La Repubblica, 29 aprile 2015
ITALICUM,BATTAGLIA NEL PD E IL GOVERNO METTE LA FIDUCIA
RENZI: “SE CADO, VADO A CASA”
di Silvio Buzzanca
«A nome del governo, autorizzata dal Consiglio dei ministri, pongo la questione di fiducia... ». Sono le 15 e 24 minuti quando Maria Elena Boschi pronuncia le parole fatali che scatenano la furia di una parte dell’aula di Montecitorio. La richiesta di fiducia, attesa, temuta, alla fine è arrivata. Dopo che i voti della mattinata sembravano avere allontanato l’ipotesi paventata da giorni. Il governo e la maggioranza, infatti, avevano tenuto benissimo nei due voti a scrutinio segreto, voluti da Forza Italia, sulle pregiudiziali di costituzionalità. Respinte con 384 e 385 voti. E bene era andato anche il voto, palese, sulla questione sospensiva, respinta con 369 voti. Invece nel pomeriggio, cogliendo un po’ di sorpresa la minoranza del Pd, arriva la richiesta della Boschi. Il risultato immediato è una nuova divisione dei “dissidenti”. Pier Luigi Bersani, il capogruppo dimissionario Roberto Speranza, gli sfidanti congressuali di Renzi Gianni Cuperlo e Pippo Civati, l’ex premier Enrico Letta e poi Rosy Bindi, Stefano Fassina, Alfredo D’Attorre annunciano che non parteciperanno al voto di fiducia. Perché lo considerano una vera e propria «violenza al Parlamento». Alcuni deputati della sinistra dem li seguiranno, molti altri no. Sel accoglie la fiducia con un lancio di crisantemi, Renato Brunetta con l’accusa di «fascismo renziano». Intanto la presidente Laura Boldrini litiga con tutte le opposizioni sul regolamento e la sua interpretazioni delle regole sulla fiducia e il voto segreto. Alla fine resta ferma sulle sue decisioni e respinge la richiesta di convocare la Giunta per il regolamento. E deve anche alzare più di una volta la voce per tenere a freno i grillini, che intonano il coro “vergogna, vergogna” e impediscono agli altri di parlare. Si sprecano le evocazioni della legge Acerbo e della legge truffa. Matteo Renzi, invece, alla Camera non si fa vedere lasciando la scena alla Boschi.
Affida il suo pensiero a Twitter: «Dopo anni di rinvii noi ci prendiamo le nostre responsabilità in Parlamento e davanti al paese, senza paura», scrive il premier. Che poi passa su Facebook per dire: «Il governo è nato per fare le riforme. Se non vogliono fare le riforme, ce lo dicano e andiamo a casa subito, come prevede la nostra Costituzione.
Questo significa mettere la fiducia. E lo facciamo davanti agli italiani, davanti al Parlamento.». Si manifesta nel web però anche Beppe Grillo che accusa: «La fiducia su Italicum non è normale: è fascismo!». E poi tira in ballo il presidente della Repubblica: «Per lo scempio della legge elettorale — dice — non si avvertono segnali da Mattarella. Dopo i moniti di Napolitano si è passati all’estrema unzione silenziosa del Quirinale. Eia, eia, alalà».
LA PROVA DI DEBOLEZZA
di Ezio Mauro
TRAVESTITA da prova di forza, ieri è andata in scena alla Camera la prima, pubblica e plateale prova di debolezza di Matteo Renzi. Mettere la fiducia sulla legge elettorale è sbagliato sul piano del metodo, perché dimostra l’incapacità di costruire un ampio e sicuro consenso politico su una regola fondamentale, ed è sbagliato soprattutto nel merito perché come diceva lo stesso premier a gennaio — per far accettare l’alleanza con Berlusconi — non si cambia il sistema di voto a colpi di maggioranza, tanto più se quella maggioranza riottosa è tenuta insieme dalla minaccia del voto anticipato.
Perso per strada Berlusconi, Renzi sembra aver perso anche la politica, sostituita da una continua prova muscolare. Che non può però nascondere la rottura evidente tra la sinistra del Pd e il presidente del Consiglio, che è anche segretario del partito.
È contro la minoranza interna, infatti, quel voto di fiducia: che diventa così un attestato di sfiducia reciproca tra Renzi e la sinistra Pd, una sfiducia così forte da finire fuori controllo, fino a una decisione che sfida il Parlamento, ma soprattutto il buon senso. Renzi ha il diritto di portare avanti le sue riforme, anche la legge elettorale, e il Paese ha bisogno di cambiamento. In politica però non conta solo il «quanto», cioè il saldo del voto finale, ma anche il come, vale a dire il percorso, le alleanze, il consenso che si sa costruire.
QUI si porterà a casa la legge, dissipando però il patrimonio accumulato col metodo seguito per l’elezione di Mattarella, che ha fatto per un breve momento del Pd non solo il partito di maggioranza relativa, ma la spina dorsale del sistema politico e istituzionale. Tutto gettato al vento, perché la minoranza continua a considerare Renzi abusivo (mentre ha vinto legittimamente le ultime primarie, così come aveva perso le precedenti) e perché il leader preferisce comandare il suo partito piuttosto che rappresentarlo nel suo insieme.
Così non si va lontano, prigionieri di due mentalità minoritarie. Ma come leader e premier, Renzi ha oggi una responsabilità in più. Può avere i numeri: ma dovrà capire che senza il Pd nel suo insieme, il governo è nudo di fronte a se stesso, perché i partiti sono cultura, valori, storia e tradizione: quel che fa muovere le bandiere. A patto di non usarli come un tram.