Giulia Turri, Carmen D'Elia, Orsolina De Cristofaro: ancora tre donne, le tre componenti del collegio che si appresta a giudicarlo, sul viale del tramonto di Silvio Berlusconi. Se non è una nemesi, come scrive Famiglia Cristiana, di sicuro non è un caso. Questi tre nomi non allungano solo l'elenco di giudici e magistrate - Cristina Di Censo, Ilda Boccassini, Anna Maria Fiorillo, Nicoletta Gandus - che a vario titolo hanno avuto a che fare con le vicende giudiziarie del premier; si aggiungono altresì alla lunga sequenza di donne, eccellenti e comuni, famose e sconosciute, nemiche e amiche del Sultano che ne hanno decretato e scritto la fine. Provocando il crollo non della sua immagine, come dice a Oggi Massimo D'Alema, ma del suo populismo seduttivo, incardinato sulla sua certezza di essere, nel rapporto con l'altra metà del cielo e della terra, irresistibile e invincibile. Non è un caso, ed è, lo diciamo per i dirigenti del centrosinistra che ci sono arrivati con un paio d'anni di ritardo e solo di fronte all'evidenza di una piazza, un caso politico.
Due anni di ritardo non sono pochi: decidono la piega di una vicenda. All'ombra della sua riduzione a episodio minore, materia privata e non politica, questione di cui dall'opposizione era meglio tacere che parlare, il cosiddetto sexgate è diventato caso penale. Certezza di prove, rito immediato, un capo di governo in giudizio per un odioso reato sessuale, delizia per l'informazione planetaria. La democrazia italiana precipitata di nuovo nello scontro fra poteri dello Stato, le fanfare berlusconiane di nuovo a intonare il mantra della persecuzione giudiziaria e a invocare il potere dell'Eletto contro l'arbitrio delle procure. La storia della seconda Repubblica finita nello stesso imbuto da cui - a parti diverse: il Cavaliere allora cavalcava Mani pulite - era cominciata.
Tocca dunque di nuovo ribadire. Non c'è nessuna persecuzione giudiziaria. Non c'è possibilità, in una democrazia costituzionale, di usare il principio di legittimità contro il controllo di legalità. Non c'è unto dal popolo che possa governare a prescindere o contro la legge. Non c'è presidente del consiglio che possa prendere a calci la magistratura. Berlusconi dunque vada in processo o si dimetta, meglio ancora: si dimetta e vada in processo. Terza via non si dà, che non sia o la catastrofe costituzionale, o lo stillicidio dell'arroccamento su una maggioranza di parlamentari schiavizzati dal sultano e dipendenti dalle mosse di Ghedini.
Però. Non è una bella giornata per la politica quella in cui un rito immediato decide le sorti di un ventennio. Adesso il Pd chiede dimissioni ed elezioni: è giusto; è obbligatorio; è tardi. Nel Berlusconi-gate tutto era lampante fin dall'inizio, anche senza la prova del reato. Sarebbe bastato, nell'ormai lontana primavera del 2009, prendere sul serio la parola di alcune donne (e le scoperte di molta informazione). Farne un caso politico, senza aspettare che diventasse un caso penale. Combattere sul fronte del consenso, senza aspettare il permesso dei sondaggi o delle sante alleanze. Non da oggi, non è la magistratura che esorbita: è la politica che manca.
Già nel 1994 Berlusconi era ineleggibile, perchè concessionario dello Stato, secono una legge vigente. Fu salvato con un "cavillo", con una serie di decisionisostanzialmente bipartisan. Vedi i dettagli nel libro di Paolo Sylos Labini, Berlusconi e gli anticorpi. Diario di un cittadino indignato, Editori Laterza, 2003, p. 46 e segg