Il manifesto, 3 luglio 2016
Sconfessata la linea che aveva imputato ad ambienti vicini alle opposizioni la responsabilità delle violenze di matrice islamiche. Drammatico epilogo dell’attacco nel quartiere diplomatico. La premier Hasina condanna l’attentato e indice due giorni di lutto nazionale
Dopo una notte di trattative fallimentari – ammesso siano mai iniziate veramente – il Bangladesh e il resto del mondo si sono svegliati con un bilancio durissimo dell’attacco alla Holey Artisan Bakery di Gulshan, quartiere diplomatico della capitale bangladeshi Dhaka.
Le vittime civili confermate sono venti: Faraz Ayaz Hossain, Abinta Kabir, Ishrat Akhond, bangladeshi; Tarishi Jain, indiana; Adele Puglisi, Marco Tonda, Claudia Maria d’Antona, Nadia Benedetti, Vincenzo D’Allestro, Maria Rivoli, Cristian Rossi, Claudio Cappelli e Simona Monti, italiani; sette cittadini giapponesi, di cui mentre scriviamo ancora non conosciamo i nomi.
Con altri 13 superstiti (di cui tre stranieri, un giapponese e due cingalesi, fuggiti o rilasciati dai sequestratori, nella serata di venerdì si trovavano tutti nel noto locale «per occidentali», a poche centinaia di metri dalle ambasciate straniere che, in gran parte, occupano la zona di Gulshan, una sorta di ghetto al contrario dove upper class bangladeshi e stranieri vivono teoricamente protetti in un’«isola felice» all’interno della megalopoli di Dhaka. Secondo le ricostruzioni dei testimoni oculari, un gruppo di sette uomini armati ha attaccato il locale sparando in aria e lanciando granate al grido di «Allah akbar» («Dio è grande»), prima di chiudersi all’interno tenendo in ostaggio un totale di 33 persone.
Per tutta la notte l’esercito e la polizia bangladeshi hanno tentato una trattativa coi terroristi per la liberazione degli ostaggi, finché intorno alle sette di mattina le teste di cuoio hanno sfondato, uccidendo sei terroristi e arrestandone uno.
Durante la conferenza stampa indetta nella mattinata di ieri, il generale Nayeem ha dichiarato che, con ogni probabilità, le venti vittime del commando erano state uccise già nella nottata di venerdì e portavano segni da arma da taglio. Diversi testimoni tra chi è scappato dagli aguzzini hanno raccontato che il commando chiedeva ai sequestrati di «recitare il Corano»: chi ne era in grado veniva risparmiato, gli altri venivano «torturati». Un modus operandi che segna uno scarto inquietante rispetto alla sequela di attentati di matrice islamica che insanguinano il Bangladesh da oltre cinque anni, prendendo di mira professori universitari, blogger laici, fedeli hindu, cristiani, attivisti Lgbtq e, più recentemente, cooperanti internazionali come l’italiano Cesare Tavella e il giapponese Kunio Hoshi, vittime di attacchi lampo da parte di piccoli gruppi armati di machete, pronti a darsi alla fuga immediata in motocicletta.
La premier bangladeshi Sheikh Hasina ha condannato l’attentato, chiedendosi «che tipo di musulmani siano questi, che uccidono nel mese del Ramadan», mese di pace e di preghiera nella tradizione musulmana. Hasina, indicendo due giorni di lutto nazionale, ha esortato le varie forze politiche a unirsi contro la minaccia del terrorismo nel paese, sconfessando una linea che fino ad ora aveva imputato ad ambienti vicini alle opposizioni la responsabilità delle violenze di matrice islamiche, utilizzate come strumento per destabilizzare il governo.
Ad assedio ancora in corso, sui media internazionali, è partito il balletto delle rivendicazioni, nel tentativo di inserire l’attentato all’interno di una minaccia estremista netta e riconoscibile. Operazione che però, in Bangladesh, è di difficile esecuzione. Come solito, per quanto riguarda il Bangladesh, l’agenzia di intelligence privata statunitense Site ha divulgato una rivendicazione arrivata da Isis attraverso la propria agenzia di stampa Amaq. Ma nelle medesime ore, hanno notato i media bangladeshi, una serie di account Twitter vicini alla cellula terroristica Aqis (Al Qaeda in the Indian Subcontinent) esaltavano in diretta i fatti tragici di Dhaka.
Oggi è ancora difficile definire precisamente se il commando sia riconducibile a una cellula locale di al-Qaeda o di Isis o, ancora, se abbia agito in modo indipendente per poi lasciarsi cooptare, a livello mediatico, dalle una delle due sigle internazionali. Resta il fatto che un attacco condotto con tale perizia contro la facoltosa comunità expat di Dhaka segna un unicum nella storia del Bangladesh, mostrando in tutta la sua tragicità l’incapacità del governo in carica a Dhaka di opporsi efficacemente al terrorismo islamico locale.
Negando la presenza di Isis o al-Qaeda nel paese, le autorità la scorsa settimana avevano condotto una serie di raid in tutto il territorio, arrestando migliaia di presunti «terroristi» o simpatizzanti. Se doveva essere una dimostrazione di forza per incutere a sua volta terrore nelle «schegge impazzite» bangladeshi, l’epilogo del più grave attentato in territorio bangladeshi della storia recente dovrà obbligare l’amministrazione Hasina a un cambio di strategia netto.
Il Bangladesh è certo uno di quei paesi nel quale – nonostante le autorità lo abbiano sempre negato – il jihadismo sembra aver attecchito da tempo. Purtroppo quanto accaduto all’Holey Artisan Bakery a Dhaka non è una vera sorpresa. Le autorità locali hanno sempre minimizzato, eppure solo due settimane fa hanno proceduto all’arresto di 11mila persone sospettate di essere vicine a gruppi terroristici. Va però specificato un punto di partenza rilevante. Mentre in altre zone del mondo questo tipo di «radicalismo» ha successo per la disintegrazione delle unità statali e delle identità culturali a causa delle devastanti guerre occidentali, nel Bangladesh non è direttamente la guerra ma la violenza sociale, lo sfruttamento manifatturiero delle multinazionali, e le reiterate lotte politiche interne a creare un terreno di disperazione, tale da consentire perfino a formazioni criminali ammantate di islamismo di fare proseliti con sempre maggior successo.
E il governo del paese, anziché favorire le attività dei sindacati e delle organizzazioni che lottano per i diritti civili, o di quei singoli o gruppi che si muoverebbero in quella direzione, nega il rischio e anzi colpisce con pugno duro le proteste che nascono da povertà e devastazione sociale, utilizzando i recenti attentati individuali per attaccare le opposizioni. In questo contesto sorgono diversi gruppi che si rifanno più o meno a Daesh o al Qaeda che nel Bangladesh si giocano una fetta importante del «mercato jihadista». Si tratta ad esempio di Jamaat ul Mujahidden Bangladesh o Ansarullah Bangla Team (considerato più vicino ai qaedisti). In Bangladesh il radicalismo vive dunque una situazione particolare, differente da altri contesti, perché nasce in ambito diverso.
Per questo è complicato leggere quanto accade: il terrorismo in Asia è differente da quello di altre zone del mondo e appiattire tutto in un unico blocco di analisi, senza distinguere origini e cause, non aiuta l’esatta comprensione del fenomeno. Un’ultima considerazione: definire, come ha fatto ieri Obama, «inevitabili conseguenze» le centinaia di morti «collaterali» dei raid effettuati con i suoi droni, aiuta davvero poco la condanna e il contrasto di questi efferati crimini.
Scrivi Bangladesh e dici povertà, ingiustizia, sovrappopolazione (150 milioni su un territorio grande la metà dell’Italia), alluvioni e inondazioni marine devastanti.
Dici Bangladesh e racconti una storia di risentimento sedimentato che diventa spesso violenza politica. Dici Bangladesh e pensi che la politica di quel paese è iperpolarizzata da quasi trent’anni e modellata su due partiti e, soprattutto, da due leader ormai ottuagenarie ma saldamente al potere. A turno: Sheikh Hasina dell’Awami League, un partito laico e nazionalista, e Khaleda Zia del Bangladesh Nationalist Party, organizzazione nazionalista e conservatrice.
Dici Bangladesh e vedi nella forza delle organizzazioni islamiste, a cominciare dalla Jamaat-e-Islami – formazione con status parlamentare – la capacità di raccogliere un consenso che nasce dalla frustrazione legata a un cambiamento che non si avvera e dove l’islam rappresenta una promessa di purezza e riscatto in una nazione che ha a lungo detenuto la palma del Paese più corrotto al mondo. C’è tutto quel che ci vuole per preparare il terreno e il brodo di coltura dove far crescere la trasformazione del risentimento in odio e violenza. Dove è facile insomma reclutare e, per un pugno di rupie, armare mani assassine. La strage del bar è un salto di qualità ma purtroppo non stupisce. La violenza politica è stata una costante in questo paese e negli ultimi anni, benché il governo di Hasina si ostini a negarlo, il brand di Daesh ha fatto parlare di sé molte volte con assassini mirati individuali e addirittura una lista di proscrizione di blogger, attivisti, intellettuali e insegnanti laici da far fuori.
Raccontata così però sarebbe una storia a metà, di quelle che si liquidano in fretta perché il paese è povero, sovrappopolato e per di più ingiusto e musulmano: abbastanza per derubricare il caso a vicenda di ordinaria povertà. Ma il Bangladesh è anche il luogo delle responsabilità nascoste che ancora una volta rimandano le radici dell’ingiustizia sociale a scelte prima coloniali e poi industriali.
Quel paese inizia la sua Storia «indipendente» nel 1947 quando la follia britannica, sostenuta da quella della Muslim League del subcontinente indiano, divide il nascente Pakistan in due Stati che distano tra loro…10 ore di volo. Il Pakistan orientale, abitato da bengalesi musulmani, con l’aiuto dell’India, si stacca dal Pakistan nel 1971 con una guerra sanguinosa le cui ferite non si sono ancora cicatrizzate (sono stati giustiziati di recente molti capi della resistenza pro pachistana accusati di crimini contro l’umanità).
Il paese ha una solo vera ricchezza, la iuta, il cotone e una rinomata tradizione manufatturiera, che fanno di questo paese un enorme cantiere tessile. Ed è in Bangladesh che in tempi recenti sbarcano le multinazionali del tessile che hanno scelto la delocalizzazione in paesi che lavorano in conto terzi: salari minimi, materia prima di buona qualità a prezzi bassi, scarsa capacità sindacale, governi col pugno duro quando si rivendica un diritto.
Ci sono un nome, un luogo e una data che raccontano bene questa storia: Rana Plaza a Dacca, il 24 aprile del 2013. Un edificio commerciale di otto piani, figlio di abusi speculativi locali, crolla a Savar, un sub-distretto della capitale. Il bilancio è gravissimo e le operazioni di soccorso richiedono quasi un mese e si concludono il 13 maggio con un bilancio di oltre mille vittime e oltre duemila feriti, molti dei quali ormai menomati e inabili al lavoro.
Quello che è considerato il più grave incidente mortale avvenuto in una fabbrica tessile e anche il più letale cedimento strutturale accidentale della Storia contemporanea, scoperchia anche le responsabilità di marchi europei, americani, italiani. Scoperchia il tema della sicurezza, dei diritti, dei risarcimenti che non arrivano. Farà aumentare il salario base ma lascerà anche intere famiglie sul lastrico. Eccolo un altro humus pieno di risentimento.
Nel Rana Plaza avevano i loro laboratori fabbrichette locali che lavoravano per grandi marchi internazionali. Loro a fare il lavoro sporco, gli altri a esibire t-shirt a basso prezzo con la griffe. Se non ci fossero state campagne internazionali di attenzione (in Italia la Ong «Abiti puliti»), se non si fosse mosso l’Ufficio internazionale del lavoro dell’Onu, la storia si sarebbe dimenticata in fretta. E, in queste ore, pochi la mettono in relazione alla strage di due giorni fa nella capitale. Eppure.
Eppure il Bangladesh è anche questo: la tragedia del Rana Plaza fa firmare a circa 160 compagnie il Fire and Building Safety, un primo passo per mettere in sicurezza strutture e forza lavoro che, nel tessile, conta circa 4 milioni di operai e operaie. Ma, dalle colonne del britannico Guardian, Tansy Hoskins, autrice del saggio Stitched Up: The Anti-Capitalist Book of Fashion, avverte che nonostante vi sia un elevato numero di sindacati del settore, sono pochi i lavoratori che vi aderiscono, il che li lascia vulnerabili agli abusi in fabbriche poco sicure.
Anche un sindacato importante come la National Garment Workers’ Federation deve affrontare grandi ostacoli perché per registrare un’organizzazione al Dipartimento del lavoro si deve nel contempo avere come soci un terzo della forza lavoro: insomma se vuoi registrati come attivo in una fabbrica con 10mila lavoratori ne devi avere come soci almeno 3mila… ma in Bangladesh se ti iscrivi rischi – dopo le minacce – il licenziamento. E una volta per strada, da vittima del mercato, è facile diventare il soldatino di qualche Califfo in cerca di nuovi sodali.