IL SUD AFFONDA NELLA CRISI PERENNE
di Riccardo Realfonzo
Le previsioni più pessimistiche sul Mezzogiorno risultano confermate. Questa amara conclusione si ricava dalla lettura del Rapporto Svimez 2009 il quale mostra inequivocabilmente che il reddito di un cittadino del sud rappresenta una parte sempre più risicata del reddito di un italiano del nord. Si tratta, quel che è peggio, di un dato non strettamente congiunturale, dal momento che negli ultimi dieci anni il sud è cresciuto la metà rispetto al resto dell'Italia. Ma il grado di sviluppo e di benessere non si misura certo solo in base al reddito. Se guardiamo alla qualità dei servizi pubblici o dell'ambiente, il Mezzogiorno perde ancora più terreno rispetto al resto del Paese. Con il risultato che, in Italia, la povertà, la disoccupazione, il lavoro precario e quello nero si concentrano quasi esclusivamente nel Sud. Queste considerazioni impietose sullo stato dell'economia meridionale ci spingono a interrogarci sull'efficacia delle politiche per il Mezzogiorno di questi anni. Il riferimento purtroppo non è solo alle scellerate politiche leghiste del Governo in carica (per inciso lo Svimez stima in 18 miliardi la quota di risorse sottratta negli ultimi due anni al Mezzogiorno) ma anche agli interventi sostenuti dalle stesse coalizioni progressiste al livello nazionale e locale.
Assolutamente vane si sono infatti dimostrate le speranze di quanti, tra le fila progressiste, credevano nei virtuosi meccanismi spontanei del mercato che avrebbero dovuto attivarsi con la moneta unica, con l'apertura dei mercati, con la precarizzazione del lavoro. Così come del tutto illusori si sono mostrati gli effetti delle privatizzazioni. Bisognerebbe interrogarsi sugli esiti delle politiche che hanno sostituito l'intervento straordinario, teorizzate da economisti di moda anche nel centrosinistra benché irretiti dal fascino della concorrenza e dalle teorie neoliberiste. Politiche che hanno visto la sterile stagione degli incentivi automatici e l'erogazione a pioggia dei fondi Ue, degenerando troppo spesso in mere strategie del consenso.
Ed ora la gravissima crisi che stiamo attraversando assume nel Mezzogiorno i caratteri cupi dell'emergenza sociale e si abbatte sull'economia come una sorta di gigantesco moltiplicatore dei divari regionali. Come viene sottolineato dalla Svimez: «la diffusa percezione di una crisi che avrebbe riguardato soprattutto le aree più industrializzaste del Paese è purtroppo smentita dai fatti».
Per tutte queste ragioni, occorrerebbe una svolta nel quadro delle proposte progressiste capace di mettere a valore gli sviluppi recenti del meridionalismo e di recuperare la migliore cultura della programmazione economica e della pianificazione territoriale. Al centro di questa azione - come lo stesso Rapporto Svimez suggerisce - non possono che essere poste le politiche industriali specificamente indirizzate a spingere il tessuto produttivo meridionale verso un «salto» tecnologico e dimensionale. Forse è troppo sperarlo, ma sarebbe davvero il caso che il congresso del Partito Democratico si scuotesse dal torpore, stigmatizzasse qualsiasi ipotesi di aggregazione politica meridionale sul modello leghista, e riprendesse le fila di un dibattito vero intorno alle condizioni per un riscatto del Sud.
SE I MIGRANTI SIAMO NOI
di Alessandro Braga
Sud «cenerentola» di tutta Europa. Dal 1997 al 2008 700mila persone sono «scappate» dal Mezzogiorno per cercare lavoro nel nord Italia
Non attraversano il Mediterraneo a bordo delle cosiddette «carrette del mare», barconi stracolmi di esseri umani disperati. Al massimo percorrono tutta l'Italia da sud a nord su un treno espresso, con tempi medi di percorrenza, dalla partenza all'arrivo, di circa 22 ore, o se non ne trovano, visto che ormai le Ferrovie dello Stato prediligono i velocissimi Eurostar, si adagiano su comode poltrone targate Trenitalia. Non parlano idiomi sconosciuti, dialetti di posti lontani, ma un perfetto italiano, «macchiato» solo da una leggera cadenza meridionale.
A differenza dei loro padri e dei loro nonni, arrivati nelle ricche regioni del nord negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso con la valigia in mano tenuta chiusa dallo spago, in gran parte non cercano posti di lavoro alla Fiat o in un'altra delle grandi fabbriche di Piemonte e Lombardia, e neppure in quelle medie e piccole del facoltoso Nordest. Puntano a occuparsi nella pubblica amministrazione o come classe docente nelle scuole di ogni ordine e grado. Sono quasi tutti diplomati o laureati. Anche dopo l'approvazione dell'ultima legge razzista del governo voluta dalla Lega non sono diventati clandestini, e non necessitano di permessi di soggiorno o sanatorie. Ma sono, in tutto e per tutto, migranti.
700mila negli ultimi 11 anni
La fotografia di un'Italia «spaccata in due» l'ha scattata l'Associazione per lo sviluppo dell'industria nel Mezzogiorno, che ieri ha pubblicato il rapporto 2009 sull'economia delle regioni meridionali. A fronte di un centronord che continua ad attirare e smistare flussi all'interno del suo territorio c'è un sud che non riesce a trattenere i suoi giovani e manodopera varia, senza neppure riuscire a rimpiazzarla con pensionati, stranieri o persone comunque in arrivo da altre regioni. Una vera e propria emorragia: negli ultimi undici anni, tra il 1997 e il 2008, ben 700mila persone hanno abbandonato il Mezzogiorno; solo nello scorso anno sono state 122mila contro la metà circa, 60mila, che hanno invece deciso di fare il percorso inverso. A farla da padroni in questa «classifica» emigratoria, tre regioni, che da sole raggiungono l'87% del totale: Puglia (12200 partiti), Sicilia (11600) e Campania (25mila).
Pendolari a lungo raggio
A questo già elevatissimo numero si devono poi aggiungere i cosiddetti «pendolari a lungo raggio», persone che continuano a mantenere la residenza al sud, nel paese di origine, ma che hanno un posto di lavoro al centronord o addirittura all'estero. Gente che rientra «a casa» solo nel fine settimana o un paio di volte al mese. «Cittadini a termine», li definisce il rapporto. Generalmente maschi, single, decidono di non cambiare la residenza a causa del costo della vita nelle aree urbane o perché hanno contratti di lavoro a tempo determinato. La causa della loro migrazione l'impossibilità di trovare lavoro, in particolare di livello medio-alto, nelle zone natie.
Gli «scoraggiati» e il Pil in calo
Aumenta anche quella «zona grigia» della disoccupazione che raggruppa «scoraggiati» e «lavoratori potenziali». Solo nel 2008 sono cresciuti di 95mila unità, dal 2004 allo scorso anno sono 424mila le persone in più che rientrano in questa categoria. Se si sommano anche loro, il tasso di disoccupazione effettivo nel meridione d'Italia sale al 22%, con un tasso di occupazione che di conseguenza scende al 46,1% (meno 34mila). La disoccupazione ha colpito in particolare le nuove leve: tra i giovani meridionali tra i 15 e i 24 anni solo due su tre trovano lavoro a fronte dei coetanei del centronord dove invece solo il 15% non ci riesce. E sono aumentati anche i disoccupati di lungo periodo. La crisi globale non ha fatto altro che peggiorare la situazione: il settore industriale ha registrato un calo del Pil del 3,8%, mentre le produzioni manifatturiere addirittura di oltre sei punti.
Giovani cervelli in fuga
La mancanza di una prospettiva lavorativa, in particolare di livello medio-alta, porta a una vera e propria fuga dei cervelli verso lidi più benevoli. Nel 2004 tra i ragazzi che si laureavano a pieni voti era il 25% che partiva per cercare fortuna al nord. Cinque anni dopo la percentuale è salita al 38. E molti neodiplomati decidono di partire subito dopo la fine delle scuole superiori, per prendere la laurea in atenei del nord e trovare lì un lavoro, più facilmente e meglio remunerato.
NUMERI
150 MILA I PENDOLARI residenti nel Mezzogiorno che nel 2007 sono stati costretti a lavorare nelle altre regioni.
Il 25,7% di loro è laureato;
il 43,5% ha la licenza superiore
27,9 PERSONE OGNI 100 usano Internet al Sud. Nel resto dell'Italia sono 38,5. Secondo i dati della Svimez, aA utilizzare il Pc nel Mezzogiorno è il 33,9%, contro il 44,1% del Centro-Nord
41,3 FAMIGLIE MERIDIONALI su 100 non sono in grado di sostenere una spesa improvvisa di 600 euro.
Al Centro-Nord la percentuale scende al 22,3%
«UN PEZZO D'ITALIA BUTTATO A MARE»
Manuela Cartosio intervista
il regista Mimmo Calopresti
Arrivato da Polistena a Torino quando aveva sette anni,il regista Mimmo Calopresti ha mantenuto con il Sud un legame forte. Sono immigrati di seconda generazione i protagonisti di Uno per tutti, il romanzo del siciliano Gaetano Savatteri che servirà da spunto per il prossimo film di Calopresti. Le cifre del rapporto Svimez non sorprendono il regista. Lo amareggiano e l'autorizzano a dire che il Sud è «un pezzo dell'Italia buttato in mezzo al mare» e a pronunciare parole gravi: «abbandono, disperazione, frustrazione, dissipazione».
Rispetto ai 700 mila emigrati dal Sud nell'ultimo decennio, pensa d'essere stato fortunato a immigrare al Nord all'inizio degli anni Sessanta, da bambino e con un padre operaio Fiat?
In mio padre, e in quelli come lui, c'era una spinta dinamica, direi quasi una felicità, seppur pagata con tante sofferenze. Di fronte a noi c'era qualcosa da conquistare. C'era un futuro.
L'idea d'avere un futuro è appunto quello che manca al Sud, ma ora anche al Nord.
Però Milano al Sud continua a essere vista come la città dove ci sono i soldi, dove si lavora. Magari con contratti scassati, però almeno quelli ci sono. Chi arriva adesso, rispetto alla generazione di mio padre, ha il vantaggio d'aver studiato. Ma è meno forte. Gli immigrati degli anni Sessanta erano forti perché partecipavano a un avvenimento collettivo che ha cambiato l'Italia. Emigrare dal Sud ora è un'esperienza vissuta individualmente.
Che governi la destra o il centro sinistra, le differenze per il Sud non si notano.
Succede perché non c'è più nessuno, neppure a sinistra, che sappia "pensare" il Sud. La politica su scala nazionale e locale è scaduta a occupazione di posti.
Le mafie quanto incidono nel mancato decollo del Sud?
Il peso della criminalità mafiosa è enorme. Ma appena lo si dice, si rischia d'assolvere la politica. E invece la politica ha mutuato le logiche spartitorie della mafia.
Cosa consiglierebbe a un giovane ventenne del Sud?
Gli direi di conoscere il mondo, di prendere un biglietto per New York che adesso costa come andare a Milano. Gli direi di usare la Rete, ma non come un giocattolino. E' servita a Obama per vincere le elezione, potrà servire anche per mettere in piedi qualcosa di serio e di non clientelare al Sud..
Ma al Sud con la conoscenza e la formazione non si alza un chiodo.
Per questo parlo di dissipazione e di frustrazione. I giovani sanno d'avere qualcosa da dare e non trovano dove metterlo.
Il Sud che si lamenta, che si piange addosso, è stato uno dei carburanti del leghismo. Prima di prendersela con i "clandestini", il nemico numero uno della Lega erano i "terroni" che vivono alle spalle del Nord produttivo.
Piangersi addosso non aiuta, è controproducente. I giovani del Sud devono smettere di farlo. Devono fare una rivoluzione personale, psicologica.
In Sicilia è già nato un leghismo del Sud, speculare a quello padano. In Puglia anche un pezzo del centrosinistra si sta mettendo sulla stessa strada. Cosa ne pensa?
Tutto il male possibile. E' solo un modo per contrattare e ottenere qualcosa in più dal governo nazionale, sia che a palazzo Chigi ci sia Berlusconi o un altro.
Il mondo della cultura e dello spettacolo è pieno di uomini e donne nati al Sud. Quasi tutti, per affermarsi, hanno dovuto trasferirsi a Roma o al Nord. E quasi nessuno, diventato famoso, è tornato a vivere al Sud.
Ho provato a mettere in piedi una scuola del documentario a Napoli. Sebbene ci tenessi moltissimo, non è arrivata al secondo anno. Tutto finisce nel piccolo cabotaggio del sottopotere e dei finanziamenti. Se queste sono le condizioni, lo scrittore, il teatrante, il regista va via e torna giù solo per fare un po' di mare. E' una tragedia perché la cultura, a mio parere, viene prima della politica.
«MA IL FENOMENO VERO È QUELLO DEL PENDOLARISMO»
Francesca Pilla intervista l
a sociologa Enrica Morlicchio
Le valigie di cartone sono state sostituite da trolley di nuova generazione. Un modo per dire che l'emigrazione interna del nostro paese è polarizzata e non è più prerogativa delle fasce più basse, ma anche di quei giovani con un alto livello di scolarizzazione che non trovando sbocchi volano nel nord del paese. «Anzi spesso chi ha più risorse, anche da un punto di vista emotivo, è più capace di resistere alle variabili ignote e più possibilità di spostarsi». A tracciare un quadro più particolareggiato dei dati Svimez è Enrica Morlicchio, professore di sociologia dello sviluppo della Federico II di Napoli, nonché vicedirettrice del periodico sociologia del lavoro, diretto da Michele La Rosa, che su questi argomenti sta preparando il prossimo numero monografico.
Professoressa, ci spieghi meglio cosa è cambiato.
Innanzitutto questi dati mi sembra che colgano solo il fenomeno dei trasferimenti definitivi, mentre il pendolarismo riguarda fette molto più ampie della popolazione. Flussi di persone che si spostano stagionalmente senza cambiare la residenza. Le novità riguardano appunto le fasce sociali che decidono di spostarsi e che se da un lato muovono le classi medio-alte, dall'altro i trasferimenti per la prima volta interessano anche le donne di bassa scolarizzazione che emigrano, per brevi periodi, magari per andare a lavorare nelle pizzerie o nei pub.
Qual è il profilo del giovane emigrante?
Faccio un esempio in base ai miei studi su Scampìa, un'area simbolo del degrado sociale di Napoli. A lasciare il quartiere non sono stati i ragazzi cosiddetti a rischio, dei ceti più poveri, ma quelli con più risorse e magari capaci di resistere al richiamo della criminalità. Persone che mantengono un legame emotivo con il luogo d'origine, tornando poi dalle famiglie per il loro matrimonio o per battezzare i figli pur essendosi trasferiti definitivamente. Questo significa che chi vede nei flussi migratori una scrematura di tipo sociale è fuori strada.
Ma i ne-laureati non possono essere attratti dal mito del cambiamento?
Secondo i nostri studi si spostano ancora per spinta e non per attrazione. Le politiche giovanili per il meridione e in particolare per la Campania sono inesistenti. Un vuoto che riguarda tutte le fasce d'età. Non ci sono interventi nel mercato dell'occupazione né per gli ultracinquantenni dove non vengono utilizzati nemmeno gli ammortizzatori sociali, né politiche formative per chi è in cerca della prima occupazione. Il sostegno oggi è diretto solo verso fasce specifiche di disoccupati, e mi permetto di dire che resta pervaso da fenomeni di corruzione.
Su questo scenario quanto pesa la crisi economica? Molto, anche se per altri aspetti. Secondo una nota Istat sui rilevamenti della forza lavoro nel I trimestre del 2009 emerge per la Campania un dato allarmante: su 33 mila persone che hanno perso il lavoro i disoccupati sono aumentati solo di mille unità. Questo evidenzia lo scoraggiamento e l'uscita dal mercato di grosse fette della popolazione, in maggioranza donne. La crisi però sta colpendo anche il centro-nord del paese che, se prima era una valvola di sfogo per il meridione, ora si trova in una stasi pericolosa. Credo che ci sia la necessità di leggere in maniera più approfondita i dati e fare studi specifici ai quali far corrispondere politiche concrete.