loader
menu
© 2024 Eddyburg
Christian Marazzi
La nemesi storica del capitale
21 Settembre 2014
Capitalismo oggi
«In un capitalismo che ha distrutto la forza politica 
della classe operaia, i movimenti sociali, a causa anche di una crisi ormai permanente, hanno caratteristiche spurie.
 Dobbiamo quindi immaginare
una lotta di classe che 
si faccia carico della
sofferenza alimentata
dalla crescita
delle diseguaglianze». Intervista di Gigi Roggero.
«In un capitalismo che ha distrutto la forza politica 
della classe operaia, i movimenti sociali, a causa anche di una crisi ormai permanente, hanno caratteristiche spurie.
 Dobbiamo quindi immaginare
una lotta di classe che 
si faccia carico della
sofferenza alimentata
dalla crescita
delle diseguaglianze». Intervista di Gigi Roggero.

Commonware, 16 Settembre 2014

Un secolo e mezzo fa Marx scriveva che non ci sono crisi permanenti, ma quella che oggi stiamo vivendo sembra averne le caratteristiche. Arrivati al suo ottavo anno, proviamo con Christian Marazzi a farne una periodizzazione, ad approfondire, mettere a verifica ed eventualmente ripensare le analisi che abbiamo fatto a partire dal 2007-2008. Ora qualcuno parla di una fase “post-austerity”: cominciamo con il capire se è davvero così e cosa questa fase significa realmente.

«Siamo nuovamente in una situazione in cui si addensano una serie di elementi di forte crisi, sicuramente nella zona euro ma anche su scala globale. Ciò avviene dopo un periodo durante il quale le politiche monetarie delle grandi banche centrali come la Federal Reserve, la Banca d’Inghilterra e la banca centrale giapponese, con forte iniezione di liquidità, avevano in qualche modo attenuato gli elementi strutturali della crisi. Questa era giunta al suo apice alla fine del 2011 in Europa e aveva registrato la svolta di Draghi con l’iniezione di 1.000 miliardi di euro nel sistema bancario, con la speranza o l’obiettivo di rilanciare il credito privato, sia alle imprese che alle famiglie.
«Oggi ci sono di nuovo tutti i presupposti per una fase turbolenta. Anche i maggiori analisti sono molto scettici rispetto all’ennesimo tentativo da parte del presidente della Banca Centrale Europea di far fronte ai grossi problemi che hanno una natura strutturale con una riedizione su scala europea di strategie monetarie basate sull’inondare il sistema bancario nei prossimi quattro anni con un credito che dovrebbe essere destinato alle economie domestiche e alle imprese e con una sorta di quantitative easing in versione europea per affrontare la deflazione. C’è scetticismo perché la domanda non tira: quindi, si può anche avere del credito a tassi di interesse pressoché nulli, ma se le imprese non si rivolgono alle banche perché non prevedono un rilancio della domanda di beni e servizi non creano occupazione. Genera perciò molti dubbi il tentativo di americanizzare la politica monetaria in Europa, soprattutto guardando a quelli che sono stati gli effetti delle politiche monetarie fortemente espansive negli Stati Uniti, in Inghilterra e in Giappone; ancora si dibatte sul ruolo che ha avuto l’azione della Federal Reserve nel resistere alla recessione, con tassi di crescita superiori a quelli europei e anche a quelli giapponesi. C’è dunque scetticismo sulla possibilità di fare quella politica monetaria che i governi, per motivi diversi, non vogliono fare.
«Ci sono per esempio le premesse per la riapertura del dibattito sui destini dell’euro, che pensavamo di avere rimosso e che invece si ripresenta grosso modo negli stessi termini. L’euro è una moneta che regge la crescita ma non la crisi. Più o meno funziona, come è stato negli anni dopo Maastricht, quando c’è uno sbocco per il credito agevolato, il più delle volte in termini di bolle speculative o immobiliari, ma quando entra in zona tensione come adesso riemergono tutte le sue debolezze. Ciò soprattutto in una fase in cui all’interno dell’Unione Europea non ci sono ancora un consenso e soprattutto una forza politica sufficienti per far fronte alla Germania e alla politica di austerità che continuamente impone, anche per ragioni molto autoreferenziali, in particolare per l’esposizione delle banche tedesche rispetto al debito sovrano di paesi fragili. Infatti, qualora i paesi del Sud non dovessero portare avanti tagli alla spesa pubblica, misure di ulteriore flessibilizzazione del mercato del lavoro e di contenimento delle pensioni, non potrebbero ripagare le banche tedesche».
«Mi sembra allora che siamo in una situazione in cui ci sono tutti gli elementi che portano da una parte a riaprire la questione dell’euro, dall’altra al problema politico che già abbiamo visto di un forte spostamento a destra su scala europea. La sinistra mostra invece di essere ampiamente inadeguata sulle grandi questioni, per esempio su quanta sovranità verrà erosa ai paesi membri nella prossima fase, oppure in che modo si riuscirà a rispondere alla tendenza dei movimenti di destra e di estrema destra che cavalcano gli effetti dell’austerità per ripristinare un concetto di democrazia su scala nazionale. Il quadro ovviamente è fortemente aggravato dalle tensioni geopolitiche che stiamo attraversando. Checché se ne dica, quello che sta succedendo in Ucraina ha degli effetti sull’economia tedesca: anche se non sono statisticamente rilevanti, è un ulteriore peggioramento del cosiddetto clima di fiducia rispetto al futuro e alla possibilità di investimento della classe imprenditoriale. Lo stesso dicasi della situazione in Medio Oriente. È anche vero che la crisi della zona euro ha a che fare con delle tendenze di fondo che avevamo già evidenziato: per esempio il fatto che la Germania sia orientata verso la Cina, la Russia e i Brics, mentre il suo interscambio con il resto dell’Europa sta diminuendo. È dunque chiaro che questa miscela tra lo sguardo verso oriente dell’economia tedesca e la situazione geopolitica è piuttosto esplosiva. Io continuo a credere che per la Germania l’Europa sia un fardello di cui in futuro, chissà, potrebbe cercare di liberarsi. Ovviamente sono tendenze a lungo termine, però dentro a questo quadro le tensioni continuano ad accumularsi, anche all’interno della stessa Germania, per non parlare di quello che sta succedendo tra i paesi membri, in particolare l’Italia e la Francia, che non sono in grado di scalfire l’egemonia tedesca.
«Tutto ciò per dire che siamo di nuovo a un punto di inizio di una fase di crisi che però è peggio di un punto zero, perché nel frattempo gli effetti dell’austerità, in particolare la deflazione, si stanno facendo sentire molto pesantemente, quindi ne vedremo delle belle nei prossimi tempi».

Il nodo dell’Europa resta irrisolto, nel frattempo procede la sua implosione, o quantomeno l’estrema frammentazione. Draghi sostiene che è arrivato il momento in cui i paesi della zona euro cedano sovranità all’Europa per le riforme strutturali, proponendo uno scambio tra flessibilità sui conti e riforme. Ciò alimenta ulteriormente la reazione sovranista, ma al contempo pone seri problemi a una prospettiva europeista che non prenda atto di ciò che oggi l’Unione Europea è: un mostro, come l’hai definita l’anno passato. Come vanno ricalibrate le prospettive politiche rispetto a questo nodo?
«Lo manterrei irrisolto. Nemmeno dal punto di vista del peso della destra nel Parlamento europeo, per quello che può contare, si vede una forza sufficiente per frenare, condizionare o ri-orientarequesto tipo di crisi permanente. La Bce ci sta provando, quella che si può definire una svolta americana nella politica monetaria europea guidata da Draghi contrasta con le idee e gli obiettivi di una Bundesbank. Fino a qualche mese si poteva usare la formula ‘una vecchia tattica per una nuova strategia’, per evitare di cadere nella trappola tra l’uscita dall’euro secondo un approccio basato sulla sovranità monetaria nazionale oppure un sostegno all’euro così com’é. Noi avevamo buttato lì l’idea della moneta del comune, per evitare di essere strozzati dentro questa alternativa che aveva in entrambi i casi qualcosa di pericoloso. Mi domando infatti come possa essere immaginata una sovranità monetaria nazionale oggi, anche in una sua declinazione di sinistra, con delle monete nazionali legate tra di loro da tassi fissi ma aggiustabili, con un euro sovranazionale. Bisogna però riconoscere che finora la moneta del comune resta una prospettiva tutta da costruire anche teoricamente. Per il momento mi sembra che sia stata intesa nei movimenti più che altro nei termini di monete sub-sovrane e parallele; per quanto siano cose sperimentalmente interessanti, siamo però ben lontani da una costruzione teorico-politica tale da rendere l’idea della moneta del comune qualcosa di operativo o comunque di agibile, capace cioè di aggregare forze, consensi, alleanze. Insomma, resta un capitolo da scrivere: da salvaguardare è tuttavia l’intento politico, cioè da una parte porre un’istanza di redistribuzione della ricchezza, dall’altra fare in modo che questa istanza abbia una valenza sovranazionale in termini di definizione di diritti e di spazi di democrazia. Ciò rimanda alla questione dell’organizzazione e delle sue forme, su cui poi vale la pena ritornare»

Nello scenario che hai delineato che peso ha il T-tip, l’accordo tra Europa e Stati Uniti?
«Gli Stati Uniti hanno fatto dei passi in avanti con questi accordi di libero scambio e ciò li mette in una condizione di egemonia rispetto all’Europa. D’altronde gli Stati Uniti sono ancora detentori del dollaro che, per quanto sia diminuito il suo ruolo come valuta di riserva, resta però ancora la moneta che decide dei flussi su scala mondiale, soprattutto in una fase di crisi. Il tentativo degli Stati Uniti è di uscire dal quantitative easing nei prossimi mesi, e non è detto che necessariamente ciò comporti un aumento dei tassi di interesse; potrebbe darsi che l’acquisto di buoni del tesoro e di obbligazioni cartolarizzate venga effettuato a svantaggio dell’Europa, cioè con flussi di capitale che vanno dal vecchio continente agli Stati Uniti. Ciò potrebbe sì favorire l’Europa dal punto di vista dei tassi di cambio: una delle cose previste dalla maggioranza degli analisti è una svalutazione dell’euro, dovuta sia alle politiche monetarie espansive della Bce, sia a questi flussi verso l’area del dollaro. Significherebbe però che l’economia potrebbe crescere nella crisi in termini di esportazione, come è successo soprattutto alla Spagna: non è dunque di per sé una buona notizia, perché si tratta di forme di crescita in cui si possono avere dei tassi di povertà e disoccupazione molto elevati e allo stesso tempo, o meglio proprio per questo, un aumento di esportazioni che sarebbero più competitive sul piano sia dei costi che dei tassi di cambio. Tutti capiscono che c’è un problema di domanda, quindi di salari e di distribuzione della ricchezza. Le ineguaglianze sono cresciute mostruosamente, prova ne è – anche dal punto di vista mediatico ma non solo – il successo del libro di Piketty. Tuttavia, se da una parte si vede questa carenza di domanda, dall’altra ci sono dei problemi che rendono terribilmente difficile immaginare (al di là delle forme trite e ritrite del vecchio keynesismo, del rilancio delle spese infrastrutturali e degli investimenti pubblici) come si possa effettivamente rilanciare la domanda interna.

«Credo che qua il capitale stia subendo una sua nemesi storica. Ha distrutto la classe operaia fordista, questo è il miracolo che gli è riuscito; però, il capitale è per definizione, in termini marxiani, un rapporto sociale, quindi distruggere la classe operaia ha significato distruggere quella dinamica che è legata all’essenza stessa del capitale, appunto il suo essere un rapporto sociale, quello che gli permette di crescere. In un certo senso, quindi, la vittoria sulla classe operaia ha avuto e sta avendo un effetto negativo per il capitale stesso, che certo persegue anche dal punto di vista ideologico la sua lotta per l’attacco ai salari e alla stabilità occupazionale, però si ritrova nella forte difficoltà a perseguire degli obiettivi che farebbero il suo stesso interesse, come una più equa distribuzione della ricchezza. Uno dei problemi centrali delle politiche monetarie è certamente legato alla trappola di liquidità, cioè il fatto che se il cavallo non beve si può anche abbassare il tiro dei tassi di interesse, ma non si ha una ripresa dell’economia e del credito, incorrendo nel rischio di avvilupparsi. «Credo però che il problema sia ancora più radicale: quando il capitale ha distrutto la classe operaia così come l’abbiamo conosciuta, soprattutto l’ha distrutta attraverso la desalarizzazione, la decontrattualizzazione e le misure capillari di precarizzazione del lavoro, si è privato della possibilità stessa non tanto di creare la liquidità, ma di integrarla nel circuito economico. Il denaro viene creato per monetizzare i salari; nel momento in cui i salari non ci sono più nella forma della contrattazione e dell’ubicazione della classe operaia, si aprono le porte a un’integrazione della liquidità che va da tutte le parti, che crea rendite e reddito non nella forma di leva del consumo ma come ricchezza improduttiva, molto concentrata nelle classi alte, il famoso 1% più ricco, incapace di sgocciolare verso il basso. C’è quindi un problema serio creato dalla distruzione dell’istituzione del salario, che rende la politica monetaria destinata ad alimentare la finanziarizzazione e la concentrazione della ricchezza verso l’alto. In questo senso il problema è strutturale»

Possiamo quindi dire che l’esplosione della forma-salario come misura di un rapporto sociale fondato sull’antagonismo è un problema tanto per le lotte quanto per il capitale...
«Esatto. Non è consolatorio dire che questa è una forma di vendetta della classe operaia fordista; però, non solo noi siamo orfani delle logiche del movimento operaio, ma il capitale stesso si è privato di un soggetto con il quale fare luce e creare sapere sulla possibilità di produzione di ricchezza. Nel ‘Poscritto’ a Operai e capitale, Tronti scriveva che quello che aveva portato alla grande crisi del ’29 era stato il silenzio operaio nel corso degli anni ’20. La mancanza di lotte opacizza anche la possibilità di sviluppare dei sentieri di crescita che siano capaci di creare società. Negli anni ’30 i primi esperimenti di stato sociale, ancora insufficienti, avevano indicato una strada verso il welfare state; oggi questo non c’è. La centralità odierna della geopolitica riflette l’affannata ricerca di interlocutori su un piano globale e non locale; questo però non basta, perché se tutti i paesi sono in crisi o non riescono a trovare delle modalità di crescita, ciò non fa che acuire le tensioni e le contraddizioni geopolitiche. Credo quindi che si tratti di una questione molto profonda: pone a tutti noi, che stiamo dalla parte del proletariato e dei soggetti della crisi, il problema di quale possa essere un modo di ricostruire un terreno sul quale la lotta degli uni sia anche la lotta degli altri. Ciò ovviamente senza tornare al rapporto salariale, che è sempre stato un rapporto capitalistico, per quanto al suo interno ci fosse la dimensione dell’antagonismo e della conflittualità. Siamo di fronte al problema di definire una lotta di classe post-salariale. Certo, ci sono stati e ci sono dei tentativi e delle rivendicazioni condivisibili sul reddito che pongono il problema della ridefinizione di un terreno di contrattazione in cui si possano aggregare dei soggetti che un salario non sanno nemmeno cosa sia, che conoscono una remunerazione puntuale ma non qualcosa che abbia un futuro e un percorso. La forza della relazione salariale era infatti di comprendere la vita nella sua interezza, dalla formazione dei figli alla vita attiva fino al pensionamento; oggi questa consequenzialità non c’è più. Forse molti esperimenti (tra cui le monete parallele, o quelli di cui parla il libro di Rifkin sulla società della condivisione) sono materia per poter cominciare a elaborare delle strategie. Da questo punto di vista, quella che chiamiamo organizzazione politica è allo stesso tempo un’organizzazione che produce questo terreno dell’aggregazione e della condivisione, senza un prima e senza un dopo, ma in una dimensione di contemporaneità tra lotta politica e lotta per la costruzione di tessuti e spazi condivisi».

La definizione di un campo di lotta post-salariale è una questione centrale. La prospettiva del reddito è importante, ma va incarnata in terreni concreti. Uno di questi può forse essere quello della fiscalità e delle tasse, portato in primo piano da movimenti come quello del 9 dicembre che hanno quelle caratteristiche ambivalenti e spurie che tu qualche tempo fa avevi individuato come connotazioni prevalenti e inevitabili delle lotte dentro la crisi. Cosa ne pensi?
«È una questione grande e inaggirabile. In molti paesi si è cercato di far fronte ai problemi della spesa pubblica e della gestione del debito sovrano attraverso una fiscalità incrementale, che però impatta in modo iniquo. Si pensi per esempio alla distribuzione patrimoniale: appena si toccano le aliquote sul patrimonio si colpiscono soprattutto i ceti più deboli, per quanto si parli di evasione fiscale. Da una parte penso che vada affrontata la questione della fiscalità come migliore equità, dall’altra mi sembra che ci sia un problema di rappresentanza: c’è il vecchio slogan ‘no taxation without representation’, che si potrebbe anche invertire in ‘no representation without taxation’, nel senso che l’evasione fiscale è un fatto gigantesco, ovviamente facilitato dalla globalizzazione, e va riportato alla questione dei beni comuni. Il libro della Mazzucato Lo stato innovatore pone a suo modo la questione di quanto denaro pubblico sia stato investito nella ricerca di base e di quanto sia stato appropriato privatamente, con tutti i risultati, le scoperte e le innovazioni finanziate da noi, dalla collettività. Si pensi al funzionamento di Apple e delle grandi corporation della nuova economia. Riuscire a ristabilire un ordine fiscale che abbia al suo centro ciò che di comune c’è nella crescita e nell’innovazione è un criterio per affrontare la questione fiscale».

Come dici tu la questione è enorme. C’è un discorso classico della sinistra contro l’evasione fiscale; oggi però dobbiamo chiederci cosa la fiscalità e le tasse significhino per le nuove figure del lavoro e per i soggetti colpiti dalla crisi, per i lavoratori autonomi di seconda ma anche di prima generazione, per i ceti medi impoveriti, per chi cerca di sbarcare un lunario con qualche attività più o meno improbabile, fino ad arrivare alle imposte comunali che costituiscono un prelievo forzoso sui servizi alla collettività, sul cosiddetto “diritto alla città”. Il rifiuto delle tasse può in questo senso essere agito e diventare uno dei terreni di lotta post-salariale?
«Già qualche tempo fa, come dicevi, abbiamo parlato della natura di questi movimenti, che è molto difficile definire in un senso o nell’altro. Mi ricordo per esempio una serie di analisi fatte sulla composizione sociale del movimento dei ‘forconi’. Rientra in quanto dicevamo prima: in che misura riusciamo effettivamente a dare corpo a questa moltitudine, in quanto soggetti plurali che non si lasciano comprimere o ridurre alla sintesi, che restano tanti in quanto tanti e che però sono accomunati dalla possibilità stessa di sopravvivere. Ciò attraversa una serie di ambiti, si pensi alla speculazione immobiliare che espelle gente dai quartieri per svuotarli e lasciare spazio alle iniziative dei privati. Oppure si pensi al ruolo delle tasse che sono delle forme di rendita dello Stato».

Anche perché dobbiamo porci il problema di non lasciare le lotte contro le tasse, in quanto rendita dello Stato appunto, alla destra o nel caso italiano alla Lega, per farne un terreno di conflitto comune dei soggetti della crisi...
«Concordo. È delicato, però credo sia giusto cominciare a porre oggi la questione dell’organizzazione: non per fare chissà quali salti in avanti, ma è un modo per affrontare tutte queste istanze nei termini di un agire politico che renda conto della deflagrazione sociale. È un passaggio obbligato dei prossimi anni. Dobbiamo iniziare a pensare all’organizzazione militante e politica da una parte in termini di condivisione, dall’altra come costruzione paziente di terreni di alleanze e anche di linguaggi che ci permettano di capire e interloquire con questi soggetti della crisi, non necessariamente nuovi. È la questione che ci sta davanti».

Dovremmo pensare in termini più approfonditi il rapporto tra crisi e lotte, che spesso è stato immaginato in termini lineari. Le lotte in Brasile dell’anno passato sono avvenute in uno scenario di “aspettative crescenti”, come era stato per il ciclo di lotte dell’operaio massa negli anni ’60: so di poter avere tanto, se mi offrono cento voglio mille. Qui ci troviamo in una situazione opposta, di aspettative decrescenti: per restare al contesto italiano, il Jobs Act (che avrà probabilmente uno dei suoi terreni di sperimentazione concreta nell’Expo di Milano) istituzionalizza non solo la precarietà permanente, ma addirittura il lavoro gratuito. Dice soprattutto ai giovani: potete avere zero, quindi se prendete cinque è già tanto. Ciò non produce in termini automatici conflitto, al contrario in molti casi innalza i livelli dell’accettazione. Possiamo quindi leggere la crisi come un tentativo – molto connotato anche dal punto di vista generazionale – di normalizzare una radicale riduzione delle aspettative?
«Da un po’ di tempo ho la netta impressione che si faccia molta fatica a render conto della sofferenza. Qui siamo in una società malata di sofferenza, di dolore, di incapacità di reimmaginare qualche futuro anche a breve termine. In una situazione del genere si pone sicuramente il problema di pensare a un agire politico anche in termini di cura, di rivendicazioni proprio sul piano del rifiuto della crisi come rifiuto della sofferenza. Non sto dicendo che dobbiamo rendere il futuro ancora più catastrofico di quello che sembra essere, ma non si può non affrontare la questione dell’agire politico senza porsi il problema della sofferenza e di quello che la gente fa per convivere con queste aspettative decrescenti. Penso che non si possa immaginare una pluralità di interventi in questa situazione senza attivare una serie di fronti come la cura del quartiere, dello spazio, della salute, degli affetti; quello che abbiamo chiamato il comune va dunque soggettivato e fortemente concretizzato. I contributi di Silvia Federici sono a questo proposito preziosi: le esperienze a livello di quartiere, dagli orti urbani comuni alle forme di condivisione della riproduzione, mi sembrano un buon modo per porre la questione non tanto di un’inversione delle aspettative decrescenti, ma della ricostruzione dei tessuti di soggettività».

Il che è stato uno degli elementi che ha consentito al ciclo di lotte di Occupy una capacità espansiva...
«Bisogna riuscire a distillare da queste grandi esperienze recenti qualcosa che permetta di andare al di là della loro apparente orizzontalità. È vero, dal 2011 in poi sembra che questi movimenti non si siano posti il problema di una verticalizzazione delle mobilitazioni, però bisogna stare attenti: in questa orizzontalità c’è anche molta profondità, ed è la cosa che va ripresa e tesaurizzata politicamente. I movimenti esplodono, pongono delle questioni, hanno una loro esemplarità, però non tengono in eterno, sono destinati a ritornare sottotraccia. E tuttavia, cosa c’è dopo e cosa hanno sedimentato? A me sembra che sia proprio questo consolidamento del comune concreto e di soggetti del comune che permettono di far fronte alla sofferenza, alla solitudine, all’isolamento, a tutto ciò che rende le aspettative decrescenti qualcosa di insopportabile».

Per concludere, ritorniamo allo scenario geopolitico e alle crescenti contraddizioni che hai individuato. Pensiamo, per citare un’ulteriore fonte di grande apprensione in Occidente, alla scelta dei Brics di creare la propria istituzione finanziaria, la New Development Bank. Nel frattempo, tra Ucraina, Siria e Iraq la guerra torna al centro della scena, insieme all’ennesima aggressione militare di Israele contro i palestinesi. La guerra, nelle forme parzialmente nuove che ha assunto, ridiventa così per il capitale un modello per affrontare la crisi globale e regolare i conti geopolitici?
«Qualche settimana fa il papa ha detto che è iniziata la terza guerra mondiale: non so se abbia ragione nel formularla in questi termini, ma indubbiamente c’è qualcosa che va in quella direzione. L’impressione è che ci sia una volontà di destabilizzazione da parte dei poteri forti. Senza cadere in una dimensione cospirativa, va detto che ciò è anche la conseguenza di un’economia finanziarizzata, che riduce per esempio il volume del commercio mondiale, creando quindi delle istanze neo-protezionistiche e contribuendo a esacerbare delle tensioni esplosive e molteplici, che hanno a che fare con questioni etniche o religiose, oltre che economiche e politiche. C’è in questo senso un precedente storico: sono i vent’anni che hanno preceduto la prima guerra mondiale. Dopo la crisi degli anni ’90 dell’800, le tensioni hanno portato le economie mondiali allo scoppio della guerra come sbocco, con i primi tentativi di keynesismo ante litteram per rilanciare l’economia a fronte dei problemi del commercio internazionale, attraverso il riarmo e questo tipo di investimenti pubblici. Sono solo esempi, che però non vanno sottovalutati. La tensione è fortissima, ci sarà di nuovo la questione della pace che rispunterà, anche se al momento tutto sembra tacere, ma non vedo come si possa non confrontarsi con questo scenario che è molto inquietante».

ARTICOLI CORRELATI
12 Luglio 2019

© 2024 Eddyburg