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Tomaso Montanari e Francesco Pallante
La mossa del cavallo e le regole della democrazia
16 Marzo 2018
Politica
Micromega, 15 marzo 2018. Acrobazie sulla vecchia scacchiera della politica politicante sull'orlo di un abisso popolato da terribili mostri, oppure mossa geniale per sorvolare il baratro?Puntiamo sul meglio


La "mossa del cavallo di cui si parla La mossa del cavallo proposta da Paolo Flores d’Arcais a Luigi Di Maio [1] potrebbe riuscire non solo a risolvere nel modo più avanzato lo stallo post-elettorale, ma darebbe anche corpo ai più profondi desideri del popolo della sinistra, oggi ridotto a «volgo disperso che nome non ha»: un governo composto e guidato da personalità esterne ai partiti, capace di attuare un programma di svolta nella direzione di una piena attuazione del progetto della Costituzione.


Un simile governo, argomenta Flores, non potrebbe che essere sostenuto da Movimento 5 Stelle, Partito Democratico e Liberi e Uguali. Ora, è perfettamente legittimo che il Pd decida di rigettare questa proposta, ma è davvero impossibile condividere le considerazioni di ordine politico, e addirittura morale, che vengono in queste ore avanzate per giustificare un simile diniego.

Per bocca di molti suoi autorevoli dirigenti, il Pd ha affermato che sostenere un governo insieme ai 5 Stelle significherebbe tradire il mandato degli elettori, i quali – si dice – avrebbero voluto collocare il Pd all’opposizione. Per rispettare questo mandato, dunque, il Pd sarebbe disposto ad accettare l’eventualità di un governo del centrodestra a guida Salvini, o quella di una lunga assenza di un governo. «Siamo incompatibili con i 5 stelle», ha detto Andrea Orlando. «Non c’è bisogno di dire che siamo all’opposizione. C’è bisogno di dire che ci siamo presentati con una proposta alternativa ai Cinque Stelle e che, pertanto, non possiamo farci un governo», ha aggiunto Carlo Calenda.

Alla base di queste dichiarazioni non c’è solo l’intollerabile ipocrisia di chi – in regime maggioritario – ha governato con i voti di Verdini e formato governi con i vari Lupi e Alfano. C’è, più profondamente, una sostanziale incomprensione della legge elettorale voluta dallo stesso Partito Democratico, oltre che una radicale ignoranza dei meccanismi elementari del funzionamento di una repubblica parlamentare.

Il Rosatellum è una legge elettorale irrazionalmente complicata e, con ogni probabilità, incostituzionale. Ma questo non perché impedisca la creazione di una stabile maggioranza parlamentare, bensì, soprattutto, per i meccanismi di manipolazione dei voti espressi dagli elettori (liste incapienti, liste deficitarie/eccedentarie, divieto di voto disgiunto, pluricandidature) che fanno dubitare dell’uguaglianza, della libertà e persino della personalità del voto in spregio all’articolo 48 della Costituzione.

Invece, in queste ore si sta facendo strada nei commenti giornalistici e nell’opinione pubblica la convinzione che le urne abbiano restituito un Parlamento ingovernabile proprio a causa del Rosatellum. Una legge – è stato detto – fatta apposta affinché nessuno potesse vincere.

Dal voto emerge che nessun partito si avvicina, nemmeno lontanamente, alla soglia della maggioranza assoluta. Al meglio posizionato – il M5S – mancano 18 punti percentuali e anche ricomponendo il quadro politico per coalizioni la distanza dalla metà più uno dei consensi rimane abissale (la compagine di centrodestra, la più votata, avrebbe comunque bisogno di un ulteriore 13% dei consensi). La realtà è quella di un sistema politico che, fallito il tentativo di Liberi e Uguali, permane articolato su tre poli, sia pure di consistenza differente: il centrodestra (che pesa intorno al 37% dell’elettorato), il centrosinistra (pari a poco meno del 20% degli aventi diritto) e il M5S (che raccoglie il 32% dei voti). Tale realtà sostanzialmente si rispecchia nella distribuzione dei seggi parlamentari. Alla Camera: il centrodestra può contare su 260 deputati (pari al 41,2% del totale), il M5S su 221 (il 35,1%), il Pd su 112 (il 17,7%). Al Senato: 135 senatori vanno al centrodestra (il 42,8% del complesso), 112 al M5S (il 35,5%), 57 al Pd (18,1%).

In effetti, il Rosatellum ha funzionato come una legge essenzialmente proporzionale, producendo un Parlamento che rispecchia da vicino l’articolazione e la consistenza delle posizioni politiche presenti nel corpo elettorale.

Dati questi numeri, che cosa allora realmente significa accusare la legge vigente di essere stata congegnata per non far vincere nessuno? Evidentemente, auspicare una legge elettorale che permetta di determinare comunque un vincitore, nonostante l’articolazione tripolare del quadro politico. Vale a dire, non una legge “semplicemente” maggioritaria, ma una legge in ogni caso majority assuring. Una legge, cioè, strutturata in modo analogo a come lo era … l’Italicum!

Come si può leggere qui (e pur con tutte le cautele del caso), l’Istituto Cattaneo ha ipotizzato che con i risultati delle ultime elezioni nessuna forza politica avrebbe comunque conseguito la maggioranza assoluta né se si fosse votato con il Porcellum, né se si fosse votato con Consultellum. YouTrend ha esteso la simulazione al Mattarellum e alle leggi elettorali inglese, francese, tedesca, spagnola e greca: in tutti i casi, nessuna forza politica o coalizione sarebbe uscita dalle elezioni con una pattuglia di parlamentari idonea a sostenere il governo autonomamente. Da sottolineare il caso della legge francese, anch’essa improduttiva di una maggioranza assoluta posto che, accedendo al ballottaggio i partiti forti almeno del 12,5% al primo turno, in moltissimi collegi la sfida sarebbe comunque stata a tre e non a due. Niente governo «la sera stessa delle elezioni», dunque, né col proporzionale, né col premio di maggioranza, né col maggioritario a turno unico, né col maggioritario a doppio turno.

Torna, allora, la domanda poco sopra formulata: cosa significa addossare al Rosatellum la responsabilità dell’attuale situazione di ingovernabilità? Significa – nessun’altra risposta è possibile – invocare l’Italicum, la sola legge elettorale che, in virtù di un turno di ballottaggio nazionale, anziché di collegio, e ristretto ai due soli partiti più votati, avrebbe certamente assegnato più della metà del Parlamento al partito prescelto dall’elettorato nella seconda votazione.

Non è qui necessario tornare sulle ragioni di incostituzionalità di tale legge (basti ricordare che sono state dalla Consulta tra l’altro motivate proprio con riferimento alle modalità del ballottaggio, eccessivamente distorsive della volontà popolare). A rilevare, in questa sede, è il profilo politico della questione, il riflesso condizionato che oramai induce anche molti di coloro che si sono opposti alle riforme renziane a vedere nella «governabilità» il valore assoluto al quale affidarsi nei momenti di difficoltà.

La mentalità maggioritaria si è radicata in profondità nel tessuto sociale, penetrando anche nello strato della popolazione che dovrebbe avere maggiore consapevolezza dei meccanismi istituzionali. Possibile sia tanto difficile cogliere che, a fronte di una società politicamente (e non solo) divisa come la nostra, l’urgenza è quella di ricomporre la frammentazione e non di attribuire, pro tempore, a uno dei frammenti il potere di spadroneggiare sugli altri? Nelle situazioni come quella in cui ci troviamo, il compromesso politico trasparente e argomentato non è soltanto una necessità, è un valore, perché veicola l’idea che gli «altri» non siano necessariamente nemici da combattere, ma (almeno alcuni) possano essere avversari da sfidare alla ricerca di punti di convergenza. L’accordo politico, in quest’ottica, è una dimostrazione di forza, non di debolezza. Solo chi è certo della propria identità, delle proprie idee, della propria visione del mondo può avere la sicurezza di sé necessaria a mettersi in discussione e di eventualmente accettare la realizzazione per il momento solo parziale dei propri ideali (altro è l’«inciucio», vale a dire l’accordo esclusivamente rivolto alla spartizione del potere).

Viene da sorridere a leggere che Pd e M5S non potrebbero allearsi perché i rispettivi elettorati «si stanno antipatici»… Ma è del Parlamento o di un asilo nido che stiamo parlando? Al momento del bisogno, il Pci di Berlinguer si astenne per far nascere un governo guidato da Andreotti, che, secondo la Corte di Cassazione, era (non antipatico, ma) un soggetto in rapporti organici con la mafia! Non è certo un caso che la massima capacità di incidere sull’assetto socio-economico dell’Italia si sia avuta quando massima fu la forza parlamentare dei partiti. Altro che governabilità! Dalla riforma della scuola media (1962) all’introduzione del Sistema sanitario nazionale (1978), passando per la nazionalizzazione dell’energia elettrica (1962), la previdenza sociale (1969), l’abolizione delle gabbie salariali (1969), i diritti dei lavoratori (1970), il divorzio (1970), la legislazione sul referendum (1970), le Regioni (1970), la progressività fiscale (1974), il diritto di famiglia (1975), la legge urbanistica (1977), l’aborto (1978), la chiusura dei manicomi (1978): tutte queste riforme furono realizzate quando massima fu la capacità di realmente rappresentare in Parlamento le molteplici articolazioni dell’elettorato.

Oggi l’Italia è divisa come, e forse più (date le crescenti diseguaglianze), di allora. A fronte di una sistema politico separato in tre orientamenti principali oscillanti tra il 20 e il 35% delle preferenze, qualsiasi meccanismo elettorale che trasformi artificialmente una minoranza in maggioranza finisce solo col costruire giganti con i piedi d’argilla – forti in Parlamento, deboli nella società –, privi della capacità di costruire consenso popolare intorno alle decisioni imposte dentro il Palazzo. Quel che occorre, al contrario, è riscoprire la valenza profonda della funzione parlamentare, che è quella di far dialogare i diversi, non di metterne uno in condizione di prevalere a qualsiasi costo sugli altri.

E qui si tocca un punto cruciale per la tenuta stessa della nostra democrazia. L’articolo 67 della Costituzione stabilisce che «Ogni membro del Parlamento rappresenta la Nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato». I vertici del Movimento 5 Stelle, sbagliando, vorrebbero sopprimere o limitare decisivamente questo articolo, sperando di fermare così la piaga del trasformismo parlamentare e di tagliare le unghie al dissenso interno. Ma per disincentivare decisivamente il trasformismo si possono usare altri mezzi assai efficaci (per esempio la riforma dei regolamenti parlamentari, come peraltro si è appena fatto al Senato), senza toccare questa fondamentale difesa del dissenso come forza vitale della democrazia. Ma il fascino del vincolo di mandato è oggi fortissimo: e proprio a causa della suggestione del modello maggioritario, che semplifica per via irriducibilmente oppositiva la dinamica parlamentare. In una sostanziale negazione della democrazia indiretta mediata dalla rappresentanza si pretende che l’elettore vincoli non solo il singolo parlamentare, ma tutto il gruppo e il partito, rendendo di fatto inutile l’esistenza stessa del parlamento (basterebbe far votare i capigruppo) e rendendo impossibile (in un sistema proporzionale) la creazione di un governo.

Ora, non sarà sfuggito che ad agire, di fatto, come se nessun vincolo ci fosse, e dunque a interpretare nel modo più maturo e virtuoso le dinamiche della democrazia indiretta e del libero gioco del Parlamento è oggi proprio il Movimento 5 Stelle con Luigi Di Maio. Mentre sono Matteo Renzi, la dirigenza Pd e una larga parte dei commentatori politici (per esempio su “Repubblica”) a pensare e ad esprimersi come se il vincolo di mandato ci fosse eccome, e dunque come se fossimo in una democrazia (più) diretta, negando ogni margine, e dunque ogni senso, alla dinamica del Parlamento.

Questo ribaltamento di ruoli è assai eloquente. Certo a causa della sua posizione di vantaggio, ma oggi è un fatto che il Movimento 5 Stelle sta dimostrando di saper giocare con senso di responsabilità istituzionale sulla scacchiera di un sistema parlamentare e proporzionale.

Si tratta ora di andare fino in fondo: fino ad accettare di compiere la mossa del cavallo proposta da Paolo Flores. A quel punto sarebbe il Pd a dover dimostrare che l’uscita di scena del plebiscitarismo renziano può segnare il ritorno alla pratica delle virtù politiche e alla piena accettazione del funzionamento di una democrazia parlamentare senza vincolo di mandato.

La mossa del cavallo sarà fatta? E la contromossa sarà adeguata?

Con il fascioleghismo che incombe e con il Paese devastato da povertà e diseguaglianze la posta di questo gioco è altissima: è il futuro della nostra stessa democrazia.



[1] La “mossadel cavallo" (nel gioco degli scacchi il cavallo fa un passo avanti e uni di fianco) consisterebbe nel fatto che «il Movimento 5 stelle proponga al capodello Stato un governo con gli elementi portanti del proprio programma, la cuiguida sia affidata a una personalità fuori dei partiti, che scelga ministritutti della società civile. Sarebbe difficile, per i parlamentari Pd, anche serenziani, dire di no a una proposta che il presidente Mattarella presentasse (eche sarebbe) come la soluzione migliore per l'interesse generale».
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