Di solito parlando di urbanizzazione impropria si pensa soprattutto al suolo, ma anche l'acqua ha il medesimo ruolo di risorsa finita non sostituibile. Il manifesto, 2 aprile 2014 (f.b.)
Lo scorso autunno Los Angeles ha celebrato in pompa magna il centenario del «Los Angeles Acqueduct», il canale che rifornisce d’acqua la città inaugurato nel 1913. L’anniversario è stato commemorato da gonfaloni appesi ai lampioni delle maggiori arterie cittadine e l’acquedotto celebrato come «sorgente di vita» in altisonanti articoli di giornale. Plauso per un’opera di ingegneria idrica che rende bene la misura dell’importanza tuttora attribuita all’acqua in questa regione – perlopiù in funzione della sua cronica scarsità. Si dà il caso, infatti, che nell’inverno appena concluso sia piovuto meno che in ogni anno dal 1850, quando la California, da poco strappata al Messico, è diventata uno stato americano. Inevitabile che nel mezzo della peggiore siccità a memoria d’uomo le commemorazioni civiche abbiano assunto un che di rito propiziatorio, una liturgia del «cargo cult» che in questa città come nell’intero quadrante sud occidentale d’America è legato alla risorsa più preziosa e scarsa e alla grande e perenne sete.
Le fasi aride come l’attuale in questa regione degli States sono una certezza climatica che torna con ciclica regolarità. E ogni volta rammentano come la California e l’Ovest americano (gran parte di Nevada, Utah, Arizona e Nuovo Messico, parti del Colorado e del Texas) siano sostanzialmente regioni desertiche in cui negli ultimi 100 anni si sono insediate 60 milioni di persone. Questa colonizzazione arbitraria, senza logica geografica e soprattutto senza riguardo per le risorse naturali, è avvenuta in una regione dove oltretutto esiste ampia documentazione archeologica di civiltà indigene la cui scomparsa viene ormai attribuita proprio a cause climatiche (ad esempio quella rupestre degli indiani Anasazi). Oggi paradossalmente – assurdamente – quelle che erano le regioni più inospitali del continente sono diventate l’epicentro della crescita demografica del paese.
Los Angeles, senza insenatura, senza porto naturale o un fiume navigabile, priva di vere risorse minerarie e circondata dall’aridità implacabile del Mojave è il prototipo originale di questo sviluppo «contronatura» predicato sull’irrigazione su scala mastodontica. Per un secolo il Pueblo de Los Angeles rimase poco più di un bivacco dei frati francescani spagnoli che l’avevano fondato, circondato da sterpaglia, macchia mediterranea e da piccole coltivazioni in balia di un clima imprevedibile. A fine ‘800, grazie allo scalo ferroviario della Union Pacific, la popolazione era arrivata a 80.000 abitanti e nel 1903 aveva già esaurito l’acqua dell’esiguo Los Angeles River, il torrente che raccoglieva le acque stagionali delle vicine montagne San Gabriel. Non a caso chi ancora oggi più si avvicina a un santo patrono, colui al quale è intitolata una delle strade più celebri della città, Mulholland Drive, è l’ingegnere che progettò il canale lungo 674 chilometri che a questo lembo di deserto meridionale portò l’acqua che nei decenni successivi avrebbe permesso l’insediamento di oltre 10 milioni di esseri umani.
William Mulholland era un ingegnere autodidatta irlandese arrivato in California per tentare la fortuna come cercatore d’oro, ossessionato dall’approvvigionamento idrico della città. Finanziato dai petrolieri, baroni ferroviari e speculatori dell’edilizia e agroindustriali che rappresentavano gli interessi fondativi della giovane Los Angeles, l’acqua decise di andarla a prendere alle pendici della Sierra Nevada orientale, nella verdeggiante valle dell’Owens, 600 km a nord, e trasportarla attraverso l’infuocato deserto Mojave.
Gli agenti del Department of Water and Power di Los Angeles cominciarono ad acquisire i diritti d’uso dell’acqua dagli agricoltori della Owens Valley sotto le mentite spoglie di fantomatici «ottimizzatori dell’irrigazione». E quando con proditorietà da insider trader ante litteram ebbero in mano i necessari pacchetti di maggioranza sulle acque montane, annunciarono la diversione nel canale in costruzione. In sostanza avviarono il commissariamento delle acque che avrebbe condannato la ridente vallata a trasformarsi in polveroso deserto. In quel momento il bacino aveva già perso metà del proprio volume ed era avviato a prosciugarsi. 700 famiglie di agricoltori locali occuparono allora le chiuse e tentarono di dirottare il flusso dell’acquedotto nuovamente verso i campi moribondi. Los Angeles rispose inviando centinaia di agenti di polizia mentre gli sceriffi del luogo presero la parte dei ribelli. Lo scontro armato venne evitato in extremis solo da un accordo che avrebbe restituito una parte delle acqua ma che non fu mai rispettato da Los Angeles. Tanto che una campagna di attentati dinamitardi contro l’acquedotto – 17 in tutto sarebbe continuata per diversi anni fin quando la rivolta dell’acqua non venne sedata con la legge marziale e l’istituzione di guarnigioni con mitragliatrici poste ad intervalli regolari lungo tutto il percorso della tubatura.
La vicenda è accennata in chiave di noir nello splendido Chinatown di Roman Polanski (nel film Mulholland è l'inquietante patriarca interpretato da John Huston) e costituisce il «peccato originale» del trionfo di Los Angeles. Un’allegoria perfetta per l’ipersviluppo degli stati dell’Ovest. L’esproprio delle acque è stato replicato in varia misura da tutte le metropoli del deserto: la fondazione di Phoenix e Las Vegas, la crescita di Salt Lake City e San Diego sono dovute a massicce opere di irrigazione, dato che come dichiarò all’epoca il ministro degli interni di Herbert Hoover, Ray Lyman Wilbur, «con l’aggiunta di acqua, la conquista del Sudovest assicurerà la crescita di una grande e stabile civiltà».
Un secolo dopo, nel mezzo dell’ennesima drammatica siccità, e ora con milioni di abitanti che dipendono da una risorsa ancora altrettanto incerta, il costo della «grande civiltà», quella dei 100 campi da golf di Palm Springs, delle mega-fontane di Las Vegas, delle mille suburbie spuntate come funghi nel deserto, è infine ineluttabile. Del lago Owens oggi rimane un fondale secco da cui si levano turbini di polveri sottili che rendono irrespirabile l’aria della valle un disastro ecologico simile a quello del lago Aral in Kazakhstan. Appena fuori Bishop, capoluogo della Owens Valley, ancora oggi ci sono incongrui tombini recanti la dicitura «acque di Los Angeles» e le chiuse sono ancora protette da imponenti reticolati spinati con la stessa scritta.
Ma quando negli anni ’70 il Department of Water and Power decise di mettere in atto la terza fase del progetto Mulholland, andando a pescare ancora più a nord nelle acque vulcaniche di Mono Lake, condannando anche questo splendido lago alpino a una morte sicura, la campagna per salvarlo diventò subito una pietra miliare del movimento ecologista californiano, che organizzò proteste e petizioni e ricorse in tribunale per fermare la conquista dell’acqua cominciata 80 anni prima. Nel 1988 la corte federale decretò che l’intrinseco interesse alla tutela del patrimonio naturale prevaleva su quelli di singole municipalità; Los Angeles stavolta dovette interrompere i prelievi e istituire invece misure di risparmio idrico. Il lago, una delle meraviglie naturali della Sierra Nevada, venne salvato e oggi sta lentamente recuperando volume.