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Marco Montelisciani
La posta in gioco del Referendum e il NO della Sinistra
14 Ottobre 2016
Difendere la Costituzione
«Dal Referendum del 4 dicembre dipende anche il destino della prima parte della Carta. Compito della sinistra è spiegarlo al Paese e preparare una strategia per rivitalizzare la Democrazia italiana».

«Dal Referendum del 4 dicembre dipende anche il destino della prima parte della Carta. Compito della sinistra è spiegarlo al Paese e preparare una strategia per rivitalizzare la Democrazia italiana».

centroriformastato online, 13 ottobre 2016 (c.m.c.)

Ci sono senz’altro molte e diverse ragioni per votare NO al Referendum del 4 dicembre. Non solo ragioni di sinistra, fortunatamente, ché altrimenti vincere il referendum sarebbe quasi impossibile. Compito di ciò che resta della sinistra politica italiana, però, se vuole fare dell’auspicata vittoria nei NO anche un momento ricostituente per sé e per le Istituzioni democratiche, è quello di spiegare al Paese e a quello che dovrebbe essere il proprio blocco sociale le ragioni specifiche del suo NO.

Ragioni che, perché sia efficace il contributo della sinistra alla campagna referendaria, devono necessariamente accompagnare quelle più “tecniche” e trasversali sulle tante disfunzionalità e illogicità presenti nel testo della contro-riforma Renzi-Alfano-Verdini.

Proviamo a dirla nella maniera più esplicita: il Referendum del 4 dicembre sulla modifica della seconda parte della Costituzione proposta dal Governo è in realtà un Referendum sul destino della prima parte della Carta, quella dei principi fondamentali (art. 1-12) e quella dei diritti e doveri dei cittadini (art. 13-54).

Questi infatti si leggono e si reggono solo in relazione all’assetto istituzionale e all’equilibrio tra i poteri disegnato nella seconda parte. La parte programmatica della Costituzione del ’48 indica un solco in base al quale orientare l’azione dello Stato le politiche dei Governi: un solco che parla di progressivo ampliamento della platea di accesso a risorse, diritti e potere. In sostanza: più uguaglianza, più libertà, più democrazia.

Nella prima fase della storia repubblicana dell’Italia (’48-’92) ciò si è per lo più verificato. Progressivamente, attraverso politiche di governo e atti riformatori, si andava realizzando ciò che comandava lo Spirito della Costituzione: dalla scuola media unificata all’istituzione del Servizio Sanitario Nazionale, dallo Statuto dei Lavoratori al regionalismo, dalla riforma del Diritto di Famiglia alla legge sul divorzio.

Non è vero, come dice certa propaganda, che non si facevano “le riforme”; si facevano certe riforme, che tendevano a rafforzare uguaglianza, diritti e democrazia. La contrapposizione politica e sociale, certamente tra alti e bassi e comunque passando per momenti conflittuali, portava a un graduale avanzamento delle condizioni di vita per i lavoratori, per le donne, per i giovani, per i più deboli. Esattamente come prescrive la prima parte della Costituzione.

La possibilità che questo avvenisse era data dal fatto che gli equilibri politici che avevano prodotto la Costituzione e l’assetto istituzionale che questa aveva definito erano tali da consentire che il punto di vista di grandi masse popolari risiedesse, con tutta la sua benefica vitalità, nel cuore delle Istituzioni grazie a un dispositivo incentrato su tre pilastri strettamente connessi tra loro che si alimentavano vicendevolmente: centralità del Parlamento, sistema elettorale proporzionale, protagonismo dei partiti di massa.

Quando la tendenza si invertì e si imposero le spinte restauratrici del neoliberalismo, che muovevano dalle classi dirigenti conservatrici sul piano internazionale e nazionale, iniziando ad allontanare l’orientamento dello Stato e delle politiche dei Governi dal solco della Costituzione, quando cioè si sono cominciati a restringere diritti e tutele per allargare gli spazi a disposizione degli spiriti animali del mercato, quando si è ricominciato a favorire privilegi e disuguaglianza, il processo fu innanzitutto segnato dall’attacco a quel dispositivo politico-istituzionale che garantiva la possibilità per le masse di essere realmente rappresentate nei luoghi del potere e così di poter incidere direttamente sulle scelte politiche: i partiti di massa sostituiti da partiti personali e dai partiti-azienda; il sistema proporzionale sostituito da distorsivi maggioritari sempre più lesivi del principio di rappresentatività.

A più riprese vennero messi in campo anche tentativi di contro-riformare la stessa Costituzione al fine di colpire la residua centralità del Parlamento, ultimo fondamentale pilastro del sistema voluto dai Costituenti.

La Costituzione del ’48 seppe resistere, sia in ragione di fattori legati alla contingenza politica sia perché in una parte larga del popolo italiano restava traccia di quel patriottismo costituzionale che per lungo tempo aveva accomunato le culture cristiano-democratiche, liberal-progressiste e social-comuniste.

Non è un caso che oggi il più violento e spregiudicato tentativo di manomettere l’assetto istituzionale fondato sulla centralità del Parlamento venga portato avanti a partire da un luogo -il principale Partito che si proclama erede di quelle tradizioni politiche- da cui è più facile dividere quello che è stato negli ultimi decenni lo “zoccolo duro” dell’ampio fronte sociale, politico e culturale che si è posto a guardia della Costituzione del ’48.

Questo è il senso più profondo della contro-riforma Renzi-Alfano-Verdini: completare l’opera, iniziata ufficialmente in Italia al principio degli anni ’90, di espulsione delle masse dai luoghi della decisione politica, dal cuore delle Istituzioni democratiche. Anche nella confusione del dibattito, infatti, appaiono chiari i tratti caratterizzanti dell’operazione che si sta tentando: compressione degli spazi di partecipazione e rappresentanza dei cittadini; verticalizzazione e accentramento del potere.

Tutto perfettamente coerente con quella tradizione del pensiero elitista e conservatore delle classi agiate che già negli anni ’70 parlava di un “eccesso di democrazia” e che da ultimo trova espressione dell’ormai famoso documento della JP Morgan sulle Costituzioni europee, oltre che nelle prese di posizione in favore del SI’ di importanti attori finanziari e grandi industriali.

Votare NO il 4 dicembre può e deve essere innanzitutto il nostro modo per respingere, come cittadini appartenenti a una comunità nazionale legati alla parte migliore della sua storia e come militanti di una parte che di quella storia è stata e può tornare protagonista, il tentativo finale di chiudere definitivamente i conti con il processo di avanzamento e progresso sociale avviato dalla Liberazione, dall’approvazione della Costituzione del ’48 e dal dispiegamento concreto di quell’idea alta che chiamavamo democrazia progressiva; chiudere i conti con la storia che le masse popolari organizzate dai partiti e dai movimenti socialisti, comunisti e cattolici hanno animato nel corso del Novecento.

Da questo punto di vista, la vittoria del NO può fare del Referendum un punto di svolta che sul fronte italiano inverte l’inerzia della guerra aperta contro il lavoro e la democrazia dalla contro-rivoluzione neoliberale. Ma, dopo aver respinto l’attacco, occorrerà far partire la controffensiva: imbracciando la bandiera del lavoro organizzato e della democrazia sostanziale, puntando come primo grande obiettivo strategico a fare di nuovo delle Istituzioni democratiche dei luoghi vivi, nei quali risuonino i battiti di una società quanto mai inquieta e sofferente.

Dopo la necessaria vittoria del NO, sulla quale siamo tutti chiamati a lavorare fino al momento in cui verrà chiuso l’ultimo seggio elettorale d’Italia, bisognerà avviare una battaglia strategica volta all’approvazione di una legge elettorale proporzionale che consenta alle forze politiche di ogni orientamento lo sforzo di ricostruirsi come partiti, cioè come organizzazioni rappresentative degli interessi, delle aspirazioni e delle istanze plurali di soggetti sociali reali. Partiti in grado di stare nella società e nelle Istituzioni, di organizzare il conflitto e praticare la mediazione.

Ciò che serve alla sinistra da qui al 4 dicembre è una strategia per il dopo. Proprio sulla capacità dei gruppi dirigenti e dei militanti della sinistra di mettere in campo -dentro e oltre la campagna referendaria- una strategia all’altezza delle sfide che abbiamo di fronte, si misureranno le possibilità di esistenza di una forza della sinistra in grado di essere utile al suo blocco sociale, alla rivitalizzazione della democrazia italiana e alla sua possibile riforma in senso progressivo.

Una strategia insieme realista e radicale, che guardi alle condizioni materiali del Paese e dei suoi ceti subalterni, alle tendenze di fase del sistema e allo stato di salute della democrazia in Italia e in Occidente. Senza lasciarsi ingabbiare né dalle logiche stanche del tatticismo politicista né dal ricatto delle compatibilità di sistema.

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