«Dà un’impressione di ascoltare, se per ascoltare intendiamo non tanto sviscerare, ma il mero prendere in considerazione. Una dialettica hegeliana fatta di tesi, finta attenzione all’antitesi, sintesi».
Il Post, 2 ottobre 2014
Nelle ultime settimane Matteo Renzi è stato sempre al centro del dibattito pubblico: il viaggio in America, Marchionne, i Clinton, l’inglese strampalato, l’intervista da Fazio, il bailamme sull’articolo 18, lo sberleffo dei sindacati, la direzione PD, la polemica con la minoranza, le critiche da parte di Corriere eRepubblica, etc… Anche chi non fosse interessato alle questioni del Partito Democratico o agli affari del governo quando entrano nell’occhio di bue, non può evitare di incrociare un affondo di Renzi, una sua dichiarazione, un intervento – che sia all’Onu o allo stadio, un tweet o un’interpellanza. È una forma di ubiquità che vuole significare attenzione, presenza; un dinamismo in perenne accelerazione che è il segno di una condizione di permanente attualità. Stare sempre sul pezzo, questo è il diktat.
Davanti a questa pervasività comunicativa, il contenuto di quello che afferma Renzi perde di rilievo. Ci si può irritare per la sciatteria anti-istituzionale con cui liquida i sindacati, la superficialità con cui affronta il tema dell’articolo 18, o anche della cafonaggine dell’usare un inglese fantozziano rivendicandoselo. Ma si perde il senso del discorso di Renzi che è strutturalmente altro, e per questo spiazzante – sempre spiazzante – rispetto a quello che è il resto della comunicazione politica; se pensiamo a quella dei suoi compagni di partito ma anche da quella berlusconiana o grillina.
Ma cos’ha di diverso, di specifico, la retorica renziana?
Partiamo dai dati quantitativi. Guardatevi l’intervento di
Bersani o di
D’Alema(impresentabile, spocchioso, lamentoso il primo; sarcastico il secondo) alla direzione del Pd, e confrontatelo con l’
intervento iniziale di Renzi. Quale è la differenza sostanziale che non ci mette molto a saltare all’occhio? Perché Bersani sembra imballato, a
ralenti, e Renzi un disco da 33 fatto girare a 45?
Si tratta della quantità di parole per unità di tempo: Renzi pronuncia il doppio se non il triplo delle parole di Bersani. Ascoltare Bersani per chi ha meno di quarant’anni dà la sensazione di prendere un ascensore che si ferma trenta secondi ogni piano. Renzi invece fa mai pause. È assolutamente metadiscorsivo, prefigura – attraverso parentesi, prolessi e analessi – il discorso che sta per fare; discorso che spesso non ha niente di sorprendente, ma viene talmente caricato di attesa e di enfasi che pare sempre di essere un punto di approdo definitivo, risolutorio, di un ragionamento. Non lascia mai spazio a una possibile riflessione su quello che sta dicendo. Si potrebbe dire che riempie, o meglio satura, lo spazio sonoro. Senza il martellamento di Berlusconi o di Grillo o dei loro cloni; ma con una fluidità che è soprattutto ritmica, fatta di un andamento dattilico.
L’unico che riesce a competere da un punto di vista della velocità (numero parole per minuto) è Giuseppe Civati –
qui il suo intervento. Ma le differenze tra i due stili retorici sono evidenti (Civati è cartesiano, spesso icastico, impone una lucidità e un’analisi di secondo passo dove c’è una confusione comunicativa) e mettono in luce per contrasto un’altra caratteristica di quella che viene definita genericamente “parlantina” del premier: le sue accelerazioni. Qualunque discorso che Renzi fa non è solo veloce, ma è accelerato. Parte piano e si infervora. Alza i toni, si scalda.
Il
video dell’ospitata a Che tempo che fa è esemplare: anche quando Fazio pone delle domande molto piane, Renzi comincia quieto, e in pochi secondi è già su di giri, poi non scala mai le marce al contrario. E che cos’è che va a pronunciare nel cuore dell’enfasi? Quando sembra arrivare al
clou della sua argomentazione, che in realtà non è mai consequenziale, sintattica, ma sempre associativa, Renzi afferma con tono apodittico una qualche banalità. Una cosa del tipo: «C’è tanta voglia di Italia nel mondo», «Bisogna restituire la fiducia agli italiani», «la scuola è importante», cita un esempio sul quale non si può che essere d’accordo: «Io sono di quella donna che non ha la maternità», «io sto con quell’anziano che guadagna poche centinaia di euro di pensione sociale».
Il suo populismo è sempre identificativo. Sfrutta in modo sistematico questa ideologia del mondo contemporaneo: la cultura feticistica dell’immedesimazione. Come dichiara nell’intervista a Fazio, i problemi di chiunque sono i problemi di Renzi. Il senso della sua politica si basa su una forma di illusione molto efficace: prendersi cura degli altri vuol dire caricarsi addosso i loro problemi, afferma Renzi. E l’espressione con cui la dice vuole mostrare una reale identificazione empatica con qualunque cittadino tirato in ballo. Ma non è solo questo “effetto di vicinanza” che genera un senso di confidenza e di immedesimazione immediata, al di là delle ragioni. È un processo che non ha la perversa polimorficità di uno Zelig, ma quella fenomenologia dell’uomo comune che Umberto Eco attribuiva a Mike Buongiorno. Renzi non sale mai in cattedra, non è mai premier. Persino all’Onu, toppando clamorosamente la pronuncia dell’inglese e non vergognandosene, dichiara implicitamente: Sono come voi. Immaginatevi in una situazione ufficiale, ecco io mi carico le vostre ansie da prestazione e le risolvo così, rovesciando il canone, eliminando il vostro incubo emotivo maggiore: l’ansia da prestazione.
Ma non è solo un’attitudine all’indentificazione che rende convincente l’oratoria di un discorso che, se fosse letto, troveremo trito e ritrito, un cumulo di luoghi comuni (fateci caso a quanto poco Renzi scriva in una forma più lunga di un tweet o un post, e di come invece parli tantissimo; oppure leggete i suoi libri e saggiate la debolezza argomentativa e stilistica e la povertà dell’analisi e dell’invenzione).
Come fa dunque a essere funzionale un discorso così banale? Per il ricorso ad alcuni stilemi.
Primo, le voci. Renzi fa le voci. Mentre parla, imita letteralmente i toni dei suoi eventuali interlocutori: fa la voce di quello che si lamenta, di quello che è stufo di pagare le tasse, di quello che nel suo partito gli è avversario. Usa il fiorentino popolare, l’aulico, il trombonesco… Inscena un dialogo in cui tiene anche il ruolo dell’interlocutore: le sue battute da premier diventano autorevoli per semplice contrasto fonico con queste vocine.
Secondo, reagisce a tutti gli stimoli: mentre tiene il filo di un discorso semplice al limite del triviale abbiamo detto, Renzi crea incisi, anticipa l’interlocutore, fa una smorfia che indica altro rispetto a quello di cui sta parlando, risponde con una chiosa secca a uno stimolo che viene dal pubblico. Si autocommenta, vedi l’uso del tweet. Soprattutto non è mai monodirezionale, ma è sempre multitasking, tiene sempre almeno due o tre livelli del discorso aperti. Ascolta, o meglio simula un’attenzione a ogni aspetto della reazione alle sue parole: non è attento al contenuto (sarebbe impossibile per chiunque riuscire a rispondere a tutto), ma è alla forma sì: crea l’illusione di consapevolezza di ogni reazione, di ogni tipo di stimolo esterno. Dà un’impressione di ascoltare, se per ascoltare intendiamo non tanto sviscerare, ma il mero prendere in considerazione. Una dialettica hegeliana fatta di tesi, finta attenzione all’antitesi, sintesi.
Terzo, quelle che Makkox chiama le “avversative reggae”. Ossia un modo di simulare un’opposizione tra il vecchio rappresentato dal mondo degli avversari politici e il nuovo incarnato dal suo stile, e basato su un semplice spostamento linguistico. Il suo discorso è stracolmo di queste dicotomie, di questi rovesciamenti, di non solo ma anche, che non sono mai dei vel vel veltroniani, ma sempre degli aut aut – rappresentazioni di polarità. E il nemico è ogni volta «la mentalità stantia», qualunque cosa voglia dire quest’espressione.
Quarto, le metafore, e la spiegazione delle metafore. Nell’intervista con Fazio, Renzi ne ha preparate un bel po’. Una in particolare è telefonata, sta più o meno a metà dell’intervista. È quella dell’Italia come una macchina che abbiamo lasciato con le luci accese. Sono arrivati i tecnici con i cavi e hanno provato a rianimarla, non ci sono riusciti, ora si tratta di spingere. Appena dopo averla esposta, Renzi la spiega; ma non basta: racconta anche come gli è venuta in mente, a lui e al suo capo-comunicazione Filippo Sensi. E uno potrebbe domandarsi: perché quest’eccesso di spiegazione, di confessione del dietro le quinte? Raccontare una barzelletta e spiegarla. Questo didascalismo ha funzione: produrre un effetto di sincerità. Renzi deve apparire sempre sincero e ci riesce: fa riferimento a suoi aneddoti personali, e racconta il retropalco della politica come se fosse lui stesso un infiltrato. In questo modo esibisce una possibile confidenza con quelli che sono i suoi lettori prima e i suoi elettori dopo.
Questo tipo di elementi e altri (tutta la gestualità, per dire: esempio,
le mani con il pollice e indice ravvicinati, o anche le mani ravvicinate a pugno, che esprimono un feticcio di concretezza) compongono un codice che ha un effetto performativo ben preciso. Innanzitutto, evitare il merito della questione. È interessante, riguardandosi il video di 48 minuti di Che tempo che fa, osservare come Fazio – non certo un intervistatore aggressivo – chieda ben cinque volte a Renzi la ragione effettiva della proposta di cancellazione dell’articolo 18. Renzi per cinque volte parla d’altro, e anche di fronte a Fazio che gli ripete: «Questo è chiaro, ma…», non si scompone e ricomincia: metafore, avversative, accelerazioni, indice e pollice ravvicinati, vocine.
Inoltre, il discorso di Renzi è sempre rivolto a un pubblico, a una platea, non è mai solo per l’interlocutore; glielo fa notare anche D’Alema, che si trova spiazzato rispetto a un codice di riunione di partito che non è il suo. Il luogo espressivo di Renzi è in un certo senso sempre un comizio – in questo è figlio del suo tempo: le discussioni sui social network quando mai sono private o dirette solo ad personam. Per esempio: guardate la sua intervista e confrontatela con il suo intervento alla direzione Pd. Notate delle differenze sostanziali? Pensate a una qualunque situazione informale in cui Renzi risponde alle domande dei giornalisti chessò sulla Fiorentina, e fate il paragone con il suo discorso all’Onu, in quella strana lingua che è il suo globish? Vi sembra agire in contesti differenti?
Che ragione ha tutto questo? Che il fine della retorica renziana non è la convinzione, l’aver ragione, ma sempre e comunque il consenso. Il suo stile è pervicacemente elettorale. Il consenso muove verso una fiducia, 40 e passa per cento, ma anche oltre. La persuasione ragionevole cerca la stima e la convinzione, molto più fragile e molto più ristretta, un compromesso, una convergenza, un’omologia per dirla in senso socratico, tanto più solida quanto più la discussione s’infittisce. Renzi è perennemente macrologico, mai micrologico invece. Non è per il botta e risposta: assumere le idee degli avversari vuol dire sempre annullarle.
In questo senso si capisce allora l’attacco delle settimane scorse tutto strumentale ai sindacati. Un presidente del consiglio di sinistra che attacca in modo violento e indiscriminato i sindacati, per quale motivo lo fa? Per una ragione non complicata: a chi non stanno un po’ sul cazzo i sindacati? Se da sindaco rottamatore del Pd attaccava il Pd, ora che è premier e segretario attacca sindacato e poteri forti. Non nelle forme reali: ma in quanto fantasmi. Quanti si indigneranno? Cosa voglia davvero, cosa intenda suggerire con questi attacchi rimane oscuro. Sicuramente produce consenso. Il risentimento viene tesaurizzato meglio di quanto ormai riesca a Grillo.
Per tutta questa serie di ragioni, risultano spuntate le recenti critiche piccate che gli muove nel suo ciclico editoriale-omelia Scalfari ogni domenica mattina su Repubblica a cui si è aggiunta la chiosa diaconale di De Bortoli qualche giorno fa sul Corriere. Renzi non è semplicemente una macchinetta da slogan, ma ha un ruolo socialmente trasformativo. Creare un partito di massa che si identifica e si compatta non più in un particolare tipo di bisogni materiali o di ideali, ma in una condizione emotiva. La nuova coscienza di classe è quella di un popolo di ansiosi. E in questo senso la crisi della rappresentanza ha una scaturigine interiore: la società post-comunitaria degli individui monadi è composta da persone che desiderano essere ascoltate, viste, riconosciute. La caratteristica precipua dei nuovi adulti è l’ipersensibilità, la fragilità della psiche, una perenne ansia da prestazione. Hanno bisogno di sollievo, hanno bisogno di qualcuno che s’identifichi con loro. O che soprattutto sappia fingere molto molto bene.