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Franco Cardini
“La nuova ossessione per la sicurezza serve a generare business”
6 Gennaio 2017
2015-La guerra diffusa
«Di per sé la paura non è negativa, è l’altra faccia della prudenza. Il problema è quando viene amplificata, per interesse».
«Di per sé la paura non è negativa, è l’altra faccia della prudenza. Il problema è quando viene amplificata, per interesse».

Il Fatto Quotidiano, 6 gennaio 2017 (p.d.)

Franco Cardini, storico medievalista e voce critica sulle ipocrisie e le semplificazioni dell'Occidente iper capitalista, alla paura ha dedicato un libro: La paura e l'arroganza (in chiara opposizione alle tesi di Oriana Fallaci nel suo La rabbia e l’orgoglio) che ospita scritti di autori come Noam Chomsky, Massimo Fini, Alain de Benoist e l'Ayatollah Seyed Ali Khamenei. Secondo Cardini la paura collettiva, elemento che si ritrova in ogni epoca e civiltà, ha dei picchi nei periodi di decadenza e ignoranza diffusa, anche perché è un sentimento che si autoalimenta. Per contrastarla, serve senso critico, cultura, consapevolezza.

Professor Franco Cardini, stiamo attraversando un periodo fertile per le psicosi collettive?

La paura c’è sempre stata. Come dicono gli psicanalisti, è una capacità eccessiva di esercitare la propria fantasia. E di per sé la paura non è un elemento negativo: è anche l'altra faccia della prudenza. Il problema sorge quando viene amplificata, per interesse. Perché poi le paure tendono a riprodursi da sole.
È quello che succede in questo inizio d’anno?
C'è una specie di forza policentrica in atto che alimenta le paure. In alcuni casi, per esempio la paura dei diversi, dei migranti, lo scopo è ottenere una facile ricaduta politica. Se le democrazie fossero gestite da persone che, come si diceva nell'800, hanno a cuore il bene dei cittadini, questo non succederebbe.
È una classica tesi della sinistra anticapitalista che la paura sia funzionale alla società dei consumi.
In queste tesi c'è molto di vero. Si pensi solo a tutto il surplus di provvedimenti adottati per la sicurezza aeroportuale dopo l'attacco alle Torri Gemelle negli Stati Uniti. È stato notato che hanno dato la stura a un enorme business, non solo per le apparecchiature di controllo: si sono fatti nuovi affari con cose come le buste di plastica per contenere i liquidi; è aumentato il fatturato degli aeroporti con le vendite di bibite o panini a causa delle lunghe code che si formano per i controlli.
Qual è il ruolo dei media?
Il modo di fare informazione può alimentare la paura ma anche tenerla lontana. Faccio un esempio: il Tupolev russo caduto nel Mar Nero a Natale con a bordo il coro dell'Armata Rossa, che è una istituzione nazionale. I russi hanno subito smentito che si trattasse di terrorismo e hanno imposto una sorta di silenzio stampa. E infatti lì non s’è creato alcun panico terrorismo. Se fosse successa da noi una cosa simile si sarebbe parlato di ‘colpo al cuore dell'occidente’, aumentando ancora di più le psicosi. Sono due approcci opposti, ma spiegano il ruolo dell'informazione. In Italia purtroppo abbiamo un tipo di informazione prevalente che non invita alla critica ma all'esagerazione delle sensazioni.
E quindi?
Bisogna fare appello alla cultura, al senso critico e della responsabilità per contrastare le paure. Nella società dell'immagine e dello spettacolo ormai ciò che succede è ciò che succede sui media. Se una cosa accade e non ne parla nessuno è come se non accadesse, mentre se non accade davvero ma i media ne parlano, è come se fosse successa. Le centrali terroristiche ci vivono su questo. L'impatto della loro attività è dovuto per il 10 per cento alle loro azioni, per il 90 per cento al fatto che se ne parla.
Ora l'informazione viene presa in gran parte dal Web che è un po' un territorio selvaggio. Quali sono le conseguenze?
È un po’come nel caso delle infezioni. Bisogna rassegnarsi al fatto che siamo tutti vulnerabili alla sovraesposizione di notizie non controllate e non verificabili. Cosa che ci espone più facilmente alle paure. Col tempo, come per le infezioni, svilupperemo degli anticorpi, o almeno lo spero. Il rischio è che dopo la paura subentri la rassegnazione e il fatalismo, dei commenti che cadono nel vuoto, senza una vera consapevolezza. Il problema è che l'Italia è una società culturalmente e civilmente molto debole. Si deve rendere conto che certi problemi vanno affrontati. Bisogna fare appello alla cultura, al senso di responsabilità.
La psicosi terrorismo però non è un problema solo italiano.
Ieri ho attraversato Parigi all’una di notte. Era assolutamente deserta. È gravissimo. Bisognerebbe reagire al terrorismo, come cittadini, senza modificare il proprio stile di vita, rispondere come se niente fosse. Anche perché è un problema che andrà avanti a lungo.
Perché?
Credo che il Califfato avrà un’agonia molto lenta. Sono solo in 50 mila i combattenti ma sopravvivono nonostante tutte le forze armate che li contrastano. La ragione sta nel fatto che evidentemente sono funzionali a interessi ben radicati.
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