L’immagine della Milano ladrona, sorridente e impunita, ha fatto il giro d’Italia. È l’istantanea dell’ufficio di presidenza della regione Lombardia, con 4 componenti su 5 indagati. O arrestati per malaffare. Per la par condicio due del Pdl, Franco Nicoli Cristiani e Massimo Ponzoni, uno del Pd, Filippo Penati, e l’ultimo della Lega, Davide Boni. Mettici pure quattro ex assessori di Formigoni al centro di altrettanti scandali, i già citati Nicoli Cristiani e Ponzoni, più Guido Bombarda e l’ineffabile Piergianni Prosperini. Infine otto consiglieri lombardi sotto inchiesta per una gamma di reati che spazia dalla corruzione alla truffa al favoreggiamento di prostituzione, nel caso di Nicole Minetti. E ti domandi: ma come può una delle regioni più ricche e civili d’Europa a sopportare questa vergogna?
Una tale montagna di scandali non s’era mai vista in Italia, se non nel consiglio regionale della Calabria, che le commissioni antimafia dipingono come il braccio politico della ‘ndrangheta. Ma qui non siamo nella terra di Cetto Laqualunque. Siamo nella capitale del laborioso Nord che sfida la recessione, nella culla del montismo come nuovo costume amministrativo, europeista, poliglotta, competente, rigoroso e un tantino moralista. E allora non ti spieghi la calma piatta, l’indolenza «terrona» con cui la grande Milano accoglie le storiacce della nuova Tangentopoli, vent’anni dopo. Queste tangentone a botte di 300 mila euro in contanti, che sarebbero finite nella tasche del ras lombardo della Lega, Davide Boni, fanno impallidire la madre di tutte le mazzette, i 37 milioncini di lire che il 17 febbraio del 1992 Mario Chiesa cercò di affogare nel cesso dell’ufficio, mentre i carabinieri bussavano alle porte del Pio Albergo Trivulzio. Sorprende la faccia di tolla dei dirigenti leghisti, da Umberto Bossi in giù, che una settimana fa chiedevano la testa di Formigoni «perché non si può andare avanti con un arresto al giorno» e oggi, pizzicato uno dei loro, urlano al complotto politico e affidano la difesa del buon nome del movimento, con un certo grado di crudeltà, al tesoriere Francesco Belsito. Figura incredibile per definizione, noto alle cronache per essersi taroccato nell’ordine la patente di guida mai ottenuta, il diploma di perito e ben due lauree fasulle (una a Londra, l’altra a Malta), non che per aver investito l’anno scorso un terzo del rimborso elettorale della Lega (22 milioni di euro) in una fantomatica banca della Tanzania. Uno insomma al cui confronto il Vincenzo Balzamo tesoriere del Psi di Craxi, e morto di crepacuore pochi mesi dopo Mani Pulite, trasfigura nel ricordo in icona risorgimentale.
Ma il mistero più fitto, o se volete la faccia di tolla più resistente, ha un solo nome: Roberto Formigoni. Il dominus assoluto del ventennio lombardo, da Tangentopoli a Tangentopoli 2, il presidentissimo al quarto mandato, è ancora lì, al centesimo scandalo, barricato nella faraonesca e inutile nuova sede, a recitare la scena del palo della banda dell’Ortica. Il campionario di alibi del presidenza allarga ogni volta i confini del ridicolo. Gli arrestano gli assessori nei settori chiave della regione, sanità, urbanistica, ambiente, e lui non sapeva. Si presenta in consiglio regionale per «mettere la mano sul fuoco per Piergianni Prosperini» il giorno stesso in cui il «Prospero» decide di patteggiare coi magistrati. La Minetti? «Chi se l’immaginava? Me l’ha presentata Don Verzè!». Il caso Boni? «Quale caso? Vedremo. La regione è una casa di vetro. Nel caso ci fosse un caso, ci costituiremo parte civile». Non esistono un «sistema Sesto» o un «sistema Lega» o un «sistema bonifiche», ma soltanto un enorme «sistema Formigoni» (o «sistema CL») che sovrasta e alimenta un arcipelago vastissimo e consociativo di interessi, dove nessuno ha interesse a far saltare il banco del Pirellone. Non la maggioranza politica, ma neppure le opposizioni, che infatti o si schierano contro le elezioni anticipate, come l’Udc, o le chiedono molto timidamente, come il Pd. Non Cl, certo, ma neppure le coop rosse. Non gli industriali o le banche, ma nemmeno i sindacati. Il fatto è che se la Tangentopoli di vent’anni fa era comunque qualcosa di razionale, una specie di escrescenza malavitosa di un’economia ancora sana, un «pizzo» carpito nel grasso della crescita produttiva, con la seconda Tangentopoli si è andati molto oltre. Qui il sistema delle tangenti ha creato ex novo un’economia virtuale che non ha alcun collegamento con il mercato e si fonda sul consumo del territorio. In altri termini, cemento, cemento e ancora cemento.
In vent’anni in Lombardia la popolazione è rimasta ferma, ma le aree urbanizzate sono cresciute del 20 per cento. I cantieri nascono come funghi. Regione e comuni concedono licenze per centinaia di milioni di metri cubi, sulla base di stime demografiche che farebbero ridere uno studente del primo anno di Sociologia. Con tutti gli scandali in corso, il comune di Sesto San Giovanni ha appena riavviato la pratica dell’ex area Falck, nell’ipotesi di una crescita della popolazione da 80 a 100 mila nei prossimi dieci anni. Ma Sesto non ha raggiunto i centomila abitanti neppure quando era la Stalingrado d’Italia, con fabbriche che occupavano decine di migliaia di operai. Perché dovrebbe crescere ora che sono tutte chiuse?
Malpensa è l’aeroporto più in crisi d’Europa, perde viaggiatori, merci, scali, compagnie, è l’hub di nessuno. La risposta? Il progetto di una terza pista, distruggendo mezzo Parco del Ticino. Un altro esempio, le autostrade. Con la benzina a due euro e l’industria dell’auto al disastro, un investimento geniale. Lo stesso Expo del 2015 è diventato un enigma. Il progetto originario di Stefano Boeri e Carlo Petrini, un Expo leggero ed ecologico, un grande orto permanente dell’agroalimentare, aveva un senso. Il nuovo progetto, l’ennesima fiera tecnologica, nasce vecchio, superato e un po’ ridicolo. Qui girano le tangenti. E i soldi dei risparmiatori che le banche, grandi e piccole, continuano a pompare nei gruppi immobiliari. Basta presentare un progetto qualsiasi. Perfino Danilo Coppola, il furbetto del quartierino finito in galera e poi in coma per tentato suicidio in carcere, condannato a sei anni per bancarotta fraudolenta, ha appena ottenuto dal Banco Popolare un finanziamento di 180 milioni per il progetto di Porta Vittoria. Roma ladrona gli aveva voltato le spalle, ha ricominciato da Milano.