0. Rientrare a casa
Il tema della casa, ed in particolare il problema abitativo che interessa le aree deboli della domanda sociale, sembra essere tornato, dopo anni di silenzio e di scarsa attenzione, nella discussione pubblica.
Si tratta di un ritorno non ciclico che trascina con sé profondi cambiamenti. Cambiamenti che costituiscono una premessa imprescindibile sia per la costruzione di quadri di comprensione appropriati che per la progettazione di percorsi di trattamento efficaci: un nuovo campo e nuove regole, mentre rendono superati i modelli di risposta utilizzati in precedenza, aprono a possibili e necessari nuovi giochi.
1. Ripresa rispetto a cosa e ripresa perché?
La questione abitativa entra nell’agenda pubblica tra la fine del 1800 e l’inizio del secolo ventesimo come aspetto non marginale da affrontare per restituire alla città dignità, decoro, igiene. Dal 1860 al 1902 Milano passa da 186.000 abitanti a 442.000.
La trasmissione di malattie e di pestilenze, il rischio di contagio e di diffusione di infezioni rendono gli insediamenti fatti di baracche, gli accampamenti provvisori e autocostruiti, le strutture abitate in stato di abbandono focolai pericolosi e insalubri, una minaccia da eliminare e comunque da evitare. Il modo in cui la questione abitativa si presenta ed è costruita all’inizio del Novecento porta a tenere insieme interessi pubblici e privati: lo IACP viene costituito nel 1908 con Regio Decreto, dopo approvazione del Consiglio Comunale e dietro istanza presentata dal Sindaco, come organismo “i cui scopi e fondamenti risultano essere quelli di un ente morale prevalentemente di indole sociale e di assistenza pubblica, esulando completamente il concetto del profitto con l’obiettivo di dare alle classi popolari alloggi quanto più possibile sani e comodi a prezzi quanto più possibile limitati” (Guerrieri 2000).
Partecipano alla fondazione del nuovo Ente il Comune di Milano con denaro liquido e attraverso l’apporto di aree e immobili, la Cassa di Risparmio, il Monte di Pietà, la Banca Popolare, la Banca Commerciale, la Banca Cooperativa Milanese. L’Istituto, nel 1920 arriva a coinvolgere Pirelli e Breda per la costruzione di villaggi operai. Ospita inoltre il ‘consiglio degli inquilini’, organo di rappresentanza degli abitanti della case pubbliche e parte integrante dell’assetto organizzativo-istituzionale dell’ente.
Nel 1923 l’Istituto viene commissariato dal Prefetto; un nuovo regime si profila per l’Istituto (e non solo per l’Istituto) che fino all’inizio degli anni Trenta procede instancabilmente nell’opera di realizzazione di nuovi alloggi: tra il 1926 e il 1929 sorgono venti nuovi quartieri: i vani passano dai 13.100 per circa 6.000 famiglie circa a 30.850 vani per 13.500 famiglie (Broglio 1929).
Si tratta di una seconda fase della storia della casa popolare che vede negli anni venti e trenta un periodo importante di crescita e di diversificazione tipologica (alla casa popolare si affianca la casa economica, gli alloggi ultrapopolari definite anche case per gli sfrattati, le ‘case minime’ dei quartieri Trecca, Baggio, Bruzzano e Vialba).
Il riordino delle strutture deputate alla realizzazione e alla gestione delle case pubbliche porterà ad una articolazione ‘provinciale’ degli Istituti e alla creazione di un organismo che andava a centralizzare l’attività dei diversi Istituti (non più così autonomi): il Consorzio nazionale a carattere obbligatorio fra gli istituti autonomi per le case popolari, ente intermedio fra le articolazioni periferiche e il Ministero dei Lavori Pubblici.
Spinto anche dalla retorica fascista antiurbana e dall’intenzione mussoliniana di sviluppare una politica di bonifica sociale e di contenimento dell’espansione urbana l’attività dell’Istituto milanese si sposta decisamente nei comuni dell’hinterland e delle aree semirurali (Lodi, Legnano, Monza, Sesto San Giovanni, Legnano, Lainate).
La terza fase si apre con la stagione della ricostruzione postbellica e del rilancio socio-economico di un paese piegato dalla povertà.
Nel 1951 a Milano risiedono 1.243.000 abitanti, 160.000 sistemati in alloggi di fortuna, 20.000 i baraccati, 50.000 le famiglie che vivono in coabitazione. Gli immigrati, nello stesso anno, risultano essere 17.000.
Nel 1949 il ‘Piano Fanfani’ rilancia l’attività di costruzione utilizzata come leva per avviare il processo di ripresa economica e occupazionale in Italia. L’attività di costruzione di ‘case per i lavoratori’ viene potenziata al massimo. Nasce l’INA-Casa come struttura centrale di gestione dei finanziamenti finalizzati all’edilizia pubblica in locazione o a riscatto.
I nuovi piani di investimento e le nuove leggi portano l’Istituto, in particolare nella città di Milano, considerata nodo strategico nella geografia della rete che guida la crescita economica dell’intero paese, a trasformarsi in agente inserito a pieno titolo nel processo di costruzione e attuazione delle politiche di sviluppo urbano e considerato sempre meno per la sua funzione sociale e assistenziale. Lo Iacp è attore centrale nella definizione degli indirizzi di piano e avvia la realizzazione di interi quartieri; un modello di azione e un ruolo che porterà l’ente all’idea dei quartieri autosufficienti nei quali si provvederà a realizzare non solo le case ma anche strutture di servizio, il commercio, lo spazio pubblico, le infrastrutture di collegamento (quartiere Comasina, Mangiagalli, Varesina, Harar, …).
Tra gli anni ’50 e ’60 la nuova legislazione e le disponibilità finanziarie determinano una articolazione e una diversificazione dei soggetti incaricati di aumentare il patrimonio abitativo pubblico: l’Incis, l’Ina-Casa, l’Unra-Casa, l’Ente edilizio per i mutilati, case per ferrovieri, per i postelegrafonici, per i senza tetto, per i profughi, il Fondo per l’incremento edilizio, le Cooperative di dipendenti statali, gli Istituti per case popolari aziendali.
Un sistema che viene a complicarsi progressivamente e che porta, dentro ad un quadro normativo in continua trasformazione, in un clima sociale teso e fortemente conflittuale, all’interno di un rapporto non chiarito tra amministrazioni Comunali e governo centrale, dentro ad un gioco di forze in cui sempre più consistenti appaiono gli interessi che spingono verso l’edilizia economica (agevolata e convenzionata) per l’accesso alla proprietà, alla paralisi del sistema pubblico di produzione di abitazioni popolari.
Nel 1960, a Milano, vengono realizzati 9.000 alloggi di edilizia popolare; nell’intera provincia, tra il 1978 e il 1995, vengono realizzati in media 620 alloggi all’anno.
Dal 1981 al 2001 le famiglie che abitano in affitto (pubblico e privato) nei Comuni capoluogo della Lombardia passano dal 58% al 22%.
Mentre si chiude la stagione gloriosa dell’edilizia pubblica in locazione i cui alloggi prodotti nel tempo vengono progressivamente alienati e stralciati per tentare di colmare il deficit di bilancio degli Istituti (nel 1985 a Milano lo IACP è costretto a vendere le case per poter pagare lo stipendio ai suoi dipendenti) determinando una perdita consistente di patrimonio pubblico, si vengono a delineare le coordinate che definiscono il sistema della domanda abitativa vecchia e nuova e il meccanismo deputato a governare e organizzare il meccanismo di produzione dell’offerta pubblica.
2. Qualcosa è cambiato
Le trasformazioni riguardano tanto le condizioni di contesto - la configurazione della domanda e il tipo di bisogno espresso (chi domanda cosa), l’emergere di aree di esclusione, il blocco e la scomparsa dei canali tradizionali di finanziamento pubblico - quanto le prospettive di intervento e le dinamiche che regolano i processi di costruzione delle risposte – il trasferimento alle Regioni delle competenze in materia abitativa chiamate a definire gli indirizzi delle politiche pubbliche e a programmare la spesa (riferimento al PRERP 2002-2004), i nuovi assetti organizzativi che hanno interessato gli ex Istituti Autonomi Case Popolari , la recente riforma delle locazioni abitative e degli sfratti (Rossini, Cattaneo, 2000), la revisione della disciplina che governa l’assegnazione delle case popolari e che definisce le linee per la determinazione dei canoni relativi all’edilizia residenziale pubblica.
Spostamenti di superficie che si appoggiano su una piattaforma non meno instabile. In modo differente la questione della casa interagisce e ha relazioni con il nuovo assetto del sistema locale dei servizi sociali ridisegnato dalla legge 328/00, con le prospettive di riforma degli strumenti di governo del territorio, con l’irrigidimento delle politiche di accoglienza e di integrazione rivolte alla popolazione immigrata che trovano nella triangolazione casa-lavoro-permesso di soggiorno della legge Bossi-Fini un meccanismo di controllo e di limitazione e sempre meno un sistema di sostegno all’inserimento e di tutela del nuovo abitante.
La necessità di un cambiamento non è solo dettata da una insoddisfazione generale per le forme ordinarie di intervento pubblico messe in atto in particolare dal secondo dopoguerra (Tosi, 1994) ma anche dalla impossibilità pratica di proseguire su quella strada.
I modelli di riposta costruiti attorno alla politica abitativa pubblica non solo non rappresentano più una possibile via d’uscita ma sono col tempo diventati una parte del problema. Domande emergenti e istanze rimaste per troppo tempo senza risposta si combinano andando a definire un quadro di sollecitazioni che se non riesce più a fare breccia nella politica interpella in forme nuove le politiche e coloro che, a diverso titolo, si trovano a ricoprire un ruolo nel processo di costruzione degli interventi; “le condizioni sono cambiate: progettare vuol dire oggi affrontare problemi, utilizzare metodi, esprimere intenzioni differenti da un pur recente passato. (…) Tutto ciò vuol dire sottoporsi ad una notevole dose di rischio intellettuale, forse anche ritrovare un motivo di maggiore impegno etico-politico” (Secchi, 1984).
3. Dalla domanda di casa alle domande sulla casa
Intanto nella città, provando a leggerla con gli occhi di chi, disoccupato, la guarda dal suo balcone di casa, sempre più simile ad una baracca in cui si tenta, con un celophan trasparente, di rimediare alla mancanza di una cantina e di un ripostiglio senza però perdere il prezioso affaccio che apre su viale Molise e rimedia in parte al taglio ridotto dell’alloggio, il processo di integrazione e di cucitura tra gli insediamenti popolari costruiti nel corso del secolo appena trascorso e il resto del tessuto urbano non si è compiuto e, quando è avvenuto, è stato prevalentemente fisico: strade, collegamenti, fermate degli autobus e delle metropolitane, qualche servizio di quartiere. Milano sembra aver escluso il problema delle connessioni forti, dell’integrazione; ha seguito e subito un modello di crescita per frammenti, pezzi di città che riescono ad ignorarsi reciprocamente. Ciascuno insegue la sua città dentro ad uno spazio dilatato e opaco che non riesce a produrre processi leggibili di sensemaking, che fatica ad organizzarsi, a strutturarsi come luogo collettivo, come luogo (in) comune (Weick 1995), come luogo in cui si conosce e si riconosce la società che abita.
Mentre guardiamo alla regione metropolitana ci troviamo a fare i conti con una città per parti, separata, isolata al suo interno, anestetizzata. Una città che forse preferisce guardare fuori, pensarsi altrove, piuttosto che guardarsi dentro.
L’interrogativo sui destini dell’edilizia pubblica e della casa popolare riporta l’attenzione sulla città come spazio dell’abitare, dell’abitare plurale, fatto di diverse strategie. In particolare sposta l’attenzione su quelle storie e su quei percorsi faticosi, che con grandi difficoltà trovano il modo per dimorare, svilupparsi o per resistere. Di queste storie sembra non esserci traccia nell’agenda pubblica: queste storie restano marginali, sconosciute, invisibili. Non esistono.
Come affrontare il processo di riemersione, ammesso che ci interessi?
Una prima questione intercetta il livello politico e culturale: la questione abitativa non è risolta. Sicuramente è cambiata ed è chiamata ad affrontare problemi nuovi, in forme nuove.
La capacità di risposta pubblica al problema casa si appoggia a Milano su un patrimonio di circa 60.000 alloggi; 2/3 di proprietà Aler, 1/3 di proprietà comunale. Con una lista di attesa di circa 32.000 domande (17 mila risultanti dai tre bandi precedenti e 12.500 domande derivanti dal bando 2001) nella città sono stati realizzati, dal 1995 al 2001, 470 alloggi pubblici. Ogni anno il Comune si ritrova 1.000 alloggi liberi (i cosiddetti alloggi di risulta) che rappresentano l’unica possibilità attraverso cui soddisfare le richieste di case popolari. Non solo non si riesce ad assegnare alloggi ma quei pochi che vengono assegnati intercettano la quota più problematica della domanda: sfratti esecutivi, ex pazienti degli ospedali psichiatrici, anziani e invalidi con redditi inesistenti, donne sole senza lavoro con minori a carico.
Per queste ragioni è un problema non aver la casa ma è un problema (differente) anche averla senza essere nelle condizioni di poterla mantenere e gestire (Irer 2001), di riuscire a con-vivere nello stesso stabile con gli altri inquilini, di stare nei cortili di quartieri abitati da 1500, 2 mila persone lasciate a se stesse; senza portineria, senza regole, senza supporti. Stiamo andando incontro ad una città che ha pochi pensieri, poche risorse ed energie, pochi progetti da rivolgere ai suoi abitanti (Balducci, Rabaiotti 2001). Una città che non riesce a costruire politiche pubbliche intendendo con questo quelle politiche che se non vengono promosse e sostenute dal pubblico non le fa nessun altro. La quota pubblica nelle politiche appare sempre più spesso affidata ai residui di politiche altre. In questo senso la casa ci aiuta: funziona da spia, da segnale, da avvertimento.
Una seconda questione è di natura scientifica, disciplinare. Per diversi anni non si è più parlato di casa, nelle università, nelle scuole, negli istituti di ricerca. Il vuoto non è solo nelle agende pubbliche. Abbiamo anche noi smesso di interrogarci, di voler capire, di provare a conoscere. Un pezzo di storia della città è sfuggito anche alle discipline che hanno fatto del territorio il loro centro di attenzione: le analisi economiche, sociali, geografiche, politiche, antropologiche, la progettazione urbanistica, edilizia. E’ necessario riprendere una riflessione che si è fermata alcuni decenni fa: esistevano allora riviste, pubblicazioni, corsi e discorsi.
Il cambiamento che segna oggi la questione abitativa, profondamente diversa per le trasformazioni che hanno interessato la struttura del meccanismo di regolazione tra domanda e offerta, chiede che si riprenda il tema, che la casa torni ad essere oggetto di attenzione e di studio. Da una parte vi è infatti una emergenza sociale che chiede di essere disarticolata: una domanda che va specificata iniziando da un ragionamento che chiarisca “chi chiede cosa” e poi provi a dimensionare, ad organizzare, ad orientare; dall’altra vi è lo spiazzamento delle istituzioni deputate a governare la questione. Regioni e Comuni sono per la prima volta di fronte a problemi e temi inediti. Mentre hanno a disposizione le risorse trasferitegli dal governo centrale (forse le ultime) tendono a riprodurre un modello di intervento tradizionale senza potersi permettere la disponibilità economica e finanziaria quasi illimitata quale è stata, per diversi decenni, quella rappresentata dal fondo Gescal.
La prima preoccupazione degli Enti Locali è diventata quella della rigenerazione dei capitali: la rigidità dei bilanci pubblici chiede che le riserve destinate all’edilizia popolare siano in grado di auto-alimentarsi, che il capitale investito oggi rientri domani: il canone sociale si estende verso l’alto con l’introduzione del canone moderato. Invece che intercettare la domanda più bassa e svantaggiata o esclusa si dà la possibilità ai redditi medi di entrare nell’edilizia pubblica pagando un canone di locazione più elevato. Le Aler si trovano nella necessità di portare in pareggio bilanci che sono spesso sfuggiti al controllo e per farlo intervengono sull’unico capitolo di cui possono disporre: la valorizzazione del patrimonio esistente e il suo incremento (privilegiando appunto l’introduzione di alloggi a canone moderato).
Compare in questi anni un timido terzo settore abitativo il cui ruolo appare per il momento ancora incerto ma non privo di potenzialità.
Servono indicazioni, progetti, indirizzi alla cui definizione e costruzione la ricerca non può sottrarsi.
Ha ancora senso parlare di affitto sociale? Dove conduce la strada che vuole tutti i cittadini proprietari di casa dentro ad un quadro che, ridotte le protezioni sociali, espone sempre più persone al rischio di caduta rendendole vulnerabili? Quali effetti sta producendo sul meccanismo dell’offerta l’ingresso di operatori internazionali della finanza immobiliare? Siamo in grado di riformulare un discorso sulla casa che porti pubblico e privato ad identificare un terreno comune e a verificare la possibilità di sviluppare un ragionamento congiunto intorno all’abitare sociale? Cosa sta accadendo nei quartieri popolari che mancano di presidi, che vengono gestiti illegalmente, che per diverse tipologie sociali rappresentano l’unico modo per avere un tetto? Quali diventano i nodi sensibili da attivare in un contesto profondamente mutato?
Un terzo livello del ragionamento è quello associato al governo, alle forme attraverso cui si sta affrontando il problema e alle modalità attraverso le quali si potrebbe diversamente affrontare (Tosi, a cura di, 2003). E’ il livello su cui si gioca anche l’assistenza tecnica e l’intervento di consulenza. Con la riforma del titolo V della Costituzione anche la materia abitativa è passata dallo Stato alle Regioni.
Il Programma Regionale per l’Edilizia Residenziale Pubblica (PRERP) 2002-2004 ha definito, in Lombardia, gli indirizzi per le politiche del triennio e la programmazione della spesa.
Siamo nel mezzo della prima parentesi attuativa del documento di programmazione e stiamo assistendo all’affanno delle Amministrazioni locali interessate, in alcuni casi, a concorrere per poter ottenere le risorse messe a bando. Ad oggi sono stati attivati e si sono concluse le operazioni relative a 5 delle 10 misure di intervento previste nel PRERP. Sono in corso di svolgimento i bandi relativi ai Contratti di Quartiere e ai Programmi Comunali per l’Edilizia Residenziale Sociale.
Con riferimento ai Contratti di Quartiere il nostro Dipartimento si trova impegnato in una attività di consulenza richiesta dal Comune di Milano.
Chi di noi è impegnato in questo lavoro sa cosa voglia dire affiancare l’Amministrazione di questa città su un tema così delicato e in una congiuntura così particolare.
Ci rendiamo conto di quanto le istituzioni si trovino a dover rincorrere problemi sconosciuti o dati per scontati, avvertiamo quanto sia difficile costruire azioni non banali dovendo rispettare le scadenze e i vincoli del bando, constatiamo quanto sia urgente e necessario utilizzare paradigmi differenti e grane analitiche più sottili nel momento in cui avviciniamo chi abita negli edifici che si dovranno ristrutturare, modificare, recuperare.
Nel ritmo accelerato in cui ci troviamo a lavorare si avverte il rischio che, alla fine, anche questa esperienza andrà ad affiancarsi alle altre occasioni che abbiamo avuto e che, anche per la paura di aprire un percorso di confronto e di valutazione interno e tra noi e la città, la lasceremo cadere senza che possa fare storia e insegnarci qualcosa.
Forse impropriamente vengono richieste a noi capacità, competenze, ruoli che spetterebbero ad altri (come mai la Regione non ha pensato ad accompagnare l’attuazione di questo primo Programma con la costituzione di un gruppo di assistenza tecnica in grado di sostenere lo sforzo dei Comuni chiamati per la prima volta a giocare ad un gioco che non hanno mai praticato? Perché il Comune non si attiva per portare i diversi settori chiamati in causa a convergere per aggiungere risorse e competenze nel lavoro su questi quartieri? Come mai non si ritiene opportuno giocare al rialzo e rendere evidente lo sforzo che in questo momento si sta compiendo per mettere mano alla disastrosa situazione in cui versano alcuni isolati di case popolari?).
Avvertiamo il pericolo, l’imbarazzo e il limite di questa posizione ed è invece più difficile cogliere l’opportunità: quella di poter riavviare un discorso sulla casa, di essere nelle condizioni di riprendere una riflessione interrotta. Anche questo vuoto è parte della penuria.
4. Il riconoscimento e la ripresa
Sappiamo che politiche e piani di intervento sono parte del racconto che ci parla della domanda abitativa e dell’offerta, ci dicono della retorica e della strategia, delle intenzioni esplicite e di quelle non dette, delle regole e delle priorità, dei successi e dei fallimenti (Olmo 1992). Un’altra parte del racconto è quella che sfugge dalle maglie delle iniziative ufficiali: è rappresentata dalle voci deboli di chi abita, di chi ancora trova la forza per parlare, di chi sostiene quelli che la forza l’hanno persa (Comitato Inquilini Molise-Calvairate Ponti 2003). Molte voci si incrociano, si confondono e, nella disattenzione urbana, si perdono. Essere stati lontani rende oggi difficile ascoltarle, riconoscerle, considerarle.
“Esprimere è essenziale per scoprire e per scoprirsi.
Studiare è necessario per crescere, identificarsi, maturare,
ma i libri sono soltanto una fonte dell’apprendere.
Occorre saper leggere anche rocce, alberi, voli, creature,
il mare, le nuvole, le stelle. Leggere nel lavoro”
(Dolci 1993)
Da qualche anno a questa parte la casa è sparita dai dibattiti sulla città.
E’ questo il tempo della ripresa. Di una ripresa che sia fatta di saperi e conoscenze plurali, articolate, ibride; questa è la condizione necessaria per mettere mano all’agenda e provare a fissare un primo appuntamento.
Un passo in questa direzione possiamo e dobbiamo farlo anche noi.