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Vanna Vannuccini
La rivoluzione gentile dell'Iran. Le donne di Teheran
12 Maggio 2017
Donna
«Un altro Iran rispetto a quello di quindici anni fa Le leggi sono rimaste le stesse ma trasgredirle è ora un fenomeno di massa. Al punto che sono stati proprio i comportamenti quotidiani dei cittadini a trasformare il Paese. Merito soprattutto delle donne E di queste loro storie coraggiose

». la Repubblica, 12 maggio 2017 (c.m.c)

Tra una settimana, il 19 maggio, gli iraniani eleggeranno un nuovo Presidente. Hassan Rouhani ha buone probabilità di venire rieletto, ma i conservatori, e in prima linea i pasdaran, le Guardie rivoluzionarie, cercano di riprendersi il potere che per quattro anni è stato in mano a un moderato. Hanno messo in campo due sfidanti che promettono di creare 5 milioni di posti di lavoro e triplicare i sussidi ai poveri. Il punto debole per Rouhani è infatti l’economia, perché il miracolo economico che gli iraniani si aspettavano dopo l’accordo nucleare non c’è stato. Le società straniere non investono perché temono che Trump e i tribunali americani puniranno anche in futuro chi fa affari con l’Iran.

Quanto contano le elezioni se l’Iran è una teocrazia dove la Guida Suprema, l’Ayatollah Khamenei, ha l’ultima parola su tutto? Molto, perché il regime iraniano non è monolitico come spesso si crede. Religiosi, militari e burocrati si dividono in fondamentalisti, conservatori, moderati e riformatori e molto cambia nella politica estera come in quella culturale e sociale a seconda del gruppo che prevale. La presidenza Ahmadinejad aveva isolato l’Iran, il moderato Rouhani è riuscito a riportarlo nel consesso internazionale.

Le elezioni del 19 maggio presentano inoltre due novità che si possono definire storiche: innanzi tutto per la prima volta nella storia della Repubblica islamica alle elezioni amministrative, che si tengono parallelamente alle presidenziali, hanno presentato la loro candidatura donne che appartengono a quella borghesia che da quarant’anni si era ritirata in una specie di emigrazione interna, vivendo un po’ in Europa e un po’ nei quartieri alti di Teheran. Professioniste che non hanno mai indossato un chador e che hanno votato sì e no una volta in vita loro per il riformatore Khatami, quando tutto il Paese sperò nelle riforme. La seconda novità è che il Consiglio dei Guardiani, l’organo ultraconservatore che ha il potere di ammettere o bocciare i candidati, le abbia accettate.

Certamente l’ombra di Trump spinge tutti a non prendere rischi e a optare per la stabilità. Ma al di là di questo è significativo che il Consiglio dei Guardiani si sia arreso ai tempi, perché l’Iran è oggi un altro Paese rispetto a quello che era dieci o quindici anni fa. Le leggi possono essere rimaste le stesse perché i fondamentalisti hanno impedito ai riformatori di cambiarle, ma trasgredire le regole qui è un fenomeno di massa. I comportamenti quotidiani dei normali cittadini hanno profondamente trasformato il Paese. E in un certo senso, per quanto assurdo possa sembrare, questo ha contribuito alla stabilità della Repubblica islamica.

Sono i giovani e soprattutto le donne le protagoniste del cambiamento. Le donne iraniane hanno fatto la loro rivoluzione e si sono servite perfino del chador, che in Occidente viene visto come il simbolo dell’oppressione, per uscire di casa, studiare e entrare nel mondo del lavoro.
Abbiamo ascoltato le loro voci.

TEHERAN La Scuola di Musica è di fronte alla Vahdat Hall, il teatro dell’Opera. Ragazze con la tipica mise delle studentesse, spolverini stretti e foulard neri entrano e escono trasportando violoncelli, violini , strumenti a fiato. Trentotto anni fa l’ayatollah Khomeini, il fondatore della Repubblica Islamica, bandì ogni genere di musica, che considerava parte di quell’intossicazione da Occidente contro cui erano insorti i rivoluzionari. Trasportare un violino o un oboe fu vietato in Iran, era come trasportare un’arma. Oggi non è più così, sebbene il divieto, come altri fissati al tempo della rivoluzione, non sia mai stato formalmente abolito. Quando un concerto viene trasmesso in tv, gli operatori televisivi fanno attenzione a non filmare gli strumenti, la faccia di chi suona sì, magari anche le mani, ma lo strumento no, non si sa mai.

Sono già le otto di sera e Kimia non smette di fare domande in questa master class speciale che la Fondazione Roudahy e il ministero della Cultura islamica offrono agli studenti di musica grazie ad un accordo con Roma, con la World Youth Orchestra del direttore Damiano Giuranna, Santa Cecilia e la Sapienza che prevede scambi, formazione, concerti congiunti. A luglio ci sarà un concerto con musicisti e cori dei due Paesi, e l’ambizioso progetto è di suonare due nuove composizioni di musica sacra, una iraniana e una italiana, ma scambiando i testi religiosi. Il compositore italiano userà il Corano, quello iraniano la Bibbia. La musica contro i pregiudizi.

Kimia suona l’oboe nella Tehran Symphony, è la migliore del gruppo che segue la master class di Francesco De Rosa, primo oboe di Santa Cecilia, ma vuole diventare ancora più brava. Vorrebbe anche avere un nuovo strumento, che non si può permettere. « Ne ho comprato uno di seconda mano, che ha almeno trent’anni e mentre i violini migliorano invecchiando - sospira -, i legni ahimé peggiorano». Vorrebbe imparare il concerto per oboe di Mozart ma per questo mese (le master class avvengono una volta al mese) il maestro le assegna una serie di esercizi da ripetere un’ora al giorno. « Quando la tecnica è sotto controllo il cuore batte da solo, senza bisogno di un pacemaker», le dice il maestro.

Kimia aveva la passione della musica fin da ragazzina. «Mio padre compone musica per matrimoni e altre cerimonie pubbliche » . Kimia aveva cominciato con il violino ma è mancina e nessun insegnante aveva ritenuto di potersi occupare di lei. Poi aveva sentito un oboe ed era rimasta affascinata, quello sarebbe stato il suo strumento. Ha venticinque anni, vive a Teheran da sola, dà lezioni di musica per mantenersi ed è felice di avere per la prima volta maestri di fama internazionale. Non smetterebbe mai di imparare. Il suo sogno è di poter suonare una volta in una delle grandi orchestre del mondo. Già suonare con la World Youth Symphony le è sembrato miracoloso.

La Scuola di Musica, il solo conservatorio statale di Teheran, è sopravvissuta a tutte le intemperie degli anni post- rivoluzione continuando a funzionare, seppure in sordina. E tre anni fa dopo decenni di chiusura ha riaperto i battenti anche la Tehran Symphony. L’arte di rompere silenziosamente le regole in Iran è un fenomeno di massa, che in nessun altro Paese raggiunge queste dimensioni, e per quanto possa sembrare assurdo contribuisce alla stabilità della Repubblica islamica. Come se ci fosse una tregua silenziosa tra governanti e governati: voi non ci date fastidio e noi non vi rendiamo la vita difficile quanto potremmo. Chi paragona l’Iran a quello degli anni dopo la rivoluzione vede un altro Paese, e i cambiamenti che in quasi quarant’anni l’hanno trasformato non sono dovuti a movimenti politici o a battaglie dell’opposizione, ma ai semplici comportamenti quotidiani dei normali cittadini, soprattutto giovani e ancora di più donne.

Le donne hanno fatto la loro rivoluzione, usando a loro vantaggio perfino i divieti che la rivoluzione, a sorpresa, teneva in serbo per loro. Per esempio il chador, che in occidente è diventato il simbolo dell’oppressione femminile. Non si capisce da noi che le donne iraniane invece sono riuscite a volgerlo a loro favore, perché se ne sono servite per uscire di casa, studiare e entrare nel mondo del lavoro svolgendo attività che un tempo erano loro inaccessibili. Eppure ogni volta che c’è qualche gara internazionale in Iran, l’ultima è stata per esempio un torneo di scacchi, c’è qualche competitrice che rifiuta di metter piede in Iran per dare l’esempio di non sottostare “ all’oppressione”. « Ma è proprio il contrario di quello che serve a noi - dice Kimia -. Io spero che in futuro, con o senza foulard, la riapertura al mondo cominciata con Rouhani continui».

Le parabole dei Pasdaran

Alla fine, come sostiene Kimia, il regime si è adeguato ai cambiamenti. Anni fa le parabole sui tetti delle case venivano regolarmente confiscati dai basiji – e regolarmente ricomprati dagli utenti (si diceva li importassero gli stessi pasdaran che ordinavano il sequestro). Oggi non si sente più parlare di sequestri, né di portoni tenuti accuratamente chiusi, né di basiji che approfittano di una porta momentaneamente lasciata aperta per correre sul tetto a requisire gli impianti satellitari. Tre quarti della popolazione le possiede.

Lo stesso vale per il sesso fuori del matrimonio: è proibito e punito con pene molto severe, ma ormai non c’è famiglia a Teheran dove un figlio o una figlia non convivano con un compagno o una compagna, senza essere sposati. Li chiamano matrimoni bianchi, perché i conviventi non hanno stampigliato sulle loro carte d’identità l’avvenuto matrimonio. Altrettanto si può dire per l’alcol, che ognuno può farsi recapitare a casa con una telefonata, o dei codici di vestiario, che ogni ragazza interpreta a modo suo, oppure dei cani, considerati non islamici ma che tutti portano a passeggio senza conseguenze.

I comportamenti quotidiani collettivi hanno cambiato il Paese, anche se le leggi non sono cambiate. Una ragione è anche che il regime non è monolitico, tutt’altro. Ha molte voci, spesso cacofoniche. Religiosi, militari e burocrati si dividono tra fondamentalisti, conservatori, moderati e riformatori. E sebbene la parola definitiva spetti agli organi religiosi, e in particolare alla Guida Suprema, molto cambia della politica estera, sociale e culturale a seconda della fazione che prevale in quel momento. Alle elezioni del prossimo 19 maggio gli ultraconservatori cercheranno di riprendersi il potere che per quattro anni è stato in mano ad un presidente moderato, Hassan Rouhani.
L’accordo tacito tra governanti e governati vale finché uno sguardo esterno non lo nota. Quando questo accade il regime, per non apparire debole, applica all’improvviso leggi dimenticate da anni. Così il giornale femminile
fu chiuso per mesi un anno fa perché parlò dei matrimoni bianchi. E può accadere che finisca in carcere a lungo un giovane utente di Facebook.
Non fa nulla se un account Facebook ce l’hanno anche le massime autorità del Paese, tra cui il presidente e la stessa Guida Suprema Khamenei. Perché
Facebook insieme con altri social media resta proibito e accessibile solo attraverso un vpn che aggira il filtro statale che lo blocca.

Quanto il regime si stia adeguando si è visto anche in questi giorni preelettorali (insieme alle presidenziali si vota per i municipi). Il Consiglio dei Guardiani, l’organo più conservatore del regime, che prima d’ora non ha mai ammesso la candidatura dei kheyr-e khodi, coloro che sono fuori dal sistema (a fronte dei khodi che ne fanno parte), ha lasciato passare attraverso le sue fitte maglie candidati finora impensabili, borghesi che pur restando in Iran sono vissuti in una specie di emigrazione interna. Come l’architetta urbanista Taraneh Yalda. O attiviste sociali come Amene Shirafkan e Leila Arshad. Oppure giovani che anni fa erano stati arrestati perché attivisti studenteschi, come Abdollah Momeni.

La borghesia senza chador

«Perché dovremmo continuare a lasciare che gente molto meno preparata di noi decida le sorti di questa città?», dice Taraneh Yalda, laureata in architettura a Parigi, urbanista, autrice per il Comune di un molto lodato master plan per il riassetto dei quartieri più poveri del sud di Teheran, che però è rimasto sulla carta. La novità delle prossime elezioni è anche che donne borghesi come Taraneh, che avranno votato sì e no due volte in vita loro, la prima per Khatami nel 1997 e la seconda per Rouhani quattro anni fa, abbiano deciso di candidarsi. Jeans e maglietta scura, Taraneh si muove svelta in quello che chiama divertita il suo quartier generale, mentre mi fa vedere una foto del figlio entomologo che ha vinto una borsa di studio negli Stati Uniti, offre ai visitatori un tè con un pane speciale che fa solo una pasticceria qui vicina, e posa per le foto che dovrà postare sul suo sito elettorale. La campagna elettorale viene fatta esclusivamente su internet.

Il suo quartier generale è nel centro popolare e commerciale della capitale, sulla via Jomhuri. «Copri di più i capelli», le raccomanda il fotografo. Ma lei obietta: « No, io sono così » . Non credo che abbia mai indossato un chador. Appartiene a quella borghesia iraniana benestante che aveva fatto la rivoluzione quando nessuno si aspettava che finisse con una teocrazia e poi è sempre rimasta esterna alla Repubblica islamica, vivendo un po’ nella diaspora e un po’ nei quartier alti di Teheran Nord, attingendo ai beni di famiglia e a qualche prestazione professionale. Certamente l’arrivo di Trump e le sue minacce di rivedere l’accordo nucleare spingono tutti – regime e outsider - a non prendere rischi, a consolidare il più possibile la stabilità di cui gode l’Iran in mezzo a un Medio Oriente dilaniato.

Una rielezione di Rouhani appare per questo il risultato più auspicabile. Alla popolazione, per quanto delusa di non aver visto dopo la cancellazione delle sanzioni l’atteso miracolo economico. E probabilmente anche ai massimi vertici, il cui cuore batte per il candidato conservatore Ebrahim Raisi ( un religioso nominato l’anno scorso da Khamenei alla guida della potente Fondazione Astan-eQods di Mashhad). L’unico a uscire dal coro generale della prudenza è stato l’ex presidente Ahmadinejad che si è candidato nonostante i “ consigli” di Khamenei e in una conferenza stampa ha accusato il Leader di aver voluto lui il pugno di ferro contro l’onda verde del 2009. Ha ancora un certo seguito, avendo distribuito largamente sussidi a gente che non aveva mai visto vero denaro, e si aspettava forse una protesta da parte loro. Ma nessuno ha raccolto la provocazione.

« È incredibile, non ho più trovato nessuno. Tutti miei vecchi amici sono partiti. I miei coetanei, compagni di studi, tutti emigrati » dice Arianne Nassir, trentaquattro anni, tornata a Teheran dopo un lungo periodo passato in Italia. Molti giovani iraniani, soprattutto a Teheran, dopo le manifestazioni del 2009 contro la rielezione di Ahmadinejad, non ebbero scelta: o la prigione o l’esilio. «Ho solo nuovi amici, che sono molto diversi da quelli che avevo – dice Arianne -. Si occupano solo di telefoni, di computer e di vestiti. Guai a mettersi sempre lo stesso vestito! Le ragazze spendono in vestiti e creme di bellezza tutti i soldi che hanno. Io non ero abituata così. Ci stiamo allineando a modi di vivere che già mi sembravano vacui in Italia».

D’inverno i giovani si ritrovano a sciare, d’estate nelle gallerie. Qualche volta al cinema, al teatro, a un concerto. «Ma si parla poco, diversamente dagli anni quando son partita» dice Arianne. «E la novità sono i nuovi ricchi, i rich kids che sono davvero come si vedono nelle caricature. I genitori hanno fatto una barca di soldi, pensano solo alla macchina, una Porsche, una Maserati è tutto quello che vogliono dalla vita. E i più ricchi, naturalmente, anche la casa. Hanno abitazioni dorate, marmi dappertutto » . Sono però più liberi di come eravamo noi, racconta. « La maggior parte convive. Alcuni con il consenso delle famiglie, altri in aperto contrasto con loro. E tra di loro ci sono molti figli e figlie di ayatollah e esponenti di spicco del regime » .

In Italia Arianne viveva in una città ligure, dove aveva anche trovato un lavoro che le piaceva, come istitutrice in un asilo, ma si è sempre sentita straniera. Ora è ritornata a Teheran, dove abita il padre, professore universitario, perché in Italia, se non hai conoscenze sei emarginata, dice. Anche a Teheran è così, anzi molto di più, ma lei lì confida nelle conoscenze paterne. Per il momento fa diversi lavori, tutti sottopagati: assistente per la campagna elettorale di una candidata, e collaboratrice in un progetto governativo per la promozione dei giovani talenti ( il ministero della cultura islamica sotto Rouhani punta molto alla promozione di giovani artisti iraniani). Spera però, vista la sua ottima conoscenza di diverse lingue, di poter aspirare presto a un lavoro interessante e pagato bene. Ogni giorno fa domande e colloqui di lavoro. A Teheran molte società internazionali hanno già aperto uffici ma, finché avranno paura che il governo Trump o i tribunali americani puniscano chi fa affari con l’Iran, nessuno investe. Né assume dipendenti.

Il tabù della droga

L’assenza di investimenti stranieri è l’accusa principale da cui deve difendersi il presidente Rouhani nei dibattiti elettorali: l’economia non è ripartita dopo la cancellazione delle sanzioni, la disoccupazione giovanile sfiora il 40 per cento, per ora sono arrivati solo beni di consumo per i ricchi che a loro volta hanno paura d’investire ma non sanno come spendere i soldi se non comprando appunto macchine di lusso o costosi profumi. Così Rouhani viene accusato dagli avversari di aver ceduto all’Occidente in cambio di una bottiglia d’acqua di colonia.

Leila Arshad ha avuto tanti fastidi con le autorità per le sue attività di operatrice sociale che è riluttante a parlare di sé anche ora che si è candidata al municipio di Teheran. Deve incontrare ancora tante resistenze, se una lezione che doveva tenere al Politecnico Amir Kabir è stata cancellata, e solo con un’ora di ritardo Leila ha potuto convincere i dirigenti del Politecnico a lasciarla parlare. Arshad fin dagli anni 90 era stata la prima a sollevare il problema dei bambini abbandonati per strada e a chiedere al governo di far qualcosa per loro. Dieci anni fa ha fondato una organizzazione non governativa che opera in uno dei quartieri più poveri e desolati di Teheran Sud. In mezzo a un terreno polveroso la casa circondata da una ringhiera di metallo ospita donne con un terribile segreto. Sono donne drogate, un numero che cresce ogni giorno. Per gli uomini qualche istituzione che si prende cura di loro c’è, ma per le donne l’uso della droga è talmente tabù che né loro ne parlano né se ne può parlare in pubblico.

Quando Leila aprì l’istituto la polizia agiva solo arrestandole e le famiglie avrebbero preferito saperle morte. La svolta è avvenuta quando Teheran rischiò un’epidemia di Aids. «A quel punto - dice Leila - anche le autorità hanno cominciato ad ammettere che la dipendenza è una malattia, non un crimine » . Ma l’argomento resta così sensibile che comunque Leila mi chiede di evitare di menzionare il nome della clinica. Ancora oggi si legge sui giornali conservatori che la dipendenza delle donne dalla droga è un trucco dei nemici per attaccare «i valori islamici delle famiglie iraniane».

Le stime più contenute, quelle interne dell’ Iran’sDrug Control che sono molto inferiori a quelle internazionali, parlano di 3 milioni di drogati su 76 milioni di abitanti di cui un terzo donne. Alla clinica avevano cominciato distribuendo metadone, ma le ragazze venivano arrestate quando uscivano e dopo mesi di prigione tornavano a casa in condizioni peggiori di prima. Così Arshad ha cambiato strategia e nella clinica si occupano solo di chi ha già fatto il passo della disintossicazione: per aiutarle a restare pulite, trovare qualche lavoro, e dare assistenza ai figli. L’oppio e l’eroina afgani passano dall’Iran per raggiungere i mercati globali.

Sotto gli occhi della Nato la coltivazione dell’oppio in Afghanistan è decuplicata in questi anni, raggiungendo vette mai sfiorate prima. Così in Iran trovi la droga dappertutto, costa poco, te la offrono perfino nei saloni di bellezza. Gli uomini trovano sempre qualcuno che gli propone di vendere droga in cambio di una dose. Sono loro i primi a drogarsi, di solito, poi spingono le donne a farlo, mogli e figlie, perché poi le faranno prostituire per avere la droga assicurata.

Mentre io e Leila parliamo bussa un bambino con la madre, sono venuti a salutare. Una storia terribile: lei aveva partorito nel parco e voleva vendere il bambino per procurarsi la droga. Anche nel suo caso era stato il marito a dargliela, poi erano andati ognuno per la propria strada. Loro l’hanno salvata, ha seguito il programma di riabilitazione, imparato un mestiere ed è andata a cercare il marito per convincerlo a smettere e c’è riuscita. E il marito per riconoscenza ha adottato il bambino che non era suo. Ora lavorano entrambi per Medici senza Frontiere. Una storia a lieto fine, ci sono voluti otto anni.

All'inizio non era così

Maryam Khanon ha 45 anni, tre figlie, due sposate e con gravi problemi come lei. Si alza alle cinque, va a lavorare al Centro Nord, fa servizio da diverse famiglie, non finisce mai prima delle dieci di sera. Poi riprende una serie di taxi collettivi, perché a quell’ora di autobus non ce ne sono più e torna a casa. E la mattina dopo ricomincia. Il marito è drogato, per guadagnare qualcosa è andato in Afghanistan con degli amici a procurarsi la droga e poi è rimasto inchiodato. Maryam si è rifiutata di prenderla, lui è andato via di casa, torna ogni due, tre mesi a farsi dare un po’ di soldi. Una delle figlie sposate è nella stessa sua situazione. Ma forse la figlia divorzierà. La droga è condizione sufficiente per pretendere il divorzio e tenersi i figli. Maryam invece, alla signora per cui lavora e che la spinge a divorziare anche lei invece di mantenere un marito come il suo, risponde di no. Per lei il divorzio è una cosa brutta. E una donna divorziata non vale più nulla.

La confessione di Susan è venata dalla tristezza ma anche dall’orgoglio. « Mi sento a volte come Don Chisciotte, soffro di nostalgia, la mia è la generazione che ha creduto nella rivoluzione, ma mia figlia pensa che abbiamo sprecato la nostra gioventù. Nei sui occhi leggo un velo di rimprovero o di compatimento, mentre noi eravamo orgogliosi di aver preso parte a una rivoluzione che è stata una delle grandi insurrezioni della storia del ventesimo secolo, un grande movimento popolare e non sanguinoso. Poi fu ridotto a movimento esclusivamente religioso, ma all’inizio non era così ».

Con Susan Shariati ci incontriamo sempre nello stesso caffè di fronte a casa sua, dentro il parco di una vecchia villa che ospita il museo del cinema. Susan Shariati è tornata in Iran dall’esilio parigino alla fine degli anni 90, insieme con la madre e le sorelle. Una delle strade principali di Teheran è intitolata a suo padre, Ali Shariati: un lungo viale che attraversa la città da Sud a Nord, e c’è anche un piccolo museo nella casa dove la famiglia aveva abitato mentre Shariati si nascondeva o era nelle prigioni dello scià. Si potrebbe perciò immaginare che il filosofo, considerato l’ispiratore dei rivoluzionari del 1979, sia tenuto in grande considerazione dal regime, ma l’apparenza inganna, come spesso accade per tante cose in Iran. Per il regime, Shariati è un intellettuale scomodo. I suoi libri sono stati a lungo vietati, in particolare “Religione contro la religione”. «Shariati era un intellettuale degli anni Sessanta - dice Susan -. Troppo anticlericale per piacere al regime.

Oggi i giovani hanno ricominciato a leggerlo, soprattutto gli scritti letterari, i romanzi, meno quelli di carattere saggistico». Era un umanista che mette l’uomo al centro del suo pensiero. Un religioso la cui idea di Dio è spirituale e non temporale, era contrario al velayat-e faqih, l’autorità del Giurista Supremo instaurata da Khomeini. Prima di Khomeini gli sciiti avevano sempre creduto che in assenza del Tredicesimo Imam - il Mahdi, che alla fine dei tempi riapparirà nel mondo a portare il bene - il clero doveva limitarsi alle mansioni di proteggere il popolo e salvaguardare la fede, senza partecipare direttamente agli affari dello Stato. Questa dottrina “quietista” fu rovesciata da Khomeini che dall’esilio di Najaf, dopo essere stato cacciato dallo scià per le sue attività politiche, teorizzò il governo diretto del clero.

Socialisti timorosi di Dio

È vestita come se fosse a Parigi, un impermeabile chiaro, pantaloni e un foulard in testa. Delle tre sorelle, Susan è quella che si è presa l’incarico di rivedere e pubblicare tutti gli scritti del padre. « Shariati ha parlato per primo di politicizzazione della religione, ma se si guarda che cosa è diventato oggi l’Islam politico si capisce quanto fosse diversa la sua visione del mondo. Spiritualità, uguaglianza, libertà erano i tre pilastri del suo umanismo islamico radicale, tutto il contrario di quello che oggi è l’Islam politico». Di formazione marxista, Shariati criticò anche la democrazia liberale: senza uguaglianza sociale non è che demagogia, scrisse. Già il nonno, un seguace di Mossadeq, aveva cresciuto a Mashhad una generazione di antimonarchici, «socialisti timorosi di Dio» li definiva.
Essere di sinistra è una tradizione di famiglia. Anche per Ali Shariati la religione doveva lottare contro l’oppressione e le disuguaglianze nella società e liberarsi dall’osservanza pedissequa della tradizione. Si può rompere la forma per mantenere il contenuto, diceva, tutto il contrario di chi obbliga la società a seguire alla lettera la sharia. «La ribellione era per lui il perno della libertà di scelta. Mi ribello dunque sono. Come per Camus».Susan insegna storia. «La generazione di questi ventenni – dice guardando le ragazze e i giovani che affollano il caffè – è la terza generazione dopo la rivoluzione, ha una mentalità completamente diversa dalla nostra. La mia è una generazione politica, nostalgica della politica; quella dei miei figli è antipolitica, loro non capiscono quale senso abbia avuto una lotta che ha finito per limitare la loro libertà. I ventenni sono al di fuori della politica. Vivono come vogliono e pensano che prima o poi la politica si adeguerà».

I giovani vanno a votare, quando ci vanno, ma solo per evitare il male peggiore. Votarono per Rouhani nel 2013. Il 19 maggio lo rivoteranno, anche se nei social media l’eroe del momento è il vicepresidente Jahangiri, che è stato presentato dai moderati solo per avere un’alternativa nel caso che Rouhani venisse rifiutato dal Consiglio dei Guardiani. Nei dibattiti elettorali televisivi si è guadagnato un grande seguito per il suo coraggio. «Io sono un riformatore » ha detto senza giri di parole, e se si pensa che il riferimento principale dei riformatori, l’ex presidente Khatami, non deve essere nemmeno nominato in pubblico, Jahangiri ha dimostrato una capacità di rischiare che ha suscitato ammirazione.

Il caffè della Casa del Cinema è un posto per giovani, come i tanti caffè di Teheran spuntati come funghi negli ultimi anni. Le ragazze si conoscono e si salutano con particolare calore, come se non si vedessero da tempo o fossero appena sfuggite, fuori, a una vita ostile da cui non è facile mettersi in salvo. Lo stesso sentimento che si ritrova al teatro. Anche il teatro è frequentato esclusivamente da giovani che sembrano liberarsi in quelle sale buie delle strettoie delle proprie vite, vedendole rappresentate.

A Teheran ci sono almeno una ventina di teatri privati, allestiti negli appartamenti trasformati in associazioni o club. Plateau, li chiamano, memori che il francese era stato un tempo la lingua franca dell’aristocrazia. Con un’amica vado a vedere Bipedar, orfano, un lavoro teatrale che in queste settimane ha grande successo e che si tiene al Teatro Comunale, il più importante della città, anche se in una piccola sala. È recitato da attori di primissimo ordine, tutti maschi, anche nelle parti femminili, perché ci sono troppi momenti di contatto e il codice iraniano non permette che uomini e donne si tocchino in pubblico. È tratto da un antica favola iraniana su un lupo e una capra, molto più complicata di quella di Esopo. Qui la capra sposa il lupo per vedere di fermare i suoi tentativi di divorare i suoi figli capretti, ma alla fine il lupo mangia l’erba e i capretti diventano carnivori. Metafore sempre più prossime alla vita reale. Di tutte le arti il teatro è per gli iraniani allo stesso tempo quella più vicina e quella più distante, perché mette in scena la vita in un Paese dove la vita viene messa in scena ogni giorno. Il regime tiene tutto sotto controllo, anche se negli ultimi anni è diventato molto più liberale. E in fondo che l’Iran sia ammirato nel mondo oltre che per la cultura millenaria per le sue prove di modernità fa piacere anche ai vertici della Repubblica islamica.

La mia amica è una che riesce – ce ne sono pochi - a mantenere un equilibro tra la propria libertà e gli arbitrii del regime. Si attiene alle regole e pretende che il regime si comporti con lei con altrettanta lealtà. Non sempre ci riesce ma spesso sì. Antonia Shoraka, questo il suo nome, ha fatto il liceo negli anni Ottanta ovvero subito dopo la rivoluzione islamica e nel pieno della guerra con l’Iraq. Un periodo che lei chiama «oscuro per via della guerra, delle sanzioni, della mancanza di generi alimentari e per la chiusura culturale » . « Mi ricordo – dice - che era rigorosamente proibito guardare film occidentali e le videocassette venivano piratate. Io e le mie compagne di scuola se ce ne prestavano alcune, dovevamo nasconderle addosso perché all’ingresso del liceo facevano l’ispezione corporale. Nascondere una cassetta era un grande rischio perché se fossi stata scoperta con una videocassetta tra la schiena e la cintura dei pantaloni, rischiavo di essere privata della possibilità di entrare all’università dopo la maturità. Il criterio di ammissione era l’idoneità morale ed era la preside del liceo a confermarla. E non l’avrebbe mai fatto se avesse scoperto la cassetta. Le ispezioni non venivano fatte solo per scoprire le videocassette, ma anche perché all’epoca erano ancora attivi gruppi dell’opposizione armati come il MKO e i paramilitari comunisti che facevano saltare in aria un obiettivo un giorno sì e uno no, perciò all’entrata delle scuole e degli uffici governativi i controlli erano severi per vedere se non entrassero armi o anche solo volantini anti regime. Nemico, doshman, era la parola che risuonava più spesso nell’au-
la». Antonia ricorda anche le gite scolastiche al Behesht-e Zahra, il cimitero , chiamato Paradiso di Zahra, dove seppellivano i martiri, i caduti in guerra. Le scolaresche venivano fatte scendere una ad una nelle tombe vuote, per provare che cosa significa l’estasi del martirio.

« Secondo me - dice Antonia -, una delle maggiori difficoltà’ dell’Iran di oggi è l’incapacità di una gestione sistematica. Solo così si potrebbe salvare il paese dalla dispersione delle energie e dei beni materiali. Finché non ci saranno le persone giuste nei posti cruciali, veramente esperte, e finché non ci sarà un sistema di controlli veramente efficace e capace di punire i corrotti e i trasgressori, domineranno coloro che hanno più influenza, non importa quanto incapaci, e i loro protetti, e tutti continueranno ad aggirare la legge senza risponderne». Ma Antonia ha speranza nelle donne e nei giovani. « Più si va avanti più la gente prende coscienza dei propri diritti e sopratutto impara come muoversi in un sistema dove un no non e’ mai un vero no come nemmeno un sì è mai un vero sì». Questa è la regola che la guida. È diventata di recente capo del dipartimento di italianistica dell’università Azad, ha un ufficio di traduzioni legali, e lavora come critico cinematografico, scrivendo recensioni sul cinema iraniano su giornali e riviste come
e
Shargh.
Se tenesse a pieno tempo l’ufficio di traduzioni legali guadagnerebbe meglio, ma le si ottunderebbe il cervello, dice. E per questo preferisce fare il critico, che del resto fa molto bene. «Mi piace partecipare a dialoghi alla televisione o alla radio per aver modo di scambiare idee con i nostri registi che in questo momento rispecchiano nel modo più sensibile la situazione del nostro Paese. E anche parlare nei centri culturali dove ci sono i giovani. Solo così si può capire l’Iran, vivendolo tra la gente».

La stella del cinema

Al centro culturale di Araf Baran brilla una stella. È l’attrice Fatemeh Motamed Arya, che gli amici chiamano Simin. Presenta il suo ultimo film premiato al festival Fajr, Abijan. Un nome femminile. È la storia di una donna che si dipana in una grande casa durante la guerra. Gli otto anni della terribile guerra contro Saddam Hussein continuano ad essere una fonte importante per il cinema iraniano. Abijan vive in una di quelle vecchie famiglie patriarcali iraniane fatte di fratelli, cugini, zii che litigano, si disputano, amoreggiano. Lei, che è stata lasciata dal marito per un’altra moglie più giovane, ha un grande dolore, quello del figlio al fronte di cui da tempo non si hanno notizie. Abijan rifiuta l’idea che il figlio sia morto. La scena più bella del film è quando la donna legge il suo nome sulla lista dei prigionieri di Saddam – il figlio è vivo anche se privo di una gamba -, e comincia a danzare con questo foglio in mano, arrivando fin nel cortile.

Acclamatissima, amatissima, conosciutissima, Simin ha un carisma, una luminosità ineguagliati. «Non avrei mai potuto dire di no a un film che lancia un messaggio contro la guerra, non solo la guerra contro l’Iraq di allora ma tutte le guerre. Il mondo dovrebbe vergognarsi oggi della guerra in Siria come avrebbe dovuto vergognarsi allora della guerra voluta da Saddam, invece di appoggiarlo ». Simin ha sempre detto quello che pensava, sempre impegnata, per la pace e per le riforme nella Repubblica islamica, attaccata per strada dai basiji li ha sempre affrontati con coraggio e cercando di parlare con loro, di convincerli che la verità non è una sola e la violenza non è la soluzione. Dopo il 2009, quando aveva fatto lo spot elettorale per Moussavi, Ahmadinejad le fece togliere il passaporto e le fu vietato di lavorare nel cinema. Furono anni difficili ma lei non si arrese e con un piccolo gruppo si mise a recitare Madre Coraggio in un teatrino di Teheran.

«Anche le giovani donne di oggi dimostrano coraggio», mi dice. Con noi c’è una giovane scrittrice, Nasim Marashi, nata nel 1984, il cui primo libro ( tradotto in italiano da Parisa Nazari per Ponte 33) ha avuto un successo straordinario alla Fiera del Libro che si è chiusa in questi giorni, e dove l’Italia era il primo Paese occidentale ad essere ospite d’onore. Payizfasl- e akhar- e salast, L’autunno è l’ultima stagione dell’anno, è il titolo del libro, premiato con il più importante premio letterario iraniano. Racconta di tre donne, Leila, Shabane e Roja, tre ragazze che hanno grandi aspettative rispetto alla vita ma devono fare i conti con gli ostacoli che la vita presenta. Leila, che ha un matrimonio felice, viene però abbandonata dal marito quando questi decide di proseguire gli studi all’estero e lei invece non se la sente di lasciare l’Iran. Laureata in ingegneria, non vuole continuare quella professione perché ama scrivere, e comincia a lavorare per diversi giornali.

Quando tutti saranno costretti a chiudere, durante la repressione del 2009, la sua vita è distrutta. Shabanè ha un fratello handicappato di cui si prende cura, Roja mette tutto l’impegno che può per ottenere un visto e studiare in Francia, nonostante debba lasciare sola a Teheran la madre vedova. Non dorme la notte per essere alle quattro di mattina a fare la fila davanti al consolato francese. Ma arrivano i disordini del 2009 e non otterrà il visto. «Tutte e tre sono parte di me», mi spiega Nasim. Anche lei è laureata in ingegneria, anche lei ha chiesto un visto per Parigi, anche lei sognava di lasciare la vita vecchia per quella nuova. Ma il diritto alla felicità è un diritto che si paga caro. Nasim è però ottimista sul futuro: « Il futuro come lo vogliamo si sta realizzando» ha detto al pubblico che la stava ascoltando. Erano quasi tutti ragazzi.

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4 Marzo 2019

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