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Paola Rudan
La rivoluzione sarà donna
7 Maggio 2014
Articoli del 2014
«Tempi presenti. Raccolti da ombre corte i saggi che la filosofa Silvia Federici ha scritto negli ultimi trenta anni di attività. Dalla proposta di un salario al lavoro domestico, all’analisi critica del femminismo della differenza e del rapporto ambivalente tra i processi di riproduzione sociale e sviluppo capitalistico».
«Tempi presenti. Raccolti da ombre corte i saggi che la filosofa Silvia Federici ha scritto negli ultimi trenta anni di attività. Dalla proposta di un salario al lavoro domestico, all’analisi critica del femminismo della differenza e del rapporto ambivalente tra i processi di riproduzione sociale e sviluppo capitalistico».

Il manifesto, 8 maggio 2014 (m.p.r.)

Il Punto zero della rivo­lu­zione. Lavoro dome­stico, ripro­du­zione e lotta fem­mi­ni­sta (ombre corte, pp. 158, euro 15) pre­senta in un’unica rac­colta quasi quarant’anni della rifles­sione teo­rica e poli­tica di Sil­via Fede­rici, stu­diosa (ha inse­gnato presso l’Università di Port Har­court in Nige­ria e la Hof­stra Uni­ver­sity di New York) e soprat­tutto mili­tante poli­tica fem­mi­ni­sta. Del 1974 è il sag­gio che apre il volume, del 2010 quello con­clu­sivo. Tra que­sti due estremi si col­lo­cano pro­cessi di tra­sfor­ma­zione del capi­ta­li­smo che rischiano di ren­dere i testi più datati quasi un sou­ve­nir dal pas­sato, a meno di non appro­fit­tare di que­sto scarto tem­po­rale per leg­gere la rifles­sione di Fede­rici a ritroso, sia per valu­tare poten­zia­lità e limiti della sua più recente pro­po­sta poli­tica, sia per uti­liz­zarla come «grado zero» dei per­corsi attuali dei movi­menti sociali in modo da vagliare le pos­si­bi­lità reali di resi­stere alle tra­sfor­ma­zioni del capi­ta­li­smo globale.

Per Fede­rici la messa in comune (com­mo­ning) del lavoro ripro­dut­tivo, la sua gestione al di fuori delle logi­che del mer­cato, uni­sce la resi­stenza oppo­sta dalle donne ai nuovi pro­cessi di enclo­sure nei con­te­sti post-coloniali agli espe­ri­menti di «auto-riproduzione» pra­ti­cati dai movi­menti sociali con­tem­po­ra­nei. Orti urbani, cucine di quar­tiere, movi­menti per il free soft­ware sono con­si­de­rati modi – non uto­pici ma già in atto, ben­ché non inte­grati in un pro­getto com­ples­sivo con­di­viso dai movi­menti radi­cali – di sot­trarre le con­di­zioni della ripro­du­zione al comando del sala­rio che il capi­tale impone a quote cre­scenti della popo­la­zione mon­diale attra­verso una nuova «accu­mu­la­zione ori­gi­na­ria». In que­sta resi­stenza le donne avreb­bero un ruolo cru­ciale non gra­zie a una loro natu­rale voca­zione, ma in virtù del baga­glio di sapere e dell’esperienza di lotta che hanno sto­ri­ca­mente accu­mu­lato nel lavoro ripro­dut­tivo. Fede­rici opera così un pas­sag­gio dal rifiuto alla valo­riz­za­zione del lavoro ripro­dut­tivo. Il rifiuto segnava la riven­di­ca­zione di un sala­rio per il lavoro dome­stico negli anni Set­tanta. Il capi­tale aveva con­te­nuto i costi della ripro­du­zione della forza lavoro tra­sfor­mando il lavoro dome­stico in un’attività «natu­rale» per le donne e per­ciò non pagata. Pre­ten­dere un sala­rio signi­fi­cava «de-sessualizzare» quel lavoro rico­no­scen­dolo come tale e non come una com­po­nente essen­ziale di una pre­sunta iden­tità femminile.

Dal rifiuto alla valorizzazione. Poli­ti­ciz­zare il lavoro ripro­dut­tivo per­met­teva di con­si­de­rare le donne come parte della «classe» anche se non erano diret­ta­mente coin­volte in un rap­porto sala­riale, in virtù della loro fun­zione spe­ci­fica all’interno della divi­sione del lavoro. Vi è quindi con­ti­nuità tra rifiuto e valo­riz­za­zione del lavoro ripro­dut­tivo, per­ché in entrambi i casi le donne trag­gono il loro «signi­fi­cato» poli­tico dalla posi­zione in cui sono col­lo­cate dai rap­porti capi­ta­li­stici di (ri)produzione. Per que­sto, men­tre coglie un pro­blema, la cri­tica di Fede­rici al fem­mi­ni­smo ita­liano della dif­fe­renza risulta essa stessa pro­ble­ma­tica: pur avendo il merito di aver rifiu­tato l’assimilazione delle donne agli uomini attra­verso l’uguaglianza, il fem­mi­ni­smo della dif­fe­renza ha tra­sfor­mato quest’ultima in una «natura» fem­mi­nile da affer­mare al di fuori di un pro­getto di tra­sfor­ma­zione sociale. Biso­gna però doman­darsi in che cosa que­sta tra­sfor­ma­zione con­si­sta per le donne se la loro «seconda natura capi­ta­li­stica» – la loro espe­rienza come «ripro­dut­trici» – è il valore poli­tico da affer­mare nella pro­spet­tiva dei com­mons. È allora signi­fi­ca­tivo che il «patriar­cato» appaia a Fede­rici del tutto assor­bito nel rap­porto capitalistico.

Vio­lenza ses­suale, por­no­gra­fia, pro­sti­tu­zione e nuove forme di «cac­cia alle stre­ghe» risul­tano dun­que effetti col­la­te­rali della tra­sfor­ma­zioni del capi­tale – ben­ché inne­scati anche dal rifiuto oppo­sto dalle donne alla divi­sione ses­suale del lavoro – tanto che ogni con­flitto ses­suale sem­bra poter essere «risolto» da una con­sa­pe­vo­lezza del ruolo delle donne nella lotta di classe. Negli anni Set­tanta la riven­di­ca­zione del sala­rio per il lavoro dome­stico era rivolta non ai mariti ma allo Stato, «l’“Uomo” che trae real­mente pro­fitto da que­sto lavoro»; ora il baga­glio poli­tico delle donne come ripro­dut­trici è una risorsa tanto per le donne quanto per gli uomini, «sia per demo­lire l’architettura ses­suata delle nostre vite, sia per rico­struire le nostre case e le nostre vite come beni comuni».

Nell’indicare la società capi­ta­li­stica come la causa dell’oppressione delle donne, in ogni caso, Fede­rici fa della loro con­di­zione una chiave spe­ci­fica per com­pren­dere pro­cessi di por­tata glo­bale. Nei saggi cen­trali del volume la rior­ga­niz­za­zione delle poli­ti­che (ri)produttive nel qua­dro della glo­ba­liz­za­zione è inter­pre­tata alla luce della sem­pre più mar­cata coin­ci­denza tra divi­sione ses­suale e inter­na­zio­nale del lavoro. La subor­di­na­zione delle donne è rove­sciata, per dirla con Chan­dra Talpa de Mohanty, in un «pri­vi­le­gio epi­ste­mo­lo­gico» che sarebbe invece can­cel­lato, secondo Fede­rici, dalle teo­rie del lavoro «imma­te­riale» che, men­tre rico­no­scono la dimen­sione «affet­tiva» di tutto il lavoro, met­tono in ombra la spe­ci­fi­cità di quello riproduttivo.

Le enclave di libertà. Que­ste let­ture – e in par­ti­co­lare quella di Toni Negri e Micheal Hardt, con cui Fede­rici si con­fronta diret­ta­mente – espri­me­reb­bero una visione «tec­ni­ci­sta» della rivo­lu­zione che avrebbe già impe­dito a Marx di rico­no­scere la fun­zione e il signi­fi­cato del lavoro ripro­dut­tivo delle donne per la lotta di classe. Non solo le mac­chine non potranno mai sosti­tuire il lavoro ripro­dut­tivo umano, ma la tec­no­lo­gia è anche il segno più evi­dente del rap­porto distrut­tivo del capi­tale con la natura. Indi­cando l’irriducibile spe­ci­fi­cità del lavoro ripro­dut­tivo, Fede­rici mette in guar­dia con­tro i modelli inter­pre­ta­tivi «svi­lup­pi­sti» che foca­liz­zano il cen­tro dell’iniziativa poli­tica nelle pre­sunte figure più avan­zate del lavoro pro­dut­tivo (il cosid­detto «cogni­ta­riato») e rele­gano a forme ana­cro­ni­sti­che moda­lità di ero­ga­zione del lavoro, come quello a domi­ci­lio, che sono in realtà parte di un pro­getto di lungo periodo del capi­tale. Tut­ta­via, è in que­sto pas­sa­gio che la sua pro­po­sta poli­tica rivela forse i punti più problematici.

I com­mons, infatti, rischiano di cri­stal­liz­zare un’associazione tra donne e natura in chiave anti-tecnologica che fa il paio con una con­ce­zione dei rap­porti sociali più rivolta verso il pas­sato che non capace di misu­rarsi con le con­trad­di­zioni del pre­sente. Se è vero – come ammette Fede­rici – che il van­tag­gio della teo­ria di Negri e Hardt è quello di con­si­de­rare la pro­du­zione del comune come imma­nente all’organizzazione capi­ta­li­stica del lavoro, allora è dif­fi­cile con­si­de­rare i com­mons come un «fuori» dal capi­tale o dal mer­cato senza farne enclave la cui pos­si­bi­lità di esi­stenza dipende dalla loro irri­le­vanza poli­tica – zone fran­che per­ché indif­fe­renti per il capi­tale – o dalla loro fun­zione di cal­mie­ra­mento degli effetti della crisi pro­prio come l’economia di sus­si­stenza delle donne del Terzo mondo aveva «ammor­tiz­zato» gli effetti della glo­ba­liz­za­zione. Non stu­pi­sce, per­ciò, che per Fede­rici i limiti di Marx siano supe­rati gra­zie a un rife­ri­mento all’anarchismo di Kro­po­t­kin o al socia­li­smo utopistico.

Il miraggio del reddito. Il pro­blema sol­le­vato negli anni Set­tanta, in altre parole, resta aperto: «se assu­miamo che ogni lotta debba con­clu­dersi con una redi­stri­bu­zione della povertà, assu­miamo l’inevitabilità della nostra scon­fitta». Per que­sto, le domande che Fede­rici pone nel corso del suo lungo lavoro di defi­ni­zione del punto zero della rivo­lu­zione – l’imprescindibile fon­da­mento fem­mi­ni­sta della lotta di classe – restano ine­lu­di­bili. Pen­sare la dimen­sione sociale della ripro­du­zione signi­fica, ad esem­pio, porre la que­stione dell’aborto (sem­pre più attuale nei pro­cessi di rior­ga­niz­za­zione capi­ta­li­stica oltre la crisi) non solo nei ter­mini di una libera scelta indi­vi­duale delle donne sul pro­prio corpo, ma alla luce delle con­di­zioni mate­riali nelle quali si dà quella scelta. Essa impone di doman­darsi che cosa signi­fica pre­ten­dere un rico­no­sci­mento della vita messa al lavoro in ter­mini di «red­dito» senza fare di quel red­dito il mirag­gio di una per­fetta equi­va­lenza sala­riale e dello Stato un media­tore neu­trale. Essa obbliga a doman­darsi se la comu­nità – senza la quale non si danno com­mons – possa essere la rispo­sta al pro­blema di una società glo­bale sem­pre più orga­niz­zata attra­verso l’esclusiva media­zione del denaro. Essa spinge a inter­ro­garsi, come fem­mi­ni­ste, sul pro­blema del potere, quello che Fede­rici «per­ce­piva» nelle grandi assem­blee di donne di quarant’anni fa, in una dimen­sione di massa dif­fi­cil­mente con­se­gui­bile nelle comu­nità della ripro­du­zione. Ma pro­prio la ripro­du­zione, come sostiene Fede­rici, è il punto zero della rivo­lu­zione per­sino in un pre­sente glo­bale nel quale la libe­ra­zione di molte donne dal lavoro ripro­dut­tivo – magari gra­zie al lavoro di una donna migrante – ha spinto alcune a dichia­rare la fine del patriar­cato. Ben­ché del tempo sia tra­scorso, forse è ancora neces­sa­rio ammet­tere che «pos­siamo anche non ser­vire un uomo in par­ti­co­lare, ma siamo tutte in un rap­porto subor­di­nato nei con­fronti dell’intero mondo maschile».

Una ver­sione più ampia di que­sta recen­sione si può leg­gere sul sito Inter­net: www​.con​nes​sio​ni​pre​ca​rie​.org

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