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Maria Cristina Roberto; Gibelli Camagni
La pianificazione strategica in Italia: i rischi di un modello neo-corporativo
15 Luglio 2005
Recensioni e segnalazioni
Uno strumento potenzialmente innovativo può dar luogo a interpretazioni e pratiche elitiste e neocorporative che vanno in senso totalmente contrario alle esigenze del territorio e alla quasi totalità delle attuali pratiche internazionali. Il caso milanese ne è un esempio chiaro. Da Sviluppo & Organizzazione n. 208, marzo/aprile 2005

E’ possibile, e forse utile, tentare una iniziale valutazione critica del nuovo strumento della pianificazione strategica (PS) alla luce delle esperienze che si sono recentissimamente avviate nel nostro paese, anche al fine di porre qualche limite a una tendenza a moltiplicarne interpretazioni e significati. In particolare, sembra importante evidenziare, sulla base delle caratteristiche specifiche del modello emergente nelle migliori pratiche internazionali (più volte commentate in questa rubrica), i limiti di esperienze solo parziali o, peggio, dei tentativi di contrabbandare pratiche tradizionali per innovative.

E’ ben vero che il modello emergente in ambito internazionale, di tipo interattivo e partecipativo, è per molti versi un modello ideale, non pienamente realizzato in nessuno dei casi empirici recenti: ma altro è tendere a realizzare un obiettivo avanzato, sia pure per tentativi ed errori e scontandone molte difficoltà, altro è rinunciarvi fin dall’inizio del processo di pianificazione per perseguire obiettivi parziali che possono snaturare il contenuto innovativo, tecnico-organizzativo e di policy, del nuovo strumento.

Non vogliamo certo qui restringere i contenuti, gli stili, gli obiettivi anche politici (oltre che di politica urbana) della PS attraverso la proposizione di una visione personale e soggettiva; ma proprio perché quello che abbiamo chiamato il “modello emergente” è in realtà un meta-modello, un percorso e un metodo che deve trovare la sua realizzazione in coerenza con le specificità delle strutture e delle problematiche territoriali, piuttosto che uno strumento pronto all’uso e standardizzato, questo rischio pare comunque del tutto remoto. E’ tuttavia importante sottolineare il fatto che lo strumento, divenuto subitaneamente di moda nel nostro paese, vada salvaguardato da troppo ampie definizioni che finiscono per ricomprendere esperienze, obiettivi e pratiche che, pure del tutto legittime, nulla hanno a che vedere con le valenze innovative del nuovo metodo e che rischiano di banalizzarne, oltre che l’immagine, anche le potenzialità che incorpora.

Nel dibattito culturale italiano su significato e compiti della PS (e in alcune ricadute operative a livello locale) si è invece proposta recentemente anche una concezione, o definizione (che riteniamo non soltanto inadeguata, ma anche rischiosa) che vede la PS come “un’azione politico-tecnica volontaria rivolta alla costruzione di una coalizione intorno ad alcune linee strategiche condivise (la strategia)” (Mazza, 2000: 28). L’assunto alla base di questa concezione, e cioè la necessità per qualunque processo di PS che si manifesti una leadership (in genere politica) e un consenso stabile fra attori, appare corretto e legittimo. Ciò che qui si vuole porre in dubbio, e che non sembra accettabile in una visione moderna delle politiche urbane, è la visione elitaria secondo la quale ciò “implica l’esistenza di una classe dirigente all’interno della quale un gruppo costruisce una comunanza di interessi e di programmi” (ibid.: pag. 29, corsivo nostro).

Il rischio implicito di un tale modello è manifestamente quello di approdare a una concezione neo-corporativa delle politiche pubbliche urbane; un rischio tanto più grave in un contesto politico e culturale come quello attuale, in cui le capacità di controllo del “bene comune” da parte delle pubbliche amministrazioni sono state ampiamente limitate, almeno nel nostro paese, da riforme e da pratiche urbanistiche che, nell’introdurre elementi di flessibilità necessari e altrettanto necessarie aperture al mercato, hanno nel contempo spesso delegittimato o indebolito l’azione pubblica.

Non vi è dubbio che la formazione di coalizioni è sempre avvenuta: essa è dunque lecita e addirittura vantaggiosa in un processo di PS, e trova i suoi esiti progettuali e realizzativi nelle diverse forme di partenariato pubblico-privato che vengono facilitate istituzionalmente nel processo di PS stesso. Ma ancora una volta l’elemento caratterizzante non è questo (o non è più questo, come lo è stato invece nella stagione delle prime esperienze internazionali degli anni ’80 e dei primi anni ’90), bensì il sistema di garanzie, di trasparenze, di pubblicità e di valutazione che la “terza generazione” di piani, partecipativi e “inclusivi” nella accezione data da Patsy Healey, intende (o almeno tenta di) costruire. Operazione difficile certo, ma irrinunciabile, che non autorizza scorciatoie che per voler essere realistiche appaiono solo opportunistiche.

Promuovere un processo di informazione e discussione pubblica, quanto più aperto possibile, anche se necessariamente strutturato e organizzato; affidarsi a pratiche argomentative e comunicative anziché discrezionali o puramente lobbystiche; dare ascolto alle aspirazioni ed alle aspettative che emergono dalla cittadinanza attraverso inchieste, questionari e procedure formalizzate di consultazione; imporre trasparenza e pubblicità alle negoziazioni fra pubblico e privato e alle valutazioni dei vantaggi collettivi di progetti privati; e soprattutto inquadrare il processo negoziale all’interno di regole definite ex-ante e non soggette esse stesse a negoziazione[1]: tutto questo costituisce l’elemento caratterizzante dell’approccio attuale alla PS nelle migliori pratiche e teorizzazioni internazionali (Gibelli, 2003).

Il percorso, come si diceva, può essere assai lento e tormentato, soprattutto in Italia dove non esiste una tradizione consolidata di partecipazione e di vera trasparenza nelle politiche urbanistiche. E anche nelle migliori esperienze straniere non tutti gli elementi citati in precedenza appaiono pienamente realizzati. E’ esemplare a questo proposito il caso del Grand Lyon (il governo metropolitano di Lione) (S&O, 179/2000) in cui, dopo tre piani strategici, si è sentita la necessità di formalizzare i processi di coinvolgimento civico, con l’approvazione nel luglio 2003 di una “Charte de la participation” che statuisce le procedure cui dovranno attenersi tutte le attività di pianificazione e trasformazione fisica del territorio lionese (dai piani di inquadramento strategico/SCOT, ai piani urbanistici comunali/PLU, ai piani di settore, ai grandi progetti, alle scelte in merito ai servizi di prossimità).

Inoltre, occorre mettere nel conto una minore celerità decisionale nel caso che i processi partecipativi (e non solo i progetti partenariali che coinvolgono gli interessi forti) siano effettivamente messi in opera. Ne è un caso esemplare la vicenda recentissima di un grande progetto urbano proposto da Siemens per Monaco di Baviera: un progetto con evidenti vantaggi collettivi che è stato bloccato e sottoposto a referendum da parte del sindaco a fronte di resistenze espresse dai cittadini a concedere all’impresa proponente di superare in un edificio l’altezza massima tradizionalmente imposta in città.

Per le ragioni esposte, riteniamo di dover confermare una definizione ampia e forse didascalica di PS, che tuttavia ne restituisce gli elementi caratterizzanti e realmente innovativi: essa può essere definita come la costruzione collettiva di una visione condivisa del futuro di un dato territorio, attraverso processi di partecipazione, discussione, ascolto; un patto fra amministratori, attori, cittadini e partner diversi per realizzare tale visione attraverso una strategia e una serie conseguente di progetti interconnessi, giustificati, valutati e condivisi; e infine come il coordinamento delle inderogabili assunzioni di responsabilità dei differenti attori nella realizzazione di tali progetti.

La differenza fra questo modello e quello neo-corporativo è chiara, e implicitamente o esplicitamente evocata dalla stessa Commissione Europea nei suoi interventi sulle politiche territoriali e urbane. Da una parte viene evidenziata sempre più la necessità e l’obiettivo preciso di procedere in direzione di una più compiuta democrazia, iniziando dall’ambito in cui più direttamente i cittadini vengono a contatto con le scelte che li riguardano, e cioè l’ambito delle politiche urbane e territoriali. Questa necessità era già esplicitata nel Quadro d’azione per lo sviluppo urbano sostenibile del 1998 e nel successivo Libro Bianco sulla Governance, e viene confermata nel Terzo Rapporto sulla Coesione del febbraio 2004. Ma, soprattutto, la Commissione è intervenuta a bloccare alcuni grandi progetti urbani, realizzati attraverso negoziazioni locali, per mancanza di trasparenza e di vera apertura competitiva.

Come si vede, siamo ben lontani dalla concezione elitista, che affida il successo del piano a “un gruppo non molto numeroso e potente di scommettitori” attorno ai quali si costruisce “una coalizione” (Mazza, ibidem).

Quest’ultima concezione, oltre ad essere ormai inadeguata, apre inoltre la strada a esiti che facilmente possono ridursi al puro aspetto dello sviluppo immobiliare; esiti peraltro non esclusi, ma anzi talora esplicitamente invocati, in quanto più agevolmente percorribili e validi per coagulare processi cooperativi e coalizioni altrimenti giudicate improbabili (Mazza, 1996: 180). Non vi è niente di immorale nella costituzione di tali coalizioni a carattere immobiliare (a patto che non si risolvano, come in passato, in pratiche oligopolistiche di spartizione dei mercati edilizi locali), né tanto meno nell’utilizzo di strategie immobiliari da parte di imprese industriali in via di delocalizzazione dai centri urbani al fine di realizzare risorse patrimoniali altrimenti sottoutilizzate; ma la garanzia dell’interesse pubblico in questi processi non è intrinseco ai processi stessi, ma al metodo di controllo e di orientamento degli esiti per la città.

E’ preoccupante dover verificare ex-post quanto da queste premesse sia potuta sortire la deriva puramente immobiliare e la modestia dei progetti effettivamente realizzati nel caso del Documento di Inquadramento del Comune di Milano del 2000, un documento che, da parte di uno degli estensori, viene assegnato, per “la generalità degli obiettivi e la mancanza di valore giuridico, (…) alla tipologia dei piani strategici” (Mazza, 2000: 27).

Alla distinzione fra approccio elitista e approccio inclusivo può essere associata quella, più orientata agli obiettivi, fra approcci che privilegiano le economicità e le convenienze (private) di breve periodo e approcci che privilegiano le economicità e i vantaggi (collettivi) di lungo periodo. Se è vero che associare il privato alle azioni pubbliche significa per ciò stesso riconoscere l’utilità, e la necessaria garanzia, di una profittabilità privata, quest’ultima deve essere comunque responsabilmente inquadrata in azioni e strategie che garantiscano vantaggi di lungo periodo alla città intera. Il termine di sviluppo sostenibile, anche se inflazionato e svuotato in parte di contenuto operativo e politico, ci può aiutare in questo ambito, proprio perché pone l’accento non solo sui risultati ma anche sui modi dell’azione. E’ stato detto che “è probabilmente al livello dello spazio urbano che l’approccio dello sviluppo sostenibile mostra il suo senso più immediato”, proprio in quanto esprime “l’aspirazione a una democrazia più completa, orientata a coinvolgere fortemente gli abitanti, l’insieme degli attori locali e le imprese, per fare del territorio comune un luogo di progetto condiviso e non più uno spazio subìto” (Prager, 2004: 19).

La PS deve dunque porsi come obiettivo di sperimentare nuove forme di protagonismo e di cittadinanza attiva dei soggetti: essa è infatti essenzialmente azione collettiva, discussione e ascolto, messa in rete ed interazione; essa individua come condizioni facilitatrici la presenza di attitudini alla cooperazione e al partenariato, la presenza di capitale sociale, di “capitale relazionale”.

Giustamente Crosta ha rilevato, parlando delle modalità con cui il consenso viene costruito e raggiunto, di consenso talvolta opportunista, di consenso puro da comunanza di interessi, ma anche, più importante di tutti, di consenso di natura interattiva che si costruisce nel corso del processo di piano, come sottoprodotto dello stesso, attraverso le pratiche argomentative e i dibattiti pubblici, che conducono alla ridefinizione dei punti di vista e degli interessi degli attori, alla costruzione di soluzioni di compromesso, alla saldatura di nuove alleanze (Crosta, 2004: 19).

La PS costituisce dunque una delle possibili risposte alla riforma della governance urbana, e come tale richiede un lungo processo di cambiamento culturale e politico, di crescita di coscienza civica e di identificazione di nuove forme organizzative e decisionali, in cui il coinvolgimento dei cittadini deve estendersi anche ai temi complessi e alle sfide di lungo periodo, soprattutto su temi di grande sensibilizzazione collettiva quali la sostenibilità e la coesione sociale, poiché esso può portare a nuove idee e nuovi modi di pensare, a una nuova “razionalità comunicativa” fondata su estese pratiche argomentative.

Comune di Milano (2001), Ricostruire la Grande Milano -Documento di Inquadramento delle politiche urbanistiche comunali, Edizioni Il Sole 24 Ore, Milano

Crosta P.L. (2003), “A proposito di approccio strategico: la partecipazione come tecnica di pianificazione o come politica di cittadinanza attiva?”, in Moccia F.D., De Leo D. (a cura di), I nuovi soggetti della pianificazione, Milano, Franco Angeli

Gibelli M. C. (2003), “Flessibilità e regole nella pianificazione strategica: buone pratiche alla prova in ambito internazionale”, in Spaziante A., Pugliese T. (2003) (a cura di), Pianificazione strategica per le città: riflessioni dalle pratiche, Milano, Franco Angeli

Mazza L. (1996), “Difficoltà della pianificazione strategica”, Territorio, 2

Mazza L. (2000), “Strategie e strategie spaziali”, Territorio, 13

Prager J.-C. (2004), “Les élus locaux et le développement économique”, A.A.V.V., Villes et économie, Paris, La Documentation Française

[1] Nel Documento di Inquadramento del Comune di Milano (2001), la più compiuta realizzazione recente del modello elitista, è proprio questa necessità di definizione di alcune regole chiare - di trasformazione urbana, di valutazione di impatto urbanistico e ambientale, e di distribuzione fra pubblico e privato del surplus emergente dai processi di trasformazione – che viene negata e azzerata. Si afferma infatti non solo che “il Documento di Inquadramento in qualche misura espropria (sic!) il piano regolatore dei suoi contenuti strategici” (Presentazione dell’allora Assessore Maurizio Lupi, pag. V), ma anche che “gli investitori hanno la massima libertà di proposta” e “se la proposta è accolta, le regole specifiche del progetto di trasformazione vengono definite contestualmente alla proposta di cambiamento e non preesistono ad essa” (Sintesi di controcopertina, che riprende concetti esposti con ampiezza nel Documento).

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