Le parole, i toni, l’argomentare sono di fastidio di fronte alla critica, alla discussione pubblica che pure è il sale della democrazia. Pare evidente che Sergio Marchionne voglia mostrare la regola della forza. Ha ribadito che suo, e soltanto suo, è il potere di vita o di morte su Mirafiori. Una spada gettata su una bilancia già sospetta d’essere alterata. È così eccessivo questo atteggiamento che viene quasi il sospetto che l’amministratore delegato della Fiat voglia favorire il "no" al referendum, per essere finalmente libero di muoversi in un mondo globale dove tutti gli aprono le porte e gli offrono braccia a qualsiasi prezzo. Un referendum, peraltro, che egli stesso svuota del suo significato proprio, visto che ne rifiuta pregiudizialmente uno dei possibili risultati. Lo sappiamo da sempre che è facile volgere a proprio vantaggio una guerra tra poveri. Per sfuggire a un impoverimento che attanaglia un numero crescente di persone, vi è sempre qualcuno che accetta di vendere la sua forza lavoro riducendo garanzie e diritti. È questo il dono del realismo del Terzo Millennio, dove l’efficienza economica cancella ogni altro valore?
Se vogliamo analizzare più in profondo le dinamiche in corso, ci accorgiamo che qualcosa accomuna la vicenda Fiat e quella che riguarda WikiLeaks. Si tratta del modo in cui il potere si sta redistribuendo nel mondo globale, chi lo esercita, chi può controllarlo. E questa novità non si coglie con i soli strumenti tradizionali, riferendosi solo al sistema delle relazioni industriali, alla tutela del segreto di Stato. Bisogna partire dalle logiche alle quali si rifanno i nuovi padroni del mondo, che non si sentono titolari di un potere controllabile e, invece, si muovono ritenendosi investiti di un potere sciolto da ogni vincolo.
Se questo è il tratto comune, divergono gli effetti di questo potere generato dal contesto globale. Nel caso della Fiat, lo sciogliersi del potere dai vincoli esterni, per il dilatarsi dell’attività d’impresa nei più diversi luoghi del mondo, ne produce un accentramento in mani sempre più ristrette. Nel caso WikiLeaks, il superamento delle barriere alla diffusione delle notizie determina il dilatarsi del numero dei soggetti titolari del potere fondato sulla conoscenza, che può essere esercitato al fine di controllare chi finora si era ritenuto intoccabile. Questi diversi effetti hanno origine nella diversità del potere esercitato: fondato sulla logica economica, da una parte; finalizzato all’espansione dei diritti, dall’altro.
La novità della situazione attuale è determinata dal fatto che, nella dimensione globale, si riduce o addirittura si dissolve la sovranità degli Stati nazionali, che è stata, e in molti casi ancora rimane, strumento per garantire il governo di processi complessi e assicurare un equilibrio tra i poteri in campo. Nel vuoto lasciato dai soggetti nazionali, e nell’assenza di soggetti pubblici che possano prenderne il posto, si insediano soggetti privati che divengono, insieme, legislatori e governanti, controllori e controllati. Dobbiamo rassegnarci alla supremazia della logica di mercato che produce una sorta di invincibile diritto naturale? O vi sono altre strade da percorrere?
L’Europa può fornirci qualche indicazione. Nel 1999, avviando la fase che avrebbe portato alla proclamazione della Carta dei diritti fondamentali, il Consiglio europeo affermava esplicitamente che il riconoscimento di quei diritti era indispensabile per far sì che l’Unione acquistasse piena "legittimità". Il mercato, le libertà economiche che l’accompagnano, la moneta unica non venivano ritenuti sufficienti per sostenere una costruzione difficile, e sempre a rischio, qual è quella europea. Il passaggio dall’"Europa dei mercati" all’"Europa dei diritti" diviene così condizione necessaria perché l’Unione possa raggiungere piena legittimazione democratica. Questo modello è stato poi assunto oltre lo spazio europeo, tanto che al rifiuto radicale della globalizzazione, sintetizzato dallo slogan "No Global", si è sostituita una linea diversa, che parla appunto di globalizzazione attraverso i diritti e non soltanto attraverso il mercato. Queste non sono formule più o meno felici. Sono l’espressione di una esigenza di democrazia che ben possiamo far risalire all’articolo 16 della Dichiarazione dei diritti dell’uomo e del cittadino del 1789: "La società nella quale non è assicurata la garanzia dei diritti, e non è stabilita la separazione dei poteri, non ha Costituzione". Il potere dev’essere diviso, non concentrato. I diritti fondamentali devono essere sempre garantiti.
Questa storia è alla fine? Nel mondo del lavoro, in troppi casi, non v’è più negoziazione "all’ombra della legge". Anzi non v’è più negoziazione, perché sempre più spesso si chiede a sindacati e lavoratori di prendere o lasciare un testo predisposto unilateralmente dalla parte più forte. Contratto collettivo e sindacato, i due strumenti che dall’800 hanno cercato di colmare il dislivello di potere tra datore di lavoro e lavoratori, vengono variamente svuotati. La soggettività del lavoratore si perde, e con essa la dignità del lavoro. Se l’efficienza è l’unica bussola, rischiamo di tornare alla "gestione industriale degli uomini". E la retribuzione non è più ciò che deve assicurare al lavoratore e alla sua famiglia "una esistenza libera e dignitosa", come vuole l’articolo 36 della Costituzione, ma il prezzo minimo che si spunta sul mercato per vendere un lavoro di nuovo ridotto a pura merce. Dall’esistenza libera e dignitosa si tende a passare ad una sorta di "grado zero" dell’esistenza, alla retribuzione come mera soglia di sopravvivenza, come garanzia solo del "salario minimo biologico", del "minimo vitale".
Di questi problemi, e del cambiamento d’epoca che rivelano, non ci si può liberare con una mossa infastidita, dando del "conservatore" a chi li ricorda. Chi ragiona così, ha già deciso di arrendersi, di consegnarsi prigioniero a una lettura del mondo globale che non sa usare categorie diverse da quelle dell’economia. Lo sguardo può e deve spingersi oltre, nella direzione indicata all’inizio ricordando la vicenda di WikiLeaks, che ci parla dell’opposto, di una globalizzazione che produce nuovi diritti e nuovi soggetti che l’incarnano. E’ questo il terreno dov’è possibile cercare e costruire quegli equilibri e quei controlli senza i quali la stessa democrazia si perde. Redistribuzione dei poteri e non solo concentrazione, riconoscimento di diritti e non procedure autoritarie. Proprio perché un governo globale del mondo non appartiene alle ipotesi realistiche, e comunque non può essere concepito come la proiezione planetaria della sovranità nazionale, è l’esistenza di una molteplicità di soggetti dotati di diritti che può garantire il mantenimento di pesi e contrappesi, come già accade in molte situazioni. In tutto questo cogliamo un intreccio tra vecchio e nuovo, tra continuità e mutamento. Mentre si manifestano soggetti nuovi, capaci di dar voce ai diritti, non si può pensare che i soggetti storici rappresentino solo il passato, e dunque possano essere abbandonati. E’ vero il contrario. Proprio perché si sta giocando una partita difficile, è indispensabile salvaguardare tutte le forze disponibili. Tornando, ad esempio, alla specifica situazione italiana, questo vuol dire che non sarebbe ragionevole una linea che, pur giustificata appunto con il riferimento ai diritti, porti all’emarginazione, o addirittura alla scomparsa, di parti significative del sindacato.