. La Repubblica, 7 maggio 2016 (c.m.c.)
Papa Francesco, allergico alle formalità, ha accettato ieri il premio Carlo Magno. Più che un premio era un appello. Il disorientamento intellettuale del Continente è andato a chiedere a Bergoglio di essere scosso: ha avuto quel che cercava. In un discorso come sempre denso di riferimenti teologici impliciti e segnato da un finale severamente profetico: «Sogno un’Europa di cui non si possa dire che il suo impegno per i diritti umani è stata la sua ultima utopia».
Nato nel 1949 ad Aachen, il premio Carlo Magno esprimeva un europeismo occidentalista, atlantico, anticomunista, secondo quella che era la cultura politica di un industriale, oppositore delle leggi razziste, come Kurt Pfeiffer. Ma in quell’europeismo, che parlava in tedesco e pensava in cattolico, inseguendo l’utopia di una Europa cristiana, è stata generata una Europa di pace, di cui il premio ha seguito le movenze. Il Carlo Magno è stato attribuito a varie figure ora politiche ora spirituali, come frère Roger di Taizé o Giovanni Paolo II che avevano dato un apporto effettivo alla costruzione europea.
Francesco non lo poteva ricevere allo stesso titolo. Il suo europeismo non pensa politicamente e culturalmente in termini est-ovest. Su quella linea lui vede correre un’altra istanza, quella ecumenica: che mette davanti alla chiesa latina (cattolici, luterani, ecc.) e alla chiesa d’oriente (greci, russi, ecc.) lo scandalo della divisione e la vocazione all’unità. Lo ha ripetuto ieri ponendo l’ecumenismo come “segno dei tempi” e citando le lezioni sulla “Idea d’Europa” come terra di diversità, lette alla radio tedesca nel secondo dopoguerra da uno dei più grandi teologi del Novecento a cui fa frequente riferimento, Erich Przywara.
E da lì Francesco ricava l’idea che tutte e solo le differenze integrate culturalmente sono la ricchezza europea, letta lungo un asse nord-sud, alto-basso, profitto-giustizia, liquidità-socialità, spiazzante rispetto alle filastrocche della crescita, del rigore e dell’innovazione.
Il Papa ha ieri invertito il principio-guida dell’europeismo wojtyliano: non ha mai citato le “radici cristiane” (o giudeo- cristiane come diceva il ritornello inconsapevole che in quell’assorbimento c’è il seme dell’antisemitismo) ricordate come matrice di cose meravigliose e dimenticandone le atrocità. Ha invece citato le “radici” plurali di un’Europa dei diritti umani, che il vangelo (il vangelo!) può “annaffiare”, portando i frutti di pace e di giustizia che i cristiani producono solo nella loro fedeltà al vangelo stesso.
Al posto della faglia otto-novecentesca fra credenti e non credenti, pone quella pluralisti e indifferenti: mette così in fuori gioco il secolarismo low-cost che ha impoverito l’Europa pensando che siano capi religiosi gentili e non teste pensanti che alimentano la cultura del dialogo. Non ha chiesto perciò un’ora di religioni, ma un’ora di “cultura del dialogo” che scardina il laicismo fobico e il clericalismo furbo.
Mentre l’analfabetismo religioso concima i fondamentalismi e dissecca la sorgente della riforma teologica delle chiese e delle fedi, Francesco ha chiesto agli europei di tornare al “logos” non come “ragione”, ma come “racconto” capace di un risultato. Chiedendo alla Europa: “cosa ti è successo?”, le ha aperto una porta lasciando che la paziente decida se e come varcarla.
Ha evocato la diversità di tre millenni davanti gli esponenti di una classe dirigente che ha espulso la storia dal proprio pensare per appiattirsi su un sapere fatto di intellettuali di corte, pronti a fornire costose soluzioni precotte a “decision makers” che spesso son solo dei consumatori di sondaggi, inconsapevoli della gravità dei problemi che li sovrastano.
Il triplice appello del Papa a dialogare, integrare e generare non è detto che troverà ascolto. La capacità europea di cogliere queste dimensioni è modesta: lo si vede nelle commemorazioni della Grande Guerra, sbriciolate in festicciole turistico- nazionali che hanno alzato muri in una memoria comune. Ma nella conclusione cupa e profetica del discorso di Francesco appare anche un segnale importante.
Dire che i diritti umani (non i valori, non le identità), potrebbero essere l’ultima utopia che finirà con l’Europa coglie il problema dei problemi. Dopo la libera circolazione, dopo i legami oggi vissuti come legacci non c’è un male: c’è il peggio: il peggio che ha già devastato l’Europa (e annichilito la Germania) almeno due volte in cent’anni.
La cosa tocca da vicino il cattolicesimo. C’è infatti un vento gelido e leggero che percorre l’Europa e interpella il Papa di Roma. Sono gli alisei dell’odio e della chiusura, che mescolano autoritarismo, antisemitismo e xenofobia in dosi variabili. Soffiano su molti Paesi, ma per una coincidenza singolare percorrono quella che un tempo si sarebbe detta l’Europa cattolica: spira dalla Polonia, scende nella Slovacchia, si rafforza in Ungheria e ora torna verso l’Austria. Disegna una antica geografia asburgica: poi affonda nel Lombardo-Veneto; tocca la Francia in cui il cattolicesimo tradizionalista si salda col lepenismo; e aleggia su una Italia in cui la chiesa è stata argine antileghista e che qualche schematismo elettoralistico vorrebbe ricattare puntando il disastro possibile alla tempia dei riluttanti.
Di questo vento Francesco sa di essere e dover essere al tempo stesso l’argine e l’esorcista. Il suo gesto di rimettere l’esigenza del vangelo davanti alla politica, ha un valore politico perché antepone effettivamente le istanze del vangelo come tale. La sua condanna della subcultura dei muri, fa stridere i denti al demone autodistruttivo del nazionalismo, che come nei racconti evangelici, strepita quando l’irruzione messianica scintilla dentro le mediocrità dei credenti.
E così il Papa non Europeo chiede all’Europa di liberarsi dalla dicotomia fra credenti- non credenti, e passare a quella fra pontieri e “muristi”, fra “fidenti” e indifferenti, da cui dipende il destino di questa utopia-Europa e la pace che chi la abita potrà o godere ancora un po’ o rimpiangere a lungo.