Non è pazza la mucca. È pazzesco tutto ciò che la circonda, sostiene Piero Bevilacqua, storico dell' Università di Roma. E cioè: un' agricoltura che ha smarrito le sue regole, riducendosi ad essere il ramo subalterno dell' industria chimica; i luoghi di allevamento degli animali che si sono trasformati in «ospedali zootecnici per la produzione di carne e latte su larga scala»; la totale artificialità in cui è precipitato un ambiente «che confligge sempre più apertamente con la vita reale» e con la sua storia millenaria e che ora si consegna alle modificazioni genetiche. La mucca è savia. Le ragioni storiche della crisi alimentare europea si intitola il libro che Bevilacqua sta per pubblicare da Donzelli (pagg. 144, euro 11,30: esce lunedì) e che piomba alla vigilia del vertice Fao dove anche di questo si discuterà. Bevilacqua è il principale storico dell' agricoltura italiana (suoi i tre volumi editi da Marsilio fra il 1989 e il 1991), è studioso del paesaggio e del territorio: non è possibile, secondo lui, raccontare la vicenda umana senza calarla in un contenitore naturale, senza intrecciare la storiografia con i dati materiali della vita collettiva, arricchendola con altre discipline, la geografia, l' agronomia, la chimica. Perché, professore, la mucca non è pazza?
«Perché è il risultato rigorosamente coerente del modo di produzione agricolo che si è affermato nell' età contemporanea». Niente di sorprendente? «Il morbo della Bse ha un' origine fortuita. Ma la storia non è mai una catena di ovvie casualità. È molto probabile che l' infezione si sia diffusa attraverso le farine animali ottenute incenerendo carcasse di montone. Mi domando: perché mai un animale erbivoro come la mucca si è cibato di farine animali?».
Giro a lei la domanda.
«È la conseguenza della trasformazione imposta all' allevamento degli animali, che nella maggioranza dei casi sono ingrassati in una condizione di patologia controllata».
Che cosa vuol dire?
«Vuol dire che i grandi allevamenti sono dei laboratori in cui si fanno sperimentazioni. Gli animali sono nutriti con i mangimi, e dosi e qualità sono controllate solo dagli allevatori e non dagli animali stessi. Le cose che mangiano, il fatto che restino immobili, stretti l' uno all' altro, provocano ai bovini malattie che vengono curate con ormoni, vitamine, antibiotici, antiparassitari. È un' industria ospedaliera della carne».
È anche un circolo vizioso.
«Sì. Più si rende artificiale la vita degli animali, più sono necessarie iniezioni di artificio per contenere i danni provocati dall' artificio».
Un paradossale gioco di parole. Quando è iniziata questa trasformazione?
«Fino alla seconda guerra mondiale, gli allevamenti europei conservano un certo equilibrio fra la vita libera degli animali e la vita in stalla. L' allevamento arricchisce il paesaggio agrario, stabilizza gli equilibri ambientali. E il bestiame fa parte di un' azienda agricola, fornisce il letame per la concimazione e mangia i foraggi coltivati. Le stalle servono per proteggere gli animali, ma ogni buon allevatore ottocentesco sa che non può tenere una mucca troppo tempo al chiuso. Tutta la letteratura agronomica del XIX secolo insiste perché non manchino l' aria, la luce, il moto e anche il fango e la pioggia».
È l' introduzione dei mangimi che sconvolge queste regole?
«I mangimi sono il prodotto di una ossessione. Quella di fornire agli animali un' alimentazione più ricca per aumentare il loro peso. In Inghilterra, alla fine dell' Ottocento, si scopre che i panelli di semi usati per produrre olio fanno ingrassare i bovini».
Ma anche la convenienza economica favorisce questo uso. «Certamente. Ed è così, per l' ossessione di comprimere i costi, che negli ultimi anni siamo arrivati a incenerire le bestie morte, a sbriciolare anche zoccoli, peli, penne e interiora, e a servire questa farina ai bovini. Profitto e competizione hanno sovvertito tutte le leggi naturali». Quand' è che i mangimi sostituiscono il foraggio naturale?
«La chimica entra in scena a metà dell' Ottocento in Francia, Germania e Gran Bretagna. Ma a lungo convive con le tecniche tradizionali: prende il sopravvento soltanto un secolo dopo. Pensi che uno dei padri della chimica moderna, lo scienziato che elabora le formule per produrre concimi industriali, il tedesco Justus von Liebig...». ...quello dei dadi da brodo? «Sì, proprio lui. Bene, Liebig è fra i primi ad allarmarsi siamo intorno al 1840 per il fatto che l' agricoltura possa uscire dal grande circuito che le aveva sempre assicurato la vita. Ogni uomo, animale, essere vivente, diceva Liebig, consuma della materia minerale che deve essere restituita alla sua origine se si vuole che la vicenda produttiva continui».
Vale a dire?
«A quel tempo l' agricoltura è ancora inserita in un circuito vitale. La terra si concima con il letame animale e con i residui delle attività contadine, la cenere di legna o di torba, l' erba e il fogliame decomposto. E alla fertilità dei terreni contribuisce anche la città: si utilizzano i rifiuti domestici e lo stesso letame umano. Fra le pagine più belle del Goethe viaggiatore figurano quelle dedicate ai raccoglitori di immondizie per le vie di Napoli che trasportano il loro carico negli orti».
L' irruzione della chimica spezza questo cerchio?
«Sì, è un elemento estraneo. I mangimi e i concimi chimici sono prodotti industriali, non fanno parte del circolo millenario sul quale si è retta l' agricoltura».
Ma possiamo tornare ai modi di produzione dei secoli scorsi?
«Non è questo il punto. Dobbiamo domandarci però dove ci porta l' agricoltura intensiva e industriale».
Secondo lei dove porta?
«È già in un vicolo cieco. L' agricoltura europea accumula eccedenze, scivolando da una crisi di sovrapproduzione in un' altra. Tutte le volte che la tecnica umana assoggetta oltre un certo limite la natura, forse riesce ad aumentare temporaneamente la quantità di prodotto, ma alla lunga si trasforma in elemento di distruzione».
Per esempio?
«I concimi chimici aumentano la produttività, ma impoveriscono l' humus del terreno che diventa sempre più mineralizzato e quindi più soggetto alle erosioni. Più concime si mette, più ce ne vuole. Si saccheggiano le miniere di potassio e di fosforo, l' azoto avvelena le falde idriche, si inquina l' ambiente, si indebolisce la vita delle piante e scade la qualità dei prodotti. E poi i concimi producono parassiti. L' azoto modifica la fisiologia delle piante e le rende più vulnerabili agli insetti. Fin dagli anni Trenta si studia l' ipotesi che gli antiparassitari selezionino i parassiti, li rendano più potenti e producano nuove malattie».
Però antiparassitari, concimi e mangimi sono più economici.
«È vero fino a un certo punto. Dal 1910 al 1985 la produttività è cresciuta di quattro, cinque volte, l' impiego di concimi di sedici, diciassette volte, persino di venti in Spagna». Lo stesso vale per gli allevamenti? «In Germania una mucca dopo tre cicli di lattazione è ormai deperita. Un tempo un vitello viveva quindici anni. Oggi la media è sette. E sa come si fronteggia questa moria? Importando animali da tutto il mondo oppure aumentando le spese per le medicine e per i veterinari. La vicenda della Bse è uno dei più gravi casi di smacco dell' economia di mercato nell' ultimo mezzo secolo». Esistono alternative a queste pratiche agricole? «Per molte razze pregiate di bovini si adottano altre cure. È il caso della chianina in Toscana, della modicana in Sicilia, oppure della marchigiana o della podolica. Ma di un' agricoltura diversa si parla fin dagli anni Trenta, quando si compiono sperimentazioni biologiche e biodinamiche nel Nord Europa, negli Stati Uniti e in Australia. Viene recuperata molta tradizione, ma si utilizzano anche le nuove conoscenze dell' entomologia». Quali, per esempio? «Le piante hanno sempre vissuto in un ambiente biologicamente complesso. Accanto alle colture i contadini europei conservavano molte specie selvatiche, in cui si annidavano i cosiddetti insetti pronubi, quelli che divorano i parassiti. Questi sistemi sono un cardine dell' agricoltura diversa si parla fin dagli anni Trenta, quando si compiono sperimentazioni biologiche e biodinamiche nel Nord Europa, negli Stati Uniti e in Australia. Viene recuperata molta tradizione, ma si utilizzano anche le nuove conoscenze dell' entomologia».
Quali, per esempio?
«Le piante hanno sempre vissuto in un ambiente biologicamente complesso. Accanto alle colture i contadini europei conservavano molte specie selvatiche, in cui si annidavano i cosiddetti insetti pronubi, quelli che divorano i parassiti. Questi sistemi sono un cardine dell' agricoltura biodinamica. Oggi invece si tende a sfruttare anche l' ultimo centimetro quadrato, si abbattono le siepi, si estirpano gli arbusti. Un tempo i terreni si lasciavano riposare e si variavano continuamente le coltivazioni. Ora vediamo solo gigantesche distese di monocolture».
Quali vantaggi può ricavare l' agricoltura dalle modificazioni genetiche?
«Parlo da storico, quindi nulla posso dire sulla nocività degli Ogm. Mi sembrano comunque un ulteriore balzo nell' artificialità e noi sappiamo che ogni salto tecnologico in questo settore genera problemi più complicati di quelli che si volevano risolvere».
A cosa pensa?
«Si dice che gli Ogm resistano ai parassiti, addirittura che possano salvare prodotti di qualità oggi minacciati di estinzione. Ma noi sappiamo che la virulenza dei parassiti non è un dato naturale, bensì storico. La loro forza cresce perché l' ambiente è degradato. Chi ci assicura che le piante geneticamente modificate non divengano poi vittime di nuovi parassiti o di vecchi parassiti oggi inoffensivi? La strada da seguire, quella che ci suggerisce la storia, è che l' agricoltura torni iuxta propria principia».