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Amador Fernández-Savater
La resistenza viscerale
16 Agosto 2016
Critica
«Intervista a Achille Mbembe docente di Storia e Politica all’Università Witwaterstand di Johannesburg (Sudafrica). Il suo primo libro pubblicato in castigliano è stato Necropolitica
«Intervista a Achille Mbembe docente di Storia e Politica all’Università Witwaterstand di Johannesburg (Sudafrica). Il suo primo libro pubblicato in castigliano è stato Necropolitica». Comune.info, 14 agosto 2016 (c.m.c.)

Stiamo vivendo un cambiamento epocale: si trasformano le antiche nozioni di tempo e velocità e il mondo si è contratto nello spazio, forse nessun angolo della terra è più sconosciuto. Mentre invecchiano le società del nord e ringiovaniscono l’Asia e l’Africa, assieme a enormi ondate migratorie che ricordano i primi tempi della colonizzazione, cresce una grande segregazione sociale, una specie di gigantesco apartheid. La violenza economica non si esprime più nello sfruttamento del lavoratore, ma nel rendere superflua una parte importante della popolazione mondiale.

Achille Mbembe, storico camerunense e docente all’università sudafricana di Johannesburg, uno degli studiosi più brillanti nell’interpretazione non eurocentrica del cambiamento in corso, rileva però – dal suo interessante punto di osservazione – che c’è anche un emergere di piccole insurrezioni in risposta alla “necropolitica” e alla brutalizzazione del corpo e del sistema nervoso tipica del capitalismo contemporaneo. Nascono nuove forme di resistenza legate alla riabilitazione degli affetti, delle emozioni e delle passioni. In una gran bella conversazione con il nostro amico Amador Fernández-Savater, Mbembe la chiama “la politica della visceralità”.

Crítica de la razón negra. Ensayo sobre el racismo contemporáneo (Critica della ragione nera. Saggio sul razzismo contemporaneo) di Achille Mbembe, pubblicato da Ned Ediciones e Futuro Anterior, è un trattato della portata di Orientalismo di Edward Said. Si tratta, anzitutto, di un’archeologia dell’enunciato eurocentrico che ha costruito un’idea dell’Africa come continente cannibale e barbaro, come quel territorio che poteva solamente fornire al capitalismo (ancora lo fa) uomini-cosa-merce, il suo volto oscuro.

In secondo luogo, il libro è un esercizio (etico, estetico, poetico) che, nella stessa tradizione di Said e degli studi culturali, si propone di pensarsi, conoscersi e dis-conoscersi “al margine” di questo sguardo imperiale europeo. Vale a dire di ri-costruire una memoria “dal basso” che sani e de-vittimizzi – è lo stesso – capace di progettare un futuro comune. Mbembe riscatta qui la letteratura dell’altra ragione negra, i poeti e i romanzieri, Fanon e Césaire, in un lavoro serio e delizioso, potente ed estremo, doloroso e foriero di speranze.

In questo libro analizza, infine, la vigenza delle pratiche coloniali/imperiali che oggi “inselvatichiscono” il mondo. Ciò che l’autore chiama e invita a pensare come «il divenire nero del mondo». Questo momento storico in cui, come dice in questa stessa intervista, «la distinzione tra l’essere umano, la cosa e la merce tende a sparire e a essere cancellata, senza che nessuno – neri, bianchi, donne, uomini – ne possa sfuggire».

Achille Mbembe è nato in Camerun nel 1957. È docente di Storia e Politica all’Università Witwaterstand di Johannesburg (Sudafrica). Il suo primo libro pubblicato in castigliano è stato Necropolitica, dove analizza le politiche di adeguamento e di espulsione che sono state sperimentate, per prime, nel continente africano negli anni 90 e che oggi si diffondono dappertutto. Gli abbiamo rivolto alcune domande.

Lei parla di “cambiamento epocale”, sulla base di cosa? Quali fattori lo indicano?

In effetti, credo che viviamo un cambio di epoca. Da un lato, il mondo si è rimpicciolito, si è contratto nello spazio, abbiamo, in qualche modo, toccato i suoi limiti fisici, fino al punto in cui, probabilmente, nessun angolo della terra è sconosciuto, è disabitato o non è sfruttato. Allo stesso tempo, la storia umana attraversa una fase caratterizzata da quello che chiamo la ripopolazione del pianeta, che demograficamente si traduce in un invecchiamento delle società del nord e in un ringiovanimento del continente africano e asiatico in particolare.

Per quanto riguarda la struttura delle popolazioni, stiamo assistendo alla crescita di una grande segregazione sociale, una specie di gigantesco apartheid, assieme a enormi ondate migratorie su scala planetaria, che ricordano i primi tempi della colonizzazione. E, riguardo alle trasformazioni tecnologiche, una delle loro principali conseguenze è la trasformazione delle nostre antiche nozioni di tempo e di velocità.

Politicamente, stiamo entrando in un mondo nuovo, caratterizzato purtroppo dalla proliferazione di frontiere e di zone esclusivamente militari. Questo mondo si rafforza grazie al «fantasma del nemico», di cui parlo nel mio ultimo libro, e all’emergenza di uno Stato globale securitario che cerca di normalizzare uno stato di eccezione a scala mondiale, dove i concetti di Diritto e di libertà, che erano inseparabili dal progetto della modernità, rimangono sospesi.

Ci sono, pertanto, molti fattori che indicano che stiamo entrando in mondo diverso, altamente digitalizzato e finanziarizzato, dove la violenza economica non si esprime più nello sfruttamento del lavoratore, ma nel rendere superflua una parte importante della popolazione mondiale. Un mondo che mette radicalmente in discussione il progetto democratico ereditato dall’Illuminismo.

Necropolitica: politiche di morte

Come descriverebbe la violenza del capitale in questo cambio epocale? Nel suo ultimo libro, lei ha definito il neoliberalismo come un «divenire negro del mondo»: potrebbe soffermarsi su questo?
Diciamo che nei miei libri voglio far convergere due tradizioni del pensiero critico che da un po’ di tempo sembravano divergere: da un lato, la tradizione del pensiero critico relativo alla formazione e alla lotta di classe; dall’altro lato, la tradizione del pensiero critico che cerca di capire la formazione delle razze. Queste due tradizioni sono state spesso contrapposte, quando questo, già solo in termini storici, è insostenibile.

Se studiamo attentamente la storia del capitalismo, ci rendiamo subito conto che, per funzionare, fin dai suoi inizi ha avuto la necessità di produrre ciò che chiamo «sussidi razziali». Il capitalismo ha come funzione genetica la produzione di razze che, allo stesso tempo, sono classi. La razza non è solamente un’aggiunta del capitalismo, ma qualcosa di inscritto nel suo sviluppo genetico. Nel periodo primitivo del capitalismo, quello che va dal XV secolo fino alla Rivoluzione Industriale, la riduzione in schiavitù dei neri ha costituito il più grande esempio della connessione tra la classe e la razza. I miei lavori si sono incentrati in particolare su quel momento storico e sulle sue figure.

La tesi che sviluppo nel mio nuovo libro è che, nelle condizioni attuali, il modo in cui i neri sono stati trattati in quel primo periodo si è esteso al di là dei neri stessi. Il «divenire nero del mondo» è quel momento in cui la distinzione tra l’essere umano, la cosa e la merce tende a sparire, a essere cancellata, senza che nessuno – neri, bianchi, donne, uomini – vi possa sfuggire.

Questo ci porta al suo concetto di “necropolitica” (o politica della morte); come lo spiegherebbe?
Sono due cose. La “necropolitica” è connessa al concetto di “necroeconomia”. Parliamo di necroeconomia nel senso che una delle funzioni del capitalismo attuale è produrre su vasta scala una popolazione superflua. Una popolazione che il capitalismo non ha più necessità di sfruttare, che però va gestita in qualche modo. Un modo di disporre di questa eccedenza di popolazione è quella di esporla a ogni sorta di pericoli e rischi, spesso mortali. Un’altra tecnica consiste nell’isolarla e rinchiuderla in zone di controllo. È la pratica della “zonificazione”.

È significativo constatare che, nel corso degli ultimi 25 anni, la popolazione carceraria non ha smesso di crescere negli Stati Uniti, in Cina, in Francia, ecc . In alcuni paesi del nord, la combinazione tra le tecniche di incarcerazione e la ricerca del profitto, ha raggiunto un enorme sviluppo. C’è tutta un’economia della carcerazione, un’economia a scala mondiale, che si nutre della “securizzazione”, quell’ordine che esige che ci sia una parte del mondo rinchiusa. La necropolitica sarebbe, quindi, l’esatta rappresentazione politica di questa forma di violenza del capitalismo contemporaneo.

A proposito di questo, vorremmo chiedere la sua opinione sull’attuale «crisi dei rifugiati»: a suo giudizio, qual è stato il ruolo dei governi? Cosa ne pensa della risposta della cittadinanza europea?
È proprio a partire dalla necropolitica e dalla necroeconomia che si può comprendere la «crisi dei rifugiati». Questa crisi è il diretto risultato di due tipi di catastrofi: le guerre e le devastazioni ecologiche, che si sostengono reciprocamente. Le guerre sono fattori di crisi ecologiche e una delle conseguenze delle crisi ecologiche è il fomentare guerre.

La «crisi dei rifugiati» ha anche a che vedere con quello che prima ho chiamato il «ripopolamento del mondo», nella misura in cui le società del nord invecchiano, aumenta la loro necessità di ripopolarsi, e la migrazione illegale è una parte essenziale di questo processo, che sicuramente si accentuerà nel corso dei prossimi anni. A questo proposito, la reazione dell’Europa è schizofrenica: alza muri attorno al continente, però ha bisogno dell’immigrazione per non invecchiare.

Associato al concetto di “necropolitica” ne appare nei suoi lavori un altro impotante, quello di «governo privato indiretto». Cosa ci può dire al riguardo?
Quel concetto è stato elaborato negli anni Novanta, in un’epoca in cui il continente africano era completamente sotto il potere del FMI e della Banca Mondiale. Era un periodo di grandi aggiustamenti strutturali che hanno colpito duramente l’economia africana, in modo simile all’attuale caso greco: un indebitamento al di fuori di qualsiasi norma, la sospensione della sovranità nazionale, la delega di tutto il potere sovrano a istanze non-democratiche, la privatizzazione di tutto, in particolare del settore pubblico, ecc. L’idea di governo privato indiretto indica una forma di governo del debito che sviluppa, al di fuori di qualsiasi quadro istituzionale, una tecnologia dell’espropriazione in paesi economicamente dipendenti, privatizzando il “comune” e scaricando sugli individui la responsabilità di ogni male (“è stata colpa vostra”).

Questo concetto, elaborato nel contesto del continente africano negli anni Novanta, può spiegare le attuali tendenze globali e si può applicare in altre parti del pianeta? In Messico, ad esempio, molta gente segue attentamene i suoi lavori per la forte risonanza delle sue analisi con quanto accade lì.
Penso che oggi, a scala globale, sia possibile continuare a pensare questo concetto. Il governo privato indiretto a livello mondiale è un movimento storico delle élite che aspira, in definitiva, ad abolire il politico. Distruggere ogni spazio e ogni risorsa – simbolica e materiale – dove sia possibile pensare e immaginare cosa fare del legame che ci unisce agli altri e alle generazioni che verranno. Per questo, si procede attraverso logiche di isolamento – separazione tra paesi, tra classi e tra individui – e di concentrazione del capitale laddove si può sfuggire a ogni controllo democratico – trasferimento di ricchezze e di capitali verso paradisi fiscali non regolamentati, ecc. Per assicurarsi il successo, questo movimento non può prescindere dal potere militare: la protezione della proprietà privata e la militarizzazione sono oggi correlativi, vanno intesi come due ambiti di uno stesso fenomeno.

Fin dagli anni Settanta, la trasformazione del capitalismo ha favorito sempre più la comparsa di uno Stato privato, dove il potere pubblico nel senso classico, quello che non appartiene a nessuno perché appartiene a tutti, è stato progressivamente sequestrato a beneficio di poteri privati. Oggi risulta possibile comprare uno Stato senza che ci sia un grande scandalo e gli Stati Uniti sono un buon esempio: le leggi si comprano immettendo capitali nel meccanismo legislativo, i seggi del congresso si vendono, ecc.

Questa legittimazione della corruzione all’interno degli Stati occidentali svuota il senso dello Stato di Diritto e legittima il crimine all’interno delle stesse istituzioni. Non parliamo più di corruzione come di una malattia dello Stato: la corruzione è lo Stato stesso e, in questo senso, non c’è più un al di fuori della legge. Il deterioramento dello Stato di Diritto produce esclusivamente politiche predatorie, che invalidano ogni distinzione tra il crimine e le istituzioni.

Resistenza viscerale

Dall’idea foucaultiana del potere come “relazione”, nel suo saggio sulla necropolitica si avverte la mancanza di maggiori riferimenti alle resistenze, alle pratiche di vita della gente de abajo. Si può descrivere il potere senza descrivere le resistenze?
No, naturalmente. Non si può fare questo tipo di descrizione senza pensare alle forme di resistenza che sono correlative a qualsiasi potere. I miei primi lavori, che purtroppo non sono ancora stati tradotti, erano incentrati proprio sulle resistenze verso il potere e anche sui loro limiti.

Cosa dire delle attuali forme di resistenza alla necropolitica e alla necroeconomia? Certamente sono molto variegate, dipendono dalle situazioni locali e dai contesti. Prenderò come esempio il caso sudafricano. Mi interessa molto il modo in cui in questo paese le resistenze si organizzano a partire dall’occupazione degli spazi, in una ricerca di visibilità là dove il potere vuole relegarci e allontanarci. Le forme di resistenza che si stanno sviluppando in quel paese hanno a che vedere con la lotta dei corpi per farsi presenti (corporalmente, fisicamente, visibilmente) di fronte alla produzione di assenza e di silenzio da parte del potere. Sono forme esemplari di resistenza perché oggi il potere funziona producendo assenza: invisibilità, silenzio, oblio.

Durante gli ultimi anni abbiamo assistito in Sudafrica a un grande movimento chiamato la decolonizzazione, una decolonizzazione simbolica che ha operato, ad esempio, chiamando a distruggere le statue del colonialismo, ma anche lottando per trasformare il contenuto del sapere e delle forme di produzione del sapere; riattivando la memoria e resistendo all’oblio, ecc. In Sudafrica, le resistenze passano attraverso la riabilitazione della voce, per l’espressione artistica e simbolica, sfidano il tentativo del potere di ridurre al silenzio le voci che non vuole ascoltare. In quella regione del mondo stiamo vivendo un ciclo di lotte che io chiamo le politiche della visceralità.

In cosa consistono queste «lotte della visceralità»?
C’è un emergere di piccole insurrezioni. Queste micro-insurrezioni assumono una forma viscerale, in risposta alla brutalizzazione del sistema nervoso tipica del capitalismo contemporaneo. Una delle forme di violenza del capitalismo contemporaneo consiste nel brutalizzare i nervi. E, come risposta, emergono nuove forme di resistenza legate alla riabilitazione degli affetti, delle emozioni, delle passioni e che convergono in tutto ciò che io definisco la «politica della visceralità».

È interessante vedere come in molti luoghi, tanto nelle lotte della popolazione nera in Sudafrica come negli Stati Uniti, i nuovi immaginari di lotta cercano principalmente la riabilitazione del corpo. Negli Stati Uniti, il corpo nero si trova al centro degli attacchi del potere, da ciò che è simbolico – il suo disonore, la sua animalità – fino alla normalizzazione dell’assassinio. Il corpo nero è un corpo di animale, non un corpo di essere umano. Lì, la polizia uccide neri quasi ogni settimana, senza che quasi esistano statistiche che ne diano conto. La generalizzazione dell’assassinio è inscritta nella prassi della polizia. L’amministrazione della pena di morte si è svincolata dall’ambito del Diritto per diventare una pratica puramente poliziesca. Quei corpi neri sono corpi senza giurisprudenza, qualcosa più simile a oggetti che il potere deve gestire.

Lei analizza come il lavoro della memoria sia stato per molti popoli un esercizio di cura e di auto-cura al fine di nominarsi in modo autonomo. Tuttavia, fino a che punto queste memorie sono elaborate o scritte dagli “sconfitti”?
La memoria popolare non racconta mai storie nitide, non ci sono memorie pure e trasparenti. Non c’è memoria propria. La memoria è sempre sporca, impura, è sempre un collage. Nella memoria dei popoli colonizzati troviamo numerosi frammenti di ciò che a un certo punto è stato infranto e che non può più essere ricostruito nella sua unità originaria. Di conseguenza, la chiave di tutta la memoria al servizio dell’emancipazione sta nel sapere come vivere ciò che è perduto, con quale livello di perdita possiamo vivere.

Ci sono perdite radicali delle quali non si può recuperare nulla e, tuttavia, la vita continua e dobbiamo trovare dei meccanismi per rendere presente in qualche modo questa perdita. Da una casa incendiata, possiamo recuperare alcuni oggetti e perfino ricostruire la casa, ma ci sono delle cose che non potremo mai sostituire perché sono uniche, perché con esse mantenevamo una relazione unica. Bisogna vivere con questa perdita, con questo debito che non possiamo più pagare. La memoria collettiva dei popoli colonizzati cerca i modi per indicare e vivere quello che non è sopravvissuto all’incendio.

Come ricostruire, in chiave di potenza, la lacerante storia di spoliazione e violenza ed evitare l’auto-rappresentazione di sè come vittime perpetue?
È una questione centrale. La coscienza vittimista è una coscienza pericolosa, perché è una coscienza ammutolita dal risentimento e dal desiderio di vendetta, che cerca sempre di infliggere all’altro – un altro di solito più debole, non necessariamente il colpevole reale – la quantità di violenza che ha sofferto. Penso che c’è un pericolo in questa forma vittimista di coscienza. Il problema è come la gente che ha subito un trauma storico e reale, come una guerra o un genocidio, può ricordare quanto le è successo e utilizzare la riserva simbolica della catastrofe storica per progettare un futuro che rompa con la ripetizione delle violenze sofferte. È un cammino che si potrebbe quasi dire di ascesi. Una ricerca di “purificazione”, di identificazione degli elementi della tragedia per non ripeterla.

C’è chi parla di un “uso strategico dell’essenzialismo”, di un uso tattico dell’identità come leva nella costruzione di un soggetto politico. Lei, come si pone in questi dibattiti sull’identità?
Diciamo che, se riguardiamo la storia delle lotte contro la discriminazione razziale, c’è spesso un momento in cui la resistenza si costruisce attraverso una certa essenzializzazione della razza. Si è visto, per esempio, negli Stati Uniti con Marcus Garvey, o in Francia nel «movimento della negritudine» dove si trattava proprio di rivalorizzare la condizione nera. Sono movimenti che cercano di emanciparsi dalla condizione di oggetto, ritraducendo in modo positivo quegli attributi che ci condannano a essere oggetti – la negritudine – in un segno umano. Questo è il ruolo strategico della funzione essenzialista.

Il problema si verifica quando l’essenzialismo ci impedisce di continuare il cammino che persone come Fanon consideravano l’orizzonte delle nostre lotte. Qual è questo orizzonte? Quello che apre la strada verso una nuova condizione, dove la razza non ha più importanza, dove la differenza non conta più, perché tutti siamo diventati semplicemente esseri umani: il passaggio dall’indifferenza alla differenza. In questo senso, mi considero “fanonista”, anche se capisco che, in determinate circostanze, ci siano dei movimenti che utilizzano strategicamente l’essenzialismo come un modo per rafforzare un’identità collettiva.

Per concludere, il capitalismo si è rinnovato, aggiornando e rendendo sofisticate le violenze necropolitiche del colonialismo. Lo hanno fatto anche quelli che gli resistono? Abbiamo rinnovato la nostra immaginazione politica per rispondere con forme di azione efficaci alla necropolitica del capitalismo contemporaneo?
Se riflettiamo sull’esempio africano, il XX secolo può essere suddiviso in due cicli di lotta. Dall’inizio del XX secolo fino agli anni Trenta, abbiamo vissuto una forma di lotta che chiamerei acefala, legata al locale, alle condizioni di riproduzione della vita quotidiana. Dopo la seconda guerra mondiale, entriamo in un ciclo di lotta verticale, rappresentata dai sindacati e dai partiti politici. Adesso sembra che siamo ritornati alle forme acefale della lotta, lotte locali, lotte più o meno orizzontali, che insistono sul recupero della capacità di interruzione della normalità, della narrazione che ordina la normalità, che ci fa pensare che quanto accade sia normale quando non lo è.

Nel caso del sud dell’Africa, la domanda ora è come trasformare questa rottura della normalità, questa de-normalizzazione, in una nuova forma di istituzionalizzazione. Ho l’impressione che le nuove lotte acefale non riescano ad apportare risposte plausibili ed efficaci a questa domanda: come dare forma a un nuova istituzionalità, aperta e democratica, che abbia tratto lezione dai problemi causati dal verticalismo. Non penso che si possa avere democrazia senza istituzionalizzazione né rappresentanza. Sappiamo che ovunque c’è una crisi della rappresentanza, ma non credo che la risposta sia dissolverla in quanto tale, dissolvere ogni idea di rappresentanza.

In definitiva, le nostre vecchie ricette (i partiti politici, per esempio) stanno manifestando difficoltà strutturali nel preservare e nel difendere il “comune” all’interno delle attuali istituzioni e continuerà ad essere così fintanto che non ci saranno delle comunità forti che possano democratizzare la politica dal basso. I movimenti degli ultimi anni si muovono in questa direzione, anche se sono ancora legati tra di loro in modo fragile. Penso che da queste diverse resistenze acefale sorgeranno nuove proposte di istituzioni, magari non per rovesciare lo Stato, bensì per costringerlo a trasformarsi nuovamente in un organo di difesa del bene comune.

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