Il manifesto, 8 maggio 2014 (m.p.r.)
Il Punto zero della rivoluzione. Lavoro domestico, riproduzione e lotta femminista (ombre corte, pp. 158, euro 15) presenta in un’unica raccolta quasi quarant’anni della riflessione teorica e politica di Silvia Federici, studiosa (ha insegnato presso l’Università di Port Harcourt in Nigeria e la Hofstra University di New York) e soprattutto militante politica femminista. Del 1974 è il saggio che apre il volume, del 2010 quello conclusivo. Tra questi due estremi si collocano processi di trasformazione del capitalismo che rischiano di rendere i testi più datati quasi un souvenir dal passato, a meno di non approfittare di questo scarto temporale per leggere la riflessione di Federici a ritroso, sia per valutare potenzialità e limiti della sua più recente proposta politica, sia per utilizzarla come «grado zero» dei percorsi attuali dei movimenti sociali in modo da vagliare le possibilità reali di resistere alle trasformazioni del capitalismo globale.
Per Federici la messa in comune (commoning) del lavoro riproduttivo, la sua gestione al di fuori delle logiche del mercato, unisce la resistenza opposta dalle donne ai nuovi processi di enclosure nei contesti post-coloniali agli esperimenti di «auto-riproduzione» praticati dai movimenti sociali contemporanei. Orti urbani, cucine di quartiere, movimenti per il free software sono considerati modi – non utopici ma già in atto, benché non integrati in un progetto complessivo condiviso dai movimenti radicali – di sottrarre le condizioni della riproduzione al comando del salario che il capitale impone a quote crescenti della popolazione mondiale attraverso una nuova «accumulazione originaria». In questa resistenza le donne avrebbero un ruolo cruciale non grazie a una loro naturale vocazione, ma in virtù del bagaglio di sapere e dell’esperienza di lotta che hanno storicamente accumulato nel lavoro riproduttivo. Federici opera così un passaggio dal rifiuto alla valorizzazione del lavoro riproduttivo. Il rifiuto segnava la rivendicazione di un salario per il lavoro domestico negli anni Settanta. Il capitale aveva contenuto i costi della riproduzione della forza lavoro trasformando il lavoro domestico in un’attività «naturale» per le donne e perciò non pagata. Pretendere un salario significava «de-sessualizzare» quel lavoro riconoscendolo come tale e non come una componente essenziale di una presunta identità femminile.
Dal rifiuto alla valorizzazione. Politicizzare il lavoro riproduttivo permetteva di considerare le donne come parte della «classe» anche se non erano direttamente coinvolte in un rapporto salariale, in virtù della loro funzione specifica all’interno della divisione del lavoro. Vi è quindi continuità tra rifiuto e valorizzazione del lavoro riproduttivo, perché in entrambi i casi le donne traggono il loro «significato» politico dalla posizione in cui sono collocate dai rapporti capitalistici di (ri)produzione. Per questo, mentre coglie un problema, la critica di Federici al femminismo italiano della differenza risulta essa stessa problematica: pur avendo il merito di aver rifiutato l’assimilazione delle donne agli uomini attraverso l’uguaglianza, il femminismo della differenza ha trasformato quest’ultima in una «natura» femminile da affermare al di fuori di un progetto di trasformazione sociale. Bisogna però domandarsi in che cosa questa trasformazione consista per le donne se la loro «seconda natura capitalistica» – la loro esperienza come «riproduttrici» – è il valore politico da affermare nella prospettiva dei commons. È allora significativo che il «patriarcato» appaia a Federici del tutto assorbito nel rapporto capitalistico.
Violenza sessuale, pornografia, prostituzione e nuove forme di «caccia alle streghe» risultano dunque effetti collaterali della trasformazioni del capitale – benché innescati anche dal rifiuto opposto dalle donne alla divisione sessuale del lavoro – tanto che ogni conflitto sessuale sembra poter essere «risolto» da una consapevolezza del ruolo delle donne nella lotta di classe. Negli anni Settanta la rivendicazione del salario per il lavoro domestico era rivolta non ai mariti ma allo Stato, «l’“Uomo” che trae realmente profitto da questo lavoro»; ora il bagaglio politico delle donne come riproduttrici è una risorsa tanto per le donne quanto per gli uomini, «sia per demolire l’architettura sessuata delle nostre vite, sia per ricostruire le nostre case e le nostre vite come beni comuni».
Nell’indicare la società capitalistica come la causa dell’oppressione delle donne, in ogni caso, Federici fa della loro condizione una chiave specifica per comprendere processi di portata globale. Nei saggi centrali del volume la riorganizzazione delle politiche (ri)produttive nel quadro della globalizzazione è interpretata alla luce della sempre più marcata coincidenza tra divisione sessuale e internazionale del lavoro. La subordinazione delle donne è rovesciata, per dirla con Chandra Talpa de Mohanty, in un «privilegio epistemologico» che sarebbe invece cancellato, secondo Federici, dalle teorie del lavoro «immateriale» che, mentre riconoscono la dimensione «affettiva» di tutto il lavoro, mettono in ombra la specificità di quello riproduttivo.
I commons, infatti, rischiano di cristallizzare un’associazione tra donne e natura in chiave anti-tecnologica che fa il paio con una concezione dei rapporti sociali più rivolta verso il passato che non capace di misurarsi con le contraddizioni del presente. Se è vero – come ammette Federici – che il vantaggio della teoria di Negri e Hardt è quello di considerare la produzione del comune come immanente all’organizzazione capitalistica del lavoro, allora è difficile considerare i commons come un «fuori» dal capitale o dal mercato senza farne enclave la cui possibilità di esistenza dipende dalla loro irrilevanza politica – zone franche perché indifferenti per il capitale – o dalla loro funzione di calmieramento degli effetti della crisi proprio come l’economia di sussistenza delle donne del Terzo mondo aveva «ammortizzato» gli effetti della globalizzazione. Non stupisce, perciò, che per Federici i limiti di Marx siano superati grazie a un riferimento all’anarchismo di Kropotkin o al socialismo utopistico.
Una versione più ampia di questa recensione si può leggere sul sito Internet: www.connessioniprecarie.org