercati, delle tecniche di produzione e delle forme di organizzazione del lavoro - non comporta affatto una soluzione di continuità nel rapporto tra capitale e lavoro. La sostanza del lavoro non dipende dalla forma del contratto. Si può pensare come lavoro salariato qualsiasi lavoro eterodiretto, qualsiasi lavoro che direttamente o indirettamente, nella fabbrica, negli uffici, a casa propria o nella società, sia prestazione d'opera la cui quantità, qualità e remunerazione dipende dalle decisioni del capitale circa le sue proprie modalità economiche e politiche di riproduzione. L'apparente autonomia di molti «nuovi lavori» nasconde il ritorno a forme di lavoro servile, prive di qualsiasi mediazione o protezione sindacale o istituzionale. Di qui un ulteriore argomento a favore dello stato sociale.
A proposito del rapporto tra rendita e profitto: è possibile parlare ancora di rendita quando la struttura della proprietà passa dalla proprietà dei mezzi di produzione alla proprietà intellettuale, ovvero quando ha a che fare con le reti, i flussi di conoscenza e con la struttura gerarchica indotta dalla dinamica finanziaria (non più separata dalla produzione, ma oggi elemento costituente della creazione di valore)?
La rendita non crea nessun valore: è una sottrazione al prodotto sociale, senza nessun corrispettivo e legittimata soltanto dal diritto di proprietà. Oggi i rapporti tra rendita e profitto non sono nitidi come potevano apparire nel capitalismo precedente al 1830. Dopo di allora i comportamenti dei capitalisti, in una economia monetaria di produzione, sono più articolati. E anche più miopi. Se i capitalisti realizzano profitti come capitalisti, ma li impiegano come gaudenti o come rentier, anzichè come sacerdoti della accumulazione del capitale, l'unica prospettiva per loro praticabile sarà l'esercizio della loro forza contrattuale al fine di ridurre i salari; nonché il tentativo di aggirare il vincolo della domanda effettiva interna, spostando altrove i luoghi di produzione e i mercati di sbocco, se ne sono capaci. Altrimenti si confineranno nella nicchia del rentier e reimpiegheranno i profitti nella speculazione, finanziaria o edilizia. Tenteranno di cambiare gioco, dalla produzione di merci a mezzo di merci alla produzione di denaro a mezzo di denaro. In Italia ce ne sono molti esempi. È un gioco che può riuscire a qualcuno ma non a tutti, e che per la collettività può essere rovinoso. Sta qui il problema più difficile e urgente per le politiche economiche nazionali, la cui unica soluzione è la proposta di quel bolscevico che secondo Luigi Einaudi era J. M. Keynes: l'eutanasia del rentier.
Molti economisti politici, seguendo l'insegnamento di Ricardo, sostengono che l'imbrigliamento della rendita è fondamentale per ottenere la crescita economica e il benessere generale. A suo parere quali forme dovrebbe assumere la fiscalità e quali livelli di tassazione possono essere compatibili con un efficiente sistema di Welfare?
La risposta sta già negli articoli 3, 41 e 53 della Costituzione. È compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l'eguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l'effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all'organizzazione politica, economica e sociale del paese. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali. Tutti sono tenuti a concorrere alle spese pubbliche in ragione della loro capacità contributiva. Il sistema tributario è informato a criteri di progressività.
Ritiene che la Banca Mondiale, il Fondo Monetario Internazionale, e l'Organizzazione Mondiale per il Commercio siano istituzioni sufficientemente preparate per affrontare la sfida di uno sviluppo socialmente sostenibile, oppure pensa che una loro riforma sarebbe necessaria?
Sono istituzioni effettivamente molto preparate, ma non allo scopo di perseguire l'interesse generale. Lo sarebbero state, invece, quelle prefigurate da Keynes, che infatti fu sconfitto a Bretton Woods. Un Keynes che nel suo World's Economic Outlook del 1932 aveva già capito tutto circa la mancata coincidenza tra interessi particolari e interesse generale: «Ciascun paese, nel tentativo di migliorare la propria posizione relativa, intraprende iniziative dannose per la prosperità dei suoi vicini; e poiché l'esempio viene imitato, ogni paese patirà iniziative analoghe da parte dei suoi vicini e ne soffrirà più di quanto non se ne avvantaggi. Praticamente tutti i rimedi oggi invocati hanno questo carattere di danno reciproco. Riduzioni salariali competitive, politiche tariffarie competitive, svalutazioni competitive della moneta e così via sono tutti esempi di questo gioco a rubamazzetto. Poiché le uscite dell'uno sono le entrate dell'altro, se aumentiamo i nostri margini diminuiamo quelli di qualcun altro. Se la pratica sarà seguita da tutti, tutti ci perderanno... Il capitalista moderno è come un marinaio che naviga soltanto con il vento in poppa, e che non appena si leva la burrasca viene meno alle regole della navigazione o addirittura affonda le navi che potrebbero trarlo in salvo, per la fretta di spingere via il vicino e salvare se stesso. Se gli Stati Uniti risolvessero i loro problemi interni, ciò varrebbe come esempio e stimolo per tutti gli altri paesi e dunque andrebbe a vantaggio del mondo intero».