Il manifesto, 5 agosto 2014
C’è un fatto, accaduto in questi giorni e apparentemente secondario, che mette a nudo l’anomalia della situazione politica e istituzionale del paese e delle iniziative che la accompagnano, a partire dalla «riforma» costituzionale e da quella della legge elettorale. È la mancata elezione, da parte del parlamento in seduta comune, dei componenti di sua spettanza del Consiglio superiore della magistratura, con la conseguente proroga senza limiti predeterminati del Consiglio scaduto (della cui integrazione si riparlerà, forse, a settembre).
Sarebbe come dire — per capirci — che un organo elettivo (per esempio il parlamento) resta in carica, ancorché scaduto, perché non sono state indette nuove elezioni: lo dico sommessamente, sperando che l’affermazione venga considerata un paradosso e non un’idea utile per il futuro… È la prima volta che ciò accade nella nostra storia costituzionale (salvo un remoto e diverso precedente) e — si noti — l’elezione non è stata neppure tentata.
La parentesi di rappresentatività di un organo di rilevanza costituzionale non è cosa da poco e, infatti, c’è chi ne ha subito — e strumentalmente — tratto argomenti a conferma della necessità di cambiare le regole. È vero esattamente il contrario! In tutte le precedenti consiliature, anche nei momenti di più aspra conflittualità politica, l’elezione dei componenti di spettanza del parlamento è avvenuta nei termini (e spesso con l’indicazione di giuristi di prim’ordine). È, dunque, evidente che il difetto non sta nelle regole (rimaste inalterate) ma nelle forze politiche e, in particolare, nella maggioranza parlamentare, all’apparenza incapace e disinteressata a promuovere confronto e convergenze. Ma è solo un’apparenza, ché non si tratta di inadeguatezza ma dell’ennesima dimostrazione della cultura che permea la maggioranza politica (quella palese e quella allargata di supporto): una cultura che rifiuta il confronto e la ricerca di soluzioni condivise e conosce solo le ragioni della forza e dei numeri, anche a costo di sfasciare il sistema. Non è cosa nuova, neppure nella storia repubblicana. Ma conviene segnalarne gli ascendenti.
All’inizio dell’epoca berlusconiana lo teorizzò in maniera brutale il costituzionalista di riferimento della destra, Gianfranco Miglio, che, in un’intervista del marzo 1994 affermò testualmente: «È sbagliato dire che una Costituzione deve essere voluta da tutto il popolo. Una Costituzione è un patto che i vincitori impongono ai vinti. Qual è il mio sogno? Lega e Forza Italia raggiungono la metà più uno. Metà degli italiani fanno la Costituzione anche per l’altra metà. Poi si tratta di mantenere l’ordine nelle piazze». Non c’è riuscito Berlusconi; oggi ci prova Renzi, per di più senza il consenso della metà più uno degli italiani, ma solo — come ama ripetere — di 11 milioni di votanti, dimenticando quei 38 milioni di cittadini che nessuna delega o sostegno gli hanno dato.
Qualcuno — tra gli altri i migliori costituzionalisti italiani — ha provato a segnalare l’anomalia di questa doppia «riforma» (costituzionale ed elettorale), dei suoi contenuti e delle sue modalità. Subito è arrivata la severa e sprezzante risposta del presidente del Consiglio e della ministra delle riforme che, con un’eleganza degna di miglior causa, hanno ironizzato sull’età e sulle competenze dei soliti «professoroni». Anche qui, non è inutile ricordare i precedenti: questa volta si tratta di Mario Scelba — esperto sia di istituzioni che di ordine nelle piazze… — il quale, nel giugno 1949, si scagliò contro il «culturame» degli intellettuali di cui la politica dovrebbe liberarsi. Allora non mancarono le prese di distanza e le reazioni politiche. Oggi tutto tace. E, se non sorprendono le parole di Renzi (la cui considerazione per la cultura è dimostrata dalla concessione degli Uffizi come trampolino per sfilate di moda), spicca il silenzio miope e complice dei (pochi) residui intellettuali del suo partito.
C’è di che preoccuparsi, e non poco. Ma, mentre tutto questo accade, il presidente del Senato gigioneggia sul termine «canguri» e il capo dello Stato, in serena vacanza in Trentino, si scandalizza che taluno evochi derive autoritarie (sic!). Un tempo, per molto meno (la cosiddetta legge truffa), si dimisero ben due presidenti del senato mentre l’onorevole Togliatti, nella seduta della camera dell’8 dicembre 1952, citava nientemeno che parole di Camillo Cavour: «Io lo dichiaro altamente. Amico della realtà, nemico delle illusioni, amerei meglio vedere la libertà soppressa che vederla falsata e vedere ingannato il paese e l’Europa». Certo erano altri tempi ma, anziché esorcizzarli, sarebbe meglio cercare di ripristinarli. Anche a costo di turbare la tranquilla vacanza del presidente della Repubblica.