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Sergio Bologna
La precarietà è il problema centrale, se l’Italia non lo capisce è finita
10 Febbraio 2007
Articoli del 2006
Il nostro futuro sarà “Vestire dei tessuti più raffinati i lardosi corpi di tycoons e mafiosi, ingioiellare le sudaticce membra delle loro amanti”?. Il manifesto, 24 marzo 2006 (f.b.)

La Francia, ancora una volta, ha rimesso le cose al loro posto. I suoi giovani hanno gridato la domanda che inchioda l’intera Europa: «Come faremo a campare domani?». Hanno spazzato via i falsi problemi, i falsi obbiettivi, gli inutili discorsi con i quali i loro coetanei italiani sono stati ridotti a uno stato semiconfusionale.

Tre sole cifre per descrivere la situazione italiana. Siamo l’unico paese della Ue dove i salari di fatto sono rimasti fermi da più di dieci anni a questa parte, quello dove le disuguaglianze di reddito tra diverse categorie di cittadini sono più accentuate, siamo l’unico paese della Ue dove la produttività del lavoro è diminuita (nell’era dell’informatica!!!!). Com’è stato possibile? Vogliamo cavarcela dando ancora la colpa a Berlusconi? Vogliamo continuare con questa ossessione del Cavaliere, con questa fissazione che ha reso gli elettori di Sinistra una massa di gattini ciechi?

E. stato possibile dal modo in cui sono state poste le fondamenta della Seconda Repubblica, le architravi che ne reggono l’impalcatura istituzionale. Una di queste è l’accordo sul costo del lavoro del 1993. Così lo ha definito Cipolletta, allora Direttore Generale di Confindustria: «Non ho difficoltà ad ammettere che il vantaggio maggiore di quell’accordo fu per le imprese. Il blocco dei salari, unito alla svalutazione della lira che si ebbe successivamente, consentì alle aziende un recupero di competitività gigantesco».

Non condanniamo il sindacato per quell’accordo, ma avremo o no il diritto di trarne un bilancio, tredici anni dopo? Il sindacato volle mostrare allora senso di responsabilità e firmò un patto implicito: noi fermiamo i salari e voi, imprenditori, rafforzate e consolidate le imprese, investite in innovazione, fate un salto di qualità. E. accaduto il contrario. I salari sono rimasti fermi, le grandi imprese si sono rarefatte, è iniziato un processo di sgretolamento, di frammentazione, le imprese sono diventate sempre più piccole, prive di risorse per innovare, investire in ricerca. E. cresciuta a dismisura la finanziarizzazione, oggi l’Italia è in mano ai riders della finanza, agli immobiliaristi e ai monopolisti privati delle utilities pubbliche (v. autostrade). Accumulano rendite da capogiro. Il patto implicito contenuto nell’accordo del 1993 è stato rispettato solo da una controparte.

Ma non è in termini economici che il mancato rispetto di quel compromesso sociale ha prodotto i danni più gravi: è invece in termini di cultura d’impresa, anzi, di civiltà. L’Italia è diventata un paese nel quale il lavoro è considerato un costo, non una risorsa. Ed è qui che inizia il dramma dei giovani che si affacciano al mondo del lavoro. Possono essere carichi di lauree e master, saranno considerati un puro costo e accettati solo in base alla disponibilità a ridurlo. Perché queste considerazioni «impolitiche »? Perché troppi sono coloro oggi che invocano una riduzione dei salari ed un allungamento degli orari, troppi sono coloro che parlano di «riforme» fondate su un nuovo «compromesso sociale ».Ma chi può oggi sottoscrivere un nuovo patto, quando il primo è stato cos ì vergognosamente violato? Se le imprese non hanno investito in innovazione e consolidamento dieci anni fa, che la congiuntura era favorevole, come si può pensare che lo facciano adesso, messe alle corde da concorrenti ben più temibili e da un prezzo del petrolio che punta verso i 100 dollari al barile? Come possono investire in innovazione le microimprese, le sole che trainano l’occupazione? Può bastare una fattura non pagata per mandarle in rovina.

Ascoltiamo come ragionano, quelle considerate di maggior successo, quelle del settore moda, tessile-abbigliamento, 43 miliardi di euro di fatturato, punto di forza della nostra economia, punta più alta della nostra «creatività». «La mission è e sarà quella di vestire con prodotti di eccellenza "i nuovi ricchi del mondo"... nazioni in cui il Pil aumenta oltre il 3% all’anno, quali la Russia, i paesi Peco, la Cina» - parole del Presidente della Camera della Moda Italiana, qualche mese fa a Milano. Vestire dei tessuti più raffinati i lardosi corpi di tycoons e mafiosi, ingioiellare le sudaticce membra delle loro amanti - a quest’alta missione giovani «creativi» italiani siete chiamati!

Dieci anni di lotte operaie, macchiati di agguati e azioni sanguinose delle Brigate Rosse, di Prima Linea ed altri gruppi armati, hanno tormentato la Fiat dall’estate 1969 all’ottobre 1980. Ne è uscita più forte di prima, agli inizi degli Anni 80 nell’auto era all’avanguardia nel mondo per la robotica e l’automazione. Seguirono 22 anni di pace sociale, 22 anni di un potere incontrastato. Ne è uscita sull’orlo del fallimento. I politologi dovrebbero spiegare una dinamica unica nella storia.

Per dire che l’Italia ha iniziato il suo declino quando il conflitto sociale è scomparso, quando le generazioni hanno perduto il gusto ed il senso di «farsi sentire». Quando il lavoro ha perso il suo prestigio sociale è iniziato il declino della nostra industria. Quando la Sinistra ha messo il tema «lavoro» nel cassetto, rinunciando a seguirne le rapidissime e profonde mutazioni, ed è rimasta incollata a una visione Anni 60, i giovani hanno smarrito l’orientamento essenziale della loro cittadinanza. Sono rimaste in piedi, a difendere i loro privilegi, piccole corporazioni prepotenti.

Se nessuno raccoglierà il messaggio francese, per questo Paese non ci sarà futuro. Con o senza Berlusconi.

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