Questo ventennio ha avuto un dominus, una figura che lo ha incarnato a tutto tondo, tenendo ben stretto il bandolo degli eventi grazie alle ramificazioni dei suoi interessi e alle connivenze intessute nei decenni; ed è Silvio Berlusconi. La sinistra ha fatto argine in qualche circostanza ma sono stati brevi intervalli, di cui solo alcuni luminosi: il primo governo Prodi con il riallineamento dei conti pubblici e l’entrata nell’euro, e i primi passi del secondo governo Prodi con le liberalizzazioni promosse da Pierluigi Bersani. Per il resto, divisioni interne, astenia culturale e una latente sindrome di Stoccolma hanno fatto, spesso, troppo spesso, accucciare la sinistra ai piedi del Cavaliere. Berlusconi è diventato così l’alfa e l’omega di questi anni. Altro che contrapposizione bilanciata.
Il Cavaliere ha potuto dedicarsi tranquillamente alla cura dei propri affari riservando una attenzione residuale ai problemi centrali della modernizzazione del paese. Quasi tutti gli indicatori socio-economici e culturali di questi vent’anni, messi a confronto con quelli degli altri paesi dell’Ue, per non dire del G7, mostrano una perdita di terreno. E in più, è stato inquinato lo spirito civico di questo paese.
Quando un primo ministro irride alle leggi, le stravolge e violenta per suo tornaconto, quando sollecita i cassaintegrati a frodare le norme facendo lavoretti in nero, quando proclama di fronte alla Guardia di finanza che l’evasione fiscale oltre una certa soglia di imposizione fiscale è un diritto, quando un primo ministro agisce così, inocula ulteriore veleno su un corpo civile già debilitato per storiche tare.
La diffidenza-ostilità per l’imperio della legge, la torsione personalistica delle norme, il fastidio per le regole hanno profondamente minato la legittimità delle istituzioni. E, più sottilmente, il berlusconismo ha favorito la diffusione di una visione del mondo a-razionale, dove i “fattoidi”, come li chiamava Edmondo Berselli, diventavano realtà e solo l’apparenza contava; e così, venivano favorite fughe in avanti e aspettative miracolistiche che solo l’intervento salvifico di un capo poteva risolvere.
Di fronte a tutto questo gli argini sono stati deboli e mal curati. L’opposizione a Berlusconi e al suo mondo si attivava a corrente alternata: un giorno faceva la voce grossa, un altro trattava sulle frequenze televisive, un giorno gridava al golpe, un altro cedeva sul “processo giusto”. E così via. Mancava la costanza del resistere, resistere, resistere. E l’accusa di antiberlusconismo veicolata dalla destra diventava quasi uno stigma da cui difendersi. Non una onorevole connotazione etico-politica. Sorprende, allora, che Matteo Renzi, quasi fosse un flaianesco marziano a Roma, equipari l’antiberlusconismo al suo contrario, come chi accomuna partigiani e repubblichini in uno stesso calderone.
Al contrario, proprio la fiacchezza dell’opposizione a Berlusconi, con punte di connivenza, i cui ultimi rigurgiti si ritrovano anche nei 101 voti contro Romano Prodi alla Presidenza della Repubblica, ha mandato alla deriva questo paese. La mancanza di rigore e fermezza di fonte alle devastazioni del diritto e all’imposizione dell’arbitrio e dell’interesse personale e di clan, hanno permesso ad una cultura politica populista e anti- istituzionale di debordare. Mentre Berlusconi incantava con la promessa di una “rivoluzione liberale”, che non ha lasciato che macerie, l’opposizione aveva il dovere di opporsi con il massimo di impegno.
Non distinguere le responsabilità di quanto avvenuto negli ultimi decenni e accumunare tutti in un magma indistinto non solo fa torto alla realtà dei fatti ma riporta a galla una visione del mondo “irresponsabile”, del tutti a casa perché nessuno è colpevole. L’Italia è arretrata paurosamente su tutti i fronti non per la contrapposizione dura tra due schieramenti, ma proprio per il suo contrario: perché l’opposizione al berlusconismo è stata inconsistente e quindi la sua sconfitta tardiva, troppo tardiva.