Il disegno di legge recentemente approvato dalla Camera dei Deputati sul governo del territorio solleva perplessità di diversa natura: si pensi, per limitarsi a pochi esempi, al ruolo dello Stato, al quale addirittura sono riconosciute dall’art. 3, comma 1, funzioni amministrative in materia di “rinnovo urbano”, in palese violazione degli artt. 117 e 118, Cost.; alle modalità di svolgimento delle funzioni amministrative preferibilmente attraverso atti negoziali (art. 5, comma 4); alla sostanziale svalutazione della pianificazione provinciale (art. 6, comma 2, in violazione degli artt. 114, 117 e 118, Cost.). Più in generale, lo schema normativo appare privo di utilità, se si considera che, dall'entrata in vigore del nuovo titolo quinto della Costituzione, ben sei regioni hanno approvato nuove leggi sul governo del territorio (Calabria, Campania, Lombardia, Toscana, Umbria e Veneto). E rispetto a tali normative regionali il disegno di legge non dice alcunché di nuovo (piuttosto sembra limitarsi a recepirne, confusamente e approssimativamente, alcuni contenuti).
Un cenno a parte merita la disciplina della perequazione e della compensazione (art. 9), la quale, lungi dall'essere inutile, pone, se non altro in ragione della sua portata ideologica, rilevanti questioni di democrazia nella gestione del territorio e introduce il “debito edificatorio”, quale nuovo istituto della materia.
1. La perequazione e la compensazione nel disegno di legge
Conviene riassumere il regime giuridico della perequazione e della compensazione, contenuto nell'art. 9 del disegno di legge.
In generale, le disposizioni di cui all'art. 9 – al pari di molte altre contenute nel disegno di legge – si presentano in buona parte misteriose, anche a causa di una formulazione del testo sciatta e priva di rigore. E peraltro si ha l'impressione che sul punto i Deputati abbiano avuto in mente specifiche esperienze di pianificazione perequativa e compensativa, dalle quali hanno voluto estrapolare alcuni principi normativi, da imporre alla legislazione regionale (utile compendio per la lettura del disegno di legge può essere la l.r. Lombardia n. 12 del 2005).
In base al comma 1, il piano urbanistico (il piano strutturale) è attuato con piano operativo o con intervento diretto, sulla base di progetti compatibili con gli obiettivi stabiliti nel piano strutturale.
Il comma 2 dispone che “il piano urbanistico può essere attuato anche con sistemi perequativi e compensativi secondo criteri e modalità stabiliti dalla regioni”. Non è ben chiaro il senso della disposizione e segnatamente in che modo i “sistemi perequativi e compensativi” possano rappresentare uno strumento di attuazione del piano strutturale. Probabilmente, la maldestra formulazione si riferisce a forme di attuazione del piano urbanistico ad opera di coloro che sono titolari dei "diritti edificatori".
La perequazione è intimamente connessa ai “diritti edificatori” che rappresentano, in questa ipotesi normativa, figure assai inquietanti per motivi culturali, oltre che politici. Tali diritti, in base al comma 3, sono attribuiti alle proprietà immobiliari ricadenti in determinati ambiti territoriali, “in percentuale dell’estensione [sic] e o del valore di esse e indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso”. E sul punto non si riscontrano particolari novità rispetto alle norme regionali che si occupano del tema; norme che - in modo non molto diverso dai comparti di cui alla legge del '42 - in genere, ma non sempre, ancorano i meccanismi perequativi ad ambiti territorialmente definiti.
La novità sostanziale è data dalla precisazione posta alla fine del comma 3: detti diritti “sono trasferibili e liberamente commerciabili negli e tra gli ambiti territoriali” (art. 9, comma 3).
La proclamazione della libertà di commercio (cfr. l'art. 11, comma 4, l.r. Lombardia n. 12/05 cit.) vuol dire che la circolazione dei "diritti edificatori" può avvenire senza il consenso della pubblica amministrazione, al contrario di quanto attualmente avviene per i contratti di cessione di volumetrie. Il senso della trasferibilità dei diritti non risulta chiaro, non essendo specificato se la scelta circa la delocalizzazione spetti al titolare ovvero all’amministrazione. Probabilmente, si vuol dire che, attraverso trattative tra il comune e i titolari, si dovrà comunque trovare un accordo per la realizzazione dei diritti anche su area diversa da quella in relazione alla quale sono attribuiti i diritti stessi (ecco una delle implicazioni della preferenza accordata dal disegno di legge alla negoziazione rispetto all'urbanistica imperativa: art. 5, comma 4).
Lo schema di norma non specifica con quale atto (piano strutturale, regolamento urbanistico o piano operativo) si debba procedere alla distribuzione dei "diritti edificatori", rimettendo la decisione alle regioni (e, come noto, le regioni hanno ad oggi adottato discipline assai diversificate per quanto attiene ai compiti e ai contenuti del piano strutturale e di quello operativo).
Sono contemplate anche altre forme di attribuzione di questi diritti. Il comma 4 dell’art. 9, prevede che “anche allo scopo di favorire il rinnovo urbano e la prevenzione di rischi naturali e tecnologici, le regioni possono prevedere incentivi consistenti nella incrementabilità dei diritti edificatori già attribuiti dai piani urbanistici vigenti” (cfr. l'art. 11, comma 5 della l.r. Lombardia n. 12/05 cit.). A prescindere dalle ulteriori implicazioni che la norma può avere (ad esempio sulla natura non più ricognitiva delle prescrizioni territoriali a tutela del suolo o della incolumità pubblica), essa vuol dire che il comune può attribuire, per le finalità più varie (stabilite dalla legge regionale), una quantità maggiore di "diritti edificatori" rispetto a quanto stabilito in sede di pianificazione (con tutto quanto ne segue in termini di mancanza di valutazioni complessive).
Previsione sostanzialmente analoga, da questo punto di vista, è contenuta nel comma 5: il comune invece che indennizzare in forma monetaria un vincolo preordinato all’esproprio, può riconoscere al proprietario il diritto a una certa volumetria d realizzare altrove, anche su aree comunali. Questa è la cosiddetta compensazione.
2. I "diritti edificatori"
Effettuata questa sintesi della disciplina della perequazione e della compensazione, si può passare al punto centrale della materia: cosa sono, dal punto di vista giuridico, i "diritti edificatori"?
In via di prima approssimazione, si può affermare che essi si riferiscono a una certa volumetria, come detto, determinata in sede di pianificazione (strutturale od operativa), che il titolare ha il diritto di realizzare. Questa descrizione non esaurisce però l'argomento.
Come anticipato, è previsto che questi diritti (e dunque la volumetria cui essi si riferiscono) siano trasferibili e liberamente commerciabili "negli e tra gli ambiti territoriali": costituiscono dunque autonomi beni giuridici, in quanto tali, idonei a essere oggetto di contratti; beni giuridici che, attribuiti dal comune in ragione del diritto di proprietà su un immobile e delle sue caratteristiche (estensione e valore), possono però vivere e circolare separatamente dal bene in relazione al quale sono stati attribuiti.
Ma se il "diritto edificatorio" può esistere a prescindere dalla relazione del titolare con un bene immobile, non può essere qualificato come diritto reale (es. il diritto di proprietà, di enfiteusi su un bene immobile), né come facoltà di un diritto reale (quale era secondo alcuni lo jus aedificandi o come talvolta ha ritenuto la giurisprudenza con riguardo ai contratti di cessione di cubatura), né come potere attribuito dalla pubblica amministrazione in relazione a un diritto reale e alle relative modalità di esercizio. In altri termini, secondo la norma in commento, il "diritto edificatorio" perde potenzialmente le caratteristiche proprie della realità (ossia di relazione giuridicamente qualificata di un soggetto con una res). Esso sembra avere una diversa natura giuridica e segnatamente quella di diritto personale imputato al titolare: a fronte di un "diritto edificatorio", vi è un soggetto obbligato, un debitore.
Per comprendere il punto occorre ricordare che la distribuzione dei "diritti edificatori" ai proprietari di immobili inclusi in un determinato ambito di trasformazione (come accade, ad esempio, nel regime del comparto edificatorio), avviene ricorrendo a formule organizzatorie (variamente configurata in dottrina e in giurisprudenza: associazione senza personalità giuridica, comunioni tra proprietari, ecc.), intese comunque ad assicurare la realizzazione unitaria della trasformazione prevista. Queste forme di coordinamento tra i proprietari producono un effetto perequativo, ossia quello di ripartire tra tutti i partecipanti all'organizzazione i diritti e gli oneri connessi alla trasformazione nell'ambito del perimetro, in proporzione alla quota di partecipazione. Il che in sintesi vuol dire che gli aspetti organizzativi e reali della vicenda risultano assolutamente inscindibili.
Al contrario, la previsione della trasferibilità e della commerciabilità tra gli ambiti territoriali comporta la potenziale trasformazione della natura giuridica del "diritto edificatorio" che, perse le caratteristiche della realità, assume quelle del diritto di credito (e non è un caso che la giurisprudenza amministrativa, con riferimento a "diritti edificatori" relativi ad ambiti diversi da quelli in cui ricade il bene immobile del titolare, ha ripetutamente parlato di "credito volumetrico": cfr. Tar Campania, sez. di Salerno, sez. I, 6 dicembre 2001, n. 845 e 20 febbraio 2003, n. 845).
In questa logica, il debitore è il comune, il quale, a fronte di ogni "diritto edificatorio", deve consentire al titolare di realizzare la volumetria oggetto del diritto stesso e di acquisire su essa il diritto di proprietà: prima o poi, si dovranno soddisfare tutti i "diritti edificatori" distribuiti. Si può dunque affermare che al "diritto edificatorio" in capo a un privato, corrisponde senz’altro un "debito edificatorio" per il comune.
Vale la pena di precisare che, a dispetto della terminologia adoperata, il titolare del diritto in discorso, nei confronti del comune, è da considerare, da un punto di vista strettamente tecnico, come portatore di un interesse legittimo alla soddisfazione del suo diritto (precisazione questa rilevante da diversi punti di vista). Ma questa constatazione non cambia la natura sostanziale delle cose, ossia che il comune sia comunque obbligato ad assicurare la realizzazione della volumetria riconosciuta nell'atto di pianificazione; e ciò preferibilmente attraverso accordi con il relativo titolare (tanto è vero che il giudice amministrativo, con riferimento al c.d. "piano delle certezze" del Comune di Roma, ha già avuto modo di affermare, sia pure incidentalmente, che all'attribuzione dei "diritti edificatori" corrisponde per l'amministrazione un vincolo per quanto attiene alla decisione circa l'an della volumetria da realizzare, anche in assenza della determinazione delle concrete modalità di attuazione di tali diritti: cfr. Tar Lazio, sez. I, 19 luglio 1999, n. 1652, § 8.1.).
Come anticipato, i commi 4 e 5 dell'art. 9 si occupano parimenti dei "diritti edificatori", tuttavia nella diversa ottica di promuovere il rinnovo urbano e la prevenzione di rischi naturali e tecnologici, nonché di sostituire indennità monetarie. Nonostante la diversa funzione, anche in questa ipotesi mantengono la natura di diritti di credito nei confronti del comune.
Da un punto di vista teleologico, il "diritto edificatorio" assolve dunque a due distinte funzioni. Innanzitutto dovrebbe svolgere una funzione perequativa: a ogni immobile inserito in un ambito di trasformazione, come individuato dal piano strutturale, viene riconosciuto un certo numero di "diritti edificatori" in relazione alla sua estensione e al suo valore, come risultante prima del piano (“indipendentemente dalla specifica destinazione d’uso”: cfr. art. 9 comma 4). Si dovrebbe così realizzare una condivisione di vantaggi e oneri per tutti i soggetti coinvolti dalla trasformazione (si usa il condizionale, dal momento che è pura illusione pensare che, attraverso l'astrattezza del "diritto edificatorio", si possa ottenere la piena indifferenza dei proprietari rispetto alle previsioni di piano: cfr., ad esempio, la sentenza del Tar Lazio, n. 1652/99 cit., § 8, lett. a e § 8.1.).
Inoltre, il "diritto edificatorio" può sostituire le indennità che il comune deve pagare a fronte di vincoli anche, ma non solo, espropriativi (art. 9, commi 4 e 5). Qui la perequazione non c’entra nulla, avvenendo l'attribuzione dei diritti in sostituzione di indennità monetarie dovute a vario titolo (chi sa se i Deputati avevano in mente gli assegnati, escogitati in Francia nel dicembre 1789?).
E' evidente che il meccanismo sinteticamente descritto, ove implementato, produrrà un incremento potenzialmente incontrollato del "debito edificatorio" dei comuni, in modo potenzialmente svincolato da ogni valutazione di sostenibilità (estetica, sociale, ambientale, ecc.), che dovrebbe essere effettuata nel piano strutturale, nonché da ogni correlazione con l’interesse pubblico (che, detto per inciso, al di là di proclamazioni formali, non sembra svolgere alcun ruolo nella struttura del disegno di legge).
3. Osservazioni critiche
Guardando alla sostanza del fenomeno, ci si accorge che i "diritti edificatori", come disciplinati nello schema normativo, in effetti rappresentano una potenziale distorsione delle dinamiche democratiche che dovrebbero presiedere alla funzione di governo e di gestione del territorio. Il tema, ovviamente, si potrebbe prestare ad ampie ed approfondite riflessioni, ma appaiono sufficienti le seguenti considerazioni.
Non si deve essere profondi conoscitori della teoria della "cattura del regolatore" o di quella comunemente denominata "Public Choice" (che, come noto, valse il premio Nobel per l'economia a J. Buchanan nel 1986) - teorie i cui presupposti peraltro non sono condivisibili -, per comprendere che i processi regolativi e di elaborazione delle politiche pubbliche, specie allorquando intercettano interessi economici forti (quali sono indubbiamente quelli connessi alla rendita immobiliare), necessitano di strumenti giuridici e istituzionali che mantengano l'amministrazione pubblica esente, per quanto possibile, da interferenze e condizionamenti indebiti, consentendole di assumere decisioni e di eseguirle autonomamente dal consenso dei privati interessati.
Tutto al contrario, il disegno di legge sembra fatto apposta per generare fenomeni di "cattura" dell'amministrazione pubblica da parte dei portatori di interessi forti ovvero per produrre indebiti vantaggi a favore di alcuni gruppi (es. i beneficiari della rendita) a scapito di altri (es. i cittadini). Infatti, da un lato, non contiene principi forti cui gli enti di pianificazione si devono ispirare nell'elaborare le politiche territoriali; e, dall'altro, anche attraverso la sintetizzata disciplina dei "diritti edificatori", depotenzia la potestà decisionale dell'apparato pubblico, rafforzando nel contempo la posizione dei titolari della rendita.
Ricorrendo ad altri concetti, si può osservare che la circostanza per cui i "diritti edificatori" possano circolare liberamente ed essere trasferiti nei diversi ambiti, a prescindere, come detto, da un retrostante diritto di proprietà su un bene immobile, consente a pochi soggetti di farne incetta, per poi magari concentrarli su determinate aree in loro disponibilità. Il disegno appare più chiaro se si considera che, a mente dell’art. 8, comma 8, i piani attuativi possono, nella sostanza, essere anche a iniziativa di soggetti privati (ossia dei titolari dei diritti edificatori) e che, a mente dell’art. 5, comma 4, “le funzioni amministrative sono esercitate (…) prioritariamente mediante l’adozione di atti negoziali in luogo di atti autoritativi (…)”.
Una volta che si permetta ad alcuni soggetti di acquistare dagli altri proprietari il diritto di realizzare una certa volumetria e successivamente di proporre l’adozione di strumenti attuativi (compibili con il piano strutturale solo per quanto riguarda gli obiettivi, ma non le volumetrie: cfr. art. 9, comma 1), ovvero di contrattare con il comune forme, tempi e modi di realizzazione, le amministrazioni comunali si troveranno, nella migliore delle ipotesi, nella condizione di non essere più titolari esclusivi della funzione di pianificazione operativa, ma, nella sostanza, di doverla condividere con i detentori dei "diritti edificatori", dalle stesse riconosciuti.
Il rischio vero che si corre è allora che, attraverso questa disciplina, si privatizzi il territorio (inteso come l’insieme di beni immobili, pubblici e privati, su cui è insediata e vive la collettività locale), attribuendo poteri incisivi a soggetti privati, i titolari dei "diritti edificatori", e deprivando le amministrazioni locali e i cittadini di adeguati strumenti per la tutela dell’interesse pubblico. E vale la pena di ricordare che, per quel che qui interessa, la natura pubblica della pianificazione territoriale risponde all’esigenza di garantire che siano effettivamente goduti i diritti e le liberà fondamentali dei cittadini: la potestà pubblica deve costituire, tra l’altro, un valido baluardo contro i poteri privati.
Queste considerazioni non devono però indurre a ritenere che si sia in presenza di uno schema normativo di tipo liberista, orientato cioè a far emergere le forze del mercato, sinora compresse e mortificate dall'invadenza dell'apparato pubblico e dalle sue regole. Infatti, qui il mercato e il gioco della concorrenza c'entrano poco o nulla.
La logica sottesa al disegno di legge è piuttosto quella del "debito edificatorio": rivive qui la stessa incultura che ha portato l’Italia ad accumulare un immenso debito pubblico, riversandone gli effetti devastanti sulle generazioni più giovani. Da questo punto di vista, la proposta risulta generazionalmente connotata e non contiene purtroppo nulla di nuovo, dal momento che si limita ad affermare che i comuni, attraverso l’attribuzione di "diritti edificatori", possono impegnare il loro territorio, per le finalità più varie. E questa operazione viene giustificata con riferimento alle esigenze di uguaglianza tra i proprietari (e, come noto, anche sull’incremento del debito pubblico hanno influito non poco esigenze di uguaglianze tra diverse categorie produttive); come se fosse questo il problema del territorio italiano. Il territorio è un bene limitato e pertanto un meccanismo come quello descritto, che fisiologicamente porta all’aumento incontrollato della quantità di "debiti edificatori" a carico dei comuni, è contrario al principio di solidarietà tra le generazioni.
La (in)cultura del debito pubblico (e dunque la ideologia dell’egoismo generazionale) consente forse di comprendere le ragioni per le quali la proposta, a quanto si legge, è stata condivisa anche da esponenti dell’opposizione.
4 settembre 2005