Una intelligente analisi del renzismo, con una conclusione molti "politicistica" secondo il suo stesso audace autore.
Il manifesto, 16 gennaio 2014
Prima di entrare nel merito della delicata materia politica, cui questo articolo intende fare riferimento, devo confessare una mia personale difficoltà, o storico disagio, che potrebbe rendere quanto segue altamente opinabile. E cioè: quando il dissenso politico diventa abissale, si trasforma in una differenza antropologica, che lo fonda e giustifica. Per quanto mi riguarda è così che io guardo Matteo Renzi, il nuovo e brillante leader della sinistra italiana. E’ come se lui ed io appartenessimo a mondi diversi, incomunicabili. Perciò dicevo della mia difficoltà di costruirci un discorso ragionevole sopra. Sarebbe come se al marziano di Flaiano si fosse chiesto di formulare un oculato giudizio politico sui frequentatori dei caffè di Via Veneto, o anche viceversa (ai tempi suoi, s’intende: adesso anche lì è tutt’altra cosa).
Tutto ciò — lo dico senza ironia e senza nessuna autocondiscendenza affabulatoria — pende gravemente a mio sfavore. Lui è il nuovo che avanza, con tutta la forza dirompente della sua totale (anche anagrafica) ignoranza del passato. Io sono il passato che guarda con sbigottimento al presente, con la pretesa, oggi totalmente, anzi comicamente vana, che la conoscenza del passato, e il tenerne conto, come si faceva una volta, possano portare ancora qualche piccolo elemento di previsione, e di azione, per il presente. Ma allora, se della politica abbiamo due nozioni e credenze nettamente opposte, perché presumere di giudicare una delle due politiche dalla specola di osservazione di una concezione della politica che le è esattamente opposta? Sappia perciò il lettore — lo dico per onestà intellettuale — che questo articolo sarà marcato negativamente da questa forte pregiudiziale .
Ridurrò il resto ad alcune considerazioni basilari, anzi, a questa sparsa “lettura del testo”, che illumini (forse) il punto in cui siamo.
1. L’ho già detto in altre occasioni, ma in esordio voglio tornare e ricordarlo. Renzi, e il renzismo, il quale già gli è nato e anzi prospera vigorosamente accanto, rappresenta l’approdo finale della lunga parabola iniziata venticinque anni fa con la Bolognina di Achille Occhetto. Qual è l’essenza di questa parabola? L’essenza di questa parabola è la cancellazione, oggi ormai totale e irreversibile, della tanto vituperata “diversità comunista” (cioè della pretesa, abominevole agli occhi di molti, di fare politica in modo diverso per obiettivi diversi).
Questa cancellazione incide tanto più pesantemente sul panorama politico italiano in quanto non ha dato luogo, come si poteva pensare e sperare, alla nascita di un’opzione socialista. Il crollo del vecchio socialismo, in ragione fondamentale (ma non solo) della campagna giudiziaria di Mani pulite, e il rifiuto, da studiare ancora fino in fondo, della dirigenza post-comunista di subentrargli in quel ruolo, hanno prodotto questo unicum nella storia europea degli ultimi due secoli: l’Italia è l’unico paese in Europa in cui non esiste un partito socialista.
Il continuo decalage autodefinitorio — Pci, Pds, Ds, Pd… — e cioè in buona sostanza l’incertezza profonda su cosa si è e soprattutto su cosa si vuole essere o diventare, ha prodotto la perdita di qualsiasi identità culturale e ideale. Il renzismo replica: che bisogno ce n’è? La politica ne prescinde. Intanto andiamo avanti a tutta birra. Poi, eventualmente, si vedrà.
2. Come già accennavo, la chiave di tutta questa storia sta nell’incredibile serie di errori commessi dalla vecchia dirigenza post comunista (che non abbiamo né spazio né voglia di approfondire in questa sede, ma diamo ormai per storicamente appurati). L’ultimo soprassalto identitario si verifica quando Bersani sconfigge nettamente Renzi alle primarie del 2012. Il genio del renzismo consiste nell’avere colto il momento in cui lo sfinimento del vecchio gruppo dirigente lascia aperte le porte al più drastico dei rovesciamenti. Tale rovesciamento consiste essenzialmente di tre aspetti:
a) Renzi sostituisce la forza plebiscitaria del consenso alla gerarchia organizzata e scalare (e talvolta un po’ omertosa) del Partito. Cioè, in sostanza, nega l’utilità e l’opportunità in re del Partito, il quale resta come un puro guscio, la bandiera da sventolare (ma neanche troppo, spesso quasi per niente) nelle occasioni ufficiali. Cioè: cambia la nozione stessa di democrazia, che questo paese bene o male ha praticato dal ’45 a oggi (tutelata, se non erro, da certi aspetti non irrilevanti della nostra Costituzione);
b) Insieme con l’utilità e l’opportunità del proprio Partito (e, più in generale, della forma partito in quanto tale), nega l’utilità e l’opportunità della rappresentanza parlamentare. Infatti, tradizionalmente, fra il corpo degli eletti, i quali, almeno teoricamente, dovrebbero rappresentare l’autentica volontà popolare, e la direzione del Partito corrispondente c’è sempre stata (almeno dopo la chiusura, per il Pci, della fase staliniana) una dialettica di confronto e di scambio. Oggi la rappresentanza parlamentare viene trattata alla stregua di una semplice esecutrice dei diktat provenienti dalla direzione renziana;
c) La politica si dispiega, per il verbo renziano, come la serie di atti che servono a raggiungere il più rapidamente ed efficacemente possibile quel determinato risultato. La direzione di marcia dell’intero processo, e i suoi riflessi sulla situazione sociale, culturale ed etico-politica del paese, restano nell’ombra. Probabilmente ci sono, ma meno si vedono e meglio è (o forse, se si vedessero, sarebbe molto peggio). Come si dice a Roma “famo a fidasse”.
3. Se le osservazioni precedenti sono minimamente fondate, salta all’occhio che le caratteristiche “nuove” del renzismo (cioè la velocissima rivoluzione accaduta negli ultimi due anni nel campo della sinistra moderata) sono enormemente simili a quelle già verificatesi nel corso degli anni precedenti nel centro-destra e nella realtà politica del dissenso e dell’opposizione popolari.
Per vincere Silvio Berlusconi e Beppe Grillo — cosa che non era stabilmente accaduta mai alla vecchia dirigenza post-comunista e post-democristiana — occorreva seguirli sul loro stesso terreno. Questo mi pare davvero inconfutabile: leaderismo assoluto, populismo plebiscitario, discreto disprezzo dei meccanismi istituzionali e costituzionali, rifiuto del sistema-partito e del sistema-partiti, rottura degli schemi della vecchia, logora e consunta immagine del politico ancien régime, sono i punti di forza del “nuovo politico” al di là e al di qua dei tradizionali, anch’essi terribilmente obsoleti, limiti politico-ideali, destra, sinistra, e quant’altro ci viene dal passato. Il “nuovo politico” non ha avversari: ha solo concorrenti, da battere più o meno sul loro stesso terreno. Fra loro potrebbero persino intendersi: e non è detto che almeno su certi terreni, per esempio la nuova legge elettorale, questo non accada.
4. Il dato forse più significativo di tale processo è che esso ha acquisito rapidamente un vasto consenso popolare. Il “popolo” (insomma, più esattamente, un quoziente piuttosto vasto dell’elettorato del Pd, con ramificazioni significative negli altri elettorati) segue Renzi su questa strada. Da più parti si sente ripetere: «Con Renzi si vince». Importa meno sapere “cosa si vince”, purché sia raggiunta una ragionevole sicurezza che “con Renzi si vince”. Dunque, leaderismo, populismo plebiscitario, liquidazione dei partiti, un discreto disprezzo per il gioco parlamentare e per le istituzioni che lo garantiscono, hanno fatto breccia in profondità. Media — organi di stampa, televisioni, opinion makers — si allineano sempre più entusiasticamente. Uomini inequivocabilmente di sinistra (Vendola, Landini) sembrano guardare con simpatia alle possibilità di manovra, che il “nuovismo” renziano consente loro (per forza, meglio che star fermi, oppure restare per sempre marginali!).
5. Dunque, c’è stato, come sempre accade in questi casi, un processo di reciproco riconoscimento tra il leader nascente e le masse mutanti (ne hanno discorso recentemente Eugenio Scalfari ed Ernesto Galli della Loggia rispettivamente su la Repubblica e il Corriere della Sera: tornerò prossimamente su tale argomento). Si potrebbe ragionare a lungo su tali processi. Quel che conta è però che siano avvenuti. Constatarlo non significa però sapere come contrapporvisi. Anzi: è difficile interporsi soprattutto nel momento stesso in cui, come accade ora, tale congiungimento avviene. E tuttavia, il momento in cui il congiungimento avviene è però anche quello in cui una possibile interposizione va elaborata e presentata; altrimenti la partita è chiusa come minimo per un decennio. Ma qui conciano i dolenti lai. Non si tratta infatti di contrapporre soltanto un’ipotesi politica a un’altra, per ora prevalente. Si tratta, per riesumare una vecchia, detestatissima terminologia, di ricreare una cultura politica della sinistra, ancorata alla tradizione (tutto quel che c’è di buono al mondo ha un passato e una storia) e al tempo stesso moderna, modernissima, più dell’altra che, tutto sommato, non vede molto più al di là della punta del proprio naso. Ossia. cominciare a dire ragionevolmente quel che si vuole e prima di dire come lo si vuole. Resta dunque qualcosa del passato: diversi. Ma nuovi: non più comunisti. Questa è la scommessa. Resta tutto sommato credibile dal fatto che in Italia di così ce ne sono tanti, li conosco e ci lavoro insieme. Difficile è stendere la rete fra le loro non sempre facilmente assimilabili diversità. ma se si deve fare, si farà. In tempi di durissima carestia è esattamente quello che bisogna tornare a fare.
6. Prima di chiudere vorrei esibirmi nell’ultima farneticazione politica, anzi politicistica. Se le cose stanno come il passatista dice, bisognerebbe evitare a ogni costo che il governo Letta cada e si vada, come gli homines novi più o meno concordemente auspicano, al voto.
Per tre motivi (almeno): a) bisogna evitare che la destra si ricompatti; b) bisogna elaborare una buona legge elettorale che senza equivoci assicuri in questo paese l’alternanza: il doppio turno e le preferenze (possibilmente più di una), sono l’unico sistema in grado di farlo, e per ottenerlo ci vorrà più tempo di quanto si pensi; c) abbiamo bisogno di tempo per elaborare, proporre e imporre una nuova cultura politica, della sinistra, con le conseguenze che un tale processo potrebbe avere sull’intero assetto politico e civile del paese.
Sono argomentazioni paradossali per uno che invita a resuscitare la vecchio-nuova sinistra? Sì, è vero. Ma il paradosso è la nostra attuale condizione di vita — persino della vita pubblica e civile (talvolta personale), oltre che politica. Fare a meno del paradosso oggi non si può. Perciò è necessario astutamente governarlo