loader
menu
© 2024 Eddyburg
Lodo Meneghetti
La riscoperta dell’ingegnere urbanista Cesare Chiodi
2 Aprile 2007
Lodovico (Lodo) Meneghetti
Per quattro o cinque decenni fino a oggi la figura ...

Per quattro o cinque decenni fino a oggi la figura di Cesare Chiodi (1885-1969), ingegnere e urbanista, insegnante universitario, autore e attore nel divenire della cultura di città e territorio fra le due guerre, durante la ricostruzione e le successive vicende, sembra non aver ricevuto l’illuminazione necessaria per poter essere ri-conosciuta anche dalle nuove generazioni di studiosi e progettisti. Al Politecnico di Milano è stato costruito l’Archivio Cesare Chiodi, la cui guida, per opera di Renzo Riboldazzi, è disponibile dal 1994. Ma la critica e la relativa pubblicistica hanno trascurato questo professionista milanese, peculiare rappresentante della borghesia liberale produttiva, colta e onesta, ormai scomparsa e dimenticata. Forse ignorato proprio per questo? O a causa di una presunta esclusività localistica dell’impegno culturale? Cercherete invano il suo nome nel primo dei sei volumi del Dizionario enciclopedico di architettura e urbanistica diretto da Paolo Portoghesi ed edito nel 1968 dall’Istituto Editoriale Romano. Chiodi aveva allora 83 anni (morirà l’anno seguente), non era più il suo tempo: non una buona ragione per cancellarne la presenza fra tante altre, molte a mio parere insignificanti.

Oggi il volume Cesare Chiodi. Scritti sulla città e il territorio 1913-1969 (Unicopli, Milano 2006), una mirabile raccolta curata dallo stesso Renzo Riboldazzi, riempie il vaso vuoto, anzi travalica i bordi e va ad alzare il livello nel recipiente della cultura riguardante la città e il territorio. Prima di leggere il saggio introduttivo – “Armonia e calcolo, necessità e bellezza”. Città e progetto urbanistico negli scritti di Cesare Chiodi – conviene impadronirsi anche delle altre parti. Così, proprio gli elenchi esaustivi di scritti editi e di altre forme di partecipazione al confronto pubblico sui problemi territoriali e urbani, suddivisi in cinque parti secondo la loro tipologia, cominciano a stupirci circa l’incessante vocazione dell’ingegnere a porsi con attenzione davanti al torrente di fatti urbanistici, progetti e idee che gli scorre davanti in sessant’anni a Milano, in Italia e altrove: poi scendere la riva e far navigare i propri pensieri nella corrente.

La durata e la portata dell’attività di urbanista (e “architetto”) appaiono differenti, in diminuendo, coerentemente ai periodi in cui le suddivide il curatore: il periodo fra le due guerre, la ricostruzione, gli anni del boom economico. Il lavoro professionale e culturale si infervora nel primo periodo, non presenterà segni di stanchezza nella ricostruzione mentre il tempo dell’impegno sarà relativamente breve stante il rapido fallimento delle speranze, non potrà che offrire testimonianze di alcune personali sensibilità davanti alle contraddizioni e confusioni urbanistiche e al trionfo della speculazione edilizia dalla metà degli anni Cinquanta agli anni Sessanta, con susseguente decadenza della dedizione di tutti al bene sociale.

“Armonia e calcolo, necessità e bellezza” (in Lo sviluppo periferico delle grandi città, in “Rassegna di architettura”, n.7, luglio 1929): la citazione potrebbe rappresentare l’intero senso dell’attività di Cesare Chiodi. Il presupposto dell’operare bene e insieme la conseguenza (almeno per armonia e bellezza) definiscono l’entità dell’urbanistica accanto a “scienza e arte” (idem). Urbanistica come costituzione disciplinare non racchiusa nel ricetto preteso ultra-specialistico, invece sintesi aperta; non luogo d’isolamento ma contrada dell’incontro dove la scienza l’arte il calcolo la necessità l’armonia la bellezza “si danno la mano”(idem). Allora l’urbanistica comprenderebbe le questioni dell’architettura, del paesaggio, dell’ambiente costruito e no. Il disegno del piano regolatore non può fare a meno del disegno urbano relativo al progetto di quartiere o porzione della città, ma anche delle designazioni fondamentali nel contesto geografico dove la città deve misurarsi con la campagna e gli insediamenti del circondario.

Tutto questo è ben chiaro negli scritti del periodo fra le due guerre integrati dalle immagini selezionate dal curatore. Se mai avessimo avuto, prima, dubbi irrisolti circa la possibilità di assegnare la figura dell’ingegnere milanese a un posto di merito nella cultura della prima metà del Novecento, ora dobbiamo renderle il dovuto. Cesare Chiodi è architetto novecentista quando si dedica alla costruzione di case (p. es. l’edificio di Via Podgora a Milano, 1930-34, parente non lontano della Ca’ Brüta di Muzio e Colonnese) o vi collabora con altri ingegneri o architetti, ma è quasi-razionalista nel disegno di quartieri dei primi anni Trenta; non può, nella data situazione culturale nazionale, ottenere un nuovo disegno di piano regolatore della città esistente, come d’altronde non l’ottengono i maestri razionalisti italiani con pochissime eccezioni, ma riguardo alla pianificazione a scala superiore propone il modello territoriale policentrico ispirato alla cultura europea confutatrice dell’irragionevole espansione della città a macchia d’olio. Insomma, anche in questo esemplare rappresentante dell’attivismo professionale e culturale milanese possiamo riconoscere una sorta di reductio ad unum dei problemi urbanistici ed edilizi aperti allora nel nostro paese.

Ancora presente negli anni successivi in ogni principale circostanza della discussione critica, Chiodi è però efficace in special modo con la partecipazione al dibattito prima e durante la ricostruzione. Il grave problema della casa in Italia e soprattutto a Milano mobilita le riflessioni e le proposte di soluzione del nostro non meno di quanto impegni gli architetti milanesi più sensibili a quel dramma sociale: Enrico Griffini, Piero Bottoni, Ernesto Nathan Rogers. A mio parere il famoso saggio del primo su “Edilizia Moderna” del dicembre 1948, comprendente pesanti accuse contro gli errori e gli orrori provocati dall’edilizia disordinata e profittatrice voluta da impresari banditeschi, “conseguenza di decadenza morale e civile”, potremmo rileggerlo quale necessaria ricapitolazione degli interventi dell’ingegnere particolarmente tempestivi: a partire dalla conferenza tenuta al Sindacato ingegneri della provincia di Milano il 2 marzo1944, pochi mesi dopo il più rovinoso dei bombardamenti aerei che la città aveva dovuto sopportare.

Dello stesso libro di Cesare Chiodi, qui su Edyburg vedi anche la recensione di Fabrizio Bottini con pdf scaricabile

ARTICOLI CORRELATI

© 2024 Eddyburg