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Nello Ajello
La principessa e i carnefici
17 Luglio 2006
Italiani brava gente
Civiltà di un popolo, l’etiope, massacrato dagli italiani, negli anni del fascismo. Da la Repubblica del 17 luglio 2006

Una cronaca in presa diretta di avvenimenti storici avvolti in un dramma. Lo sfondo è insolito. Il tempo è quel decennio che va dall’ottobre del 1935 - data d’inizio dell’ultima conquista africana dell’Italia, che si concluse l’anno dopo, in maggio, con la proclamazione dell’Impero - alla metà del decennio successivo. Il punto di vista della narrazione è quello dei vinti. Il libro s’intitola Memorie di una principessa etiope (Neri Pozza, pagg. 256, euro 16,50, con prefazione di Angelo Del Boca) e lo firma Martha Nasibù, figlia di un aristocratico etiopico, Nasibù Zamanuel, braccio destro e fedele consigliere dell’imperatore Hailè Sellassiè, ex «degiac», cioè sindaco, di Addis Abeba e, durante la guerra, comandante dell’«armata Sud» del suo paese. Una lettura interessante, come testimonia il fatto che, in breve tempo, quest’autobiografia (che viene oggi presentata a Roma, alle 17,30, nella sala della Protomoteca in Campidoglio) è già arrivata alla seconda edizione.

Nel lungo esordio del suo libro l’autrice, classe 1931, riferisce episodi che non poté vivere in maniera cosciente, perché troppo piccola, e infatti informa il lettore di essersi documentata con l’aiuto di sua madre. Il paesaggio, l’ambiente, i personaggi si sciolgono in una sorta di mimesi dell’infanzia. Ne risulta un quadro estatico, popolato dall’aristocrazia etiopica degli anni Trenta: i palazzi nei quali essa viveva, il sentore di privilegio che ne accompagnava atti, modi, linguaggio, frequentazioni. Di queste realtà, noi italiani non avevamo affatto sentore. Quelli che all’epoca già leggevano qualche giornale, vedevano il Negus effigiato come un vecchietto che avanzava a piedi nudi nel deserto portando per la cavezza un cammello, con un piccolo seguito di diseredati armati tutt’al più di lance. Figure da presepio. Erano queste le immagini che la propaganda fascista riservava al nemico, proprio per rafforzare l’ipotesi che l’Italia fosse accorsa in quelle contrade per liberarle dalla barbarie.

Qui, invece, le figure «di vertice» del mondo etiopico riacquistano l’originaria dignità storica. Le circonda un popolo animato da quella millenaria religiosità copto-ortodossa, che ne fa un’enclave cristiana nel cuore dell’Africa. Gente orgogliosa delle proprie attitudini guerriere, devota all’Imperatore.

Culturalmente progressista all’interno di un mondo feudale, ras Nasibù è insieme il dio e l’eroe di un simile Olimpo. Lo affianca la sua seconda moglie (madre di Martha e dei suoi quattro fratelli): giovane, bella, poliglotta, è la figlia di un aristocratico russo, diventato etiopico per elezione. La sontuosità ariosa del ghebì, cioè della dimora principesca dove Martha è nata e vive, gli ottanta servitori, le istitutrici che addestrano i bambini, i giardini nei quali essi scorrazzano: voci, profumi, cerimonie, giochi, aneddoti, figure statuarie che s’intravedono fra i visitatori del capo-famiglia: ecco gli scorci di questo contesto «prodigioso» (così lo definisce Del Boca). Nel tessuto di quel mondo a noi noto, all’epoca, attraverso un’ottica in buona sostanza denigratoria, s’intrecciano dei fili che fanno capo anche all’Italia e ai suoi remoti deliri imperiali.

A un certo punto, ecco che la fiaba interpretata dalla piccola Martha si tramuta in elegia. È scoppiata la guerra, uno dei più tremendi conflitti coloniali del secolo. Il generale Nasibù è un pilastro nella difesa dell’Impero. Difesa resa vana dalla disparità delle forze in campo oltre che dall’impiego di strumenti di guerra, come i gas, che le convenzioni internazionali proibiscono. L’Etiopia è sola. L’Europa le volta le spalle. Le sanzioni contro l’Italia, decretate dalla Società delle Nazioni, sono una farsa. I familiari del ras, moglie e cinque figli, si rifugiano in una piantagione di proprietà del nonno russo-etiope, e lì arrivano dal capofamiglia notizie frammentarie. Echi d’un eroismo vano. Da ultimo, giungono le voci che parlano di un’Addis Abeba nella quale i «ferenj» - cioè gli stranieri bianchi - marciano al seguito del loro condottiero Pietro Badoglio «con enormi scarponi chiodati ai piedi, facendo un grande rumore, cantando a squarciagola inni di vittoria e urlando: Duce! Duce!».

I ghebì del Negus e quello del suo braccio destro vengono assaliti e saccheggiati. Le strade si colmano di cadaveri. Il papà dell’autrice, costretto alla ritirata, ripara in Europa insieme all’Imperatore, di cui fiancheggia gli ultimi tentativi per alleviare i tormenti inflitti al suo popolo; poi muore a Davos, in Svizzera, a quarantadue anni, per i postumi dell’aggressione chimica dei gas. Un figlio che egli ha avuto dal primo matrimonio, Keflè Nasibù, cadetto della scuola militare di Olettà, è stato fucilato per ordine del generale Rodolfo Graziani.

Si apre per Martha e per i suoi un lungo periodo di esilio. Trasferimenti insensati, in Italia e fuori, che obbediscono a volte a logiche interne al regime fascista, per il quale la famiglia del capo etiopico rappresenta un nemico, benché sconfitto, da tenere a bada e dal quale (assurdamente) si può temere qualche iniziativa di rivincita. Prima un soggiorno a Napoli, dove Martha, fra i suoi compagni di giochi nella villa Comunale accanto al mare, conosce Francesco Tortora Brayda, che sarà assai più tardi suo marito. Poi trasferte a Rodi, per due volte a Tripoli dove la famiglia scampa alla morte in una delle periodiche «punizioni dei vinti», predisposte da Graziani. E ancora Napoli, Firenze, le Dolomiti. Non si contano le peripezie affrontate dai familiari di quel Ras che era stato potente.

Con l’ingresso dell’Italia nella seconda guerra mondiale, nel giugno del ‘40, il destino di questi aristocratici africani è di nuovo stravolto. Si vedono coinvolti in eventi bellici che non dovrebbero riguardarli. Ma nel maggio del ‘41, il Negus Hailé Selassié ritorna sul trono, recuperando il titolo d’Imperatore che gli era stato sottratto e che il fascismo aveva regalato a re Vittorio Emanuele III. Ecco che allora lo «stato civile» dei Nasibù diventa surreale. In quanto cittadini d’un paese tornato sovrano, non possono più considerarsi prigionieri della potenza ex-occupante. Restano esuli, ma perché? Lucrano un magro sussidio, che l’intervento di qualche amico italiano vale un po’ a rimpolpare. Così vanno avanti.

Ben presto è di scena la disfatta dell’Italia. Percosse dai bombardamenti anglo-americani, le città si sfollano. Piccoli villaggi si gremiscono di profughi: gli «sfollati», appunto. La penisola è percorsa da eserciti stranieri che vi si combattono fra mille atrocità. Una potenza che s’era dipinta come imperiale assume i colori patetici della sconfitta. Il razzismo - che pure, a tratti, durante l’esilio, ha angustiato l’autrice e i suoi familiari, ma che sempre è stato attraversato da oasi di tolleranza - si attenua. La razza dominante, se pure c’è, non è ormai più quella italiana.

La famiglia Nasibù torna in Addis Abeba. Ma la diaspora è cosa compiuta per sempre. Martha sposa prima un funzionario del ministero degli esteri etiopico, Immirù Zelleke, parente dell’Imperatore, e si stabilisce successivamente in vari paesi d’Europa. Poi, nel ‘64, si unisce in matrimonio (come abbiamo visto) con il marchese Francesco Tortora Brayda di Belvedere, «quel bambino», sono sue parole, «con cui avevo giocato nel parco della villa comunale di Napoli» e con il quale «ci eravamo incontrati per caso durante una mia permanenza a Zurigo».

Questa, però, è un’altra storia, che si prolunga nell’oggi. Lontana dagli splendori, dai bagliori e dalle ingiustizie d’un secolo terribile.

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