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Tomaso Montanari
La morte de L’Aquila
9 Dicembre 2012
«Il cartello di cantiere della demolizione avvenuta una settimana fa all’Aquila parla, con terrificante cinismo, di ‘sostituzione edilizia’: è il business della trasformazione del cadavere dell’Aquila in un redditizio zombie ad alto rendimento, prima edilizio e poi forse turistico».

Il Fatto quotidiano, 8 dicembre 2012

Nella notte tra lunedì 26 e martedì 27 novembre è stato in parte abbattuto un palazzo monumentale di età fascista che sorgeva sul Corso Federico II, nel cuore dell’Aquila, che ospitava la sede dell’Inail. Si trattava di un palazzo importante sia da un punto di vista architettonico, che da un punto di vista storico: e infatti era un palazzo vincolato.

Dalla ‘scheda di 1° livello di rilevamento danno, pronto intervento e agibilità per edifici ordinari nell’emergenza post-sismica’ risultano solo danni strutturali leggeri: ma i tre anni e mezzo di abbandono dovevano certamente aver peggiorato la situazione. E dunque è scattata la demolizione, autorizzata con tutti i crismi dagli smarriti organi di tutela del patrimonio architettonico abruzzese.

La trafila è mostruosa: alle diagnosi, per così dire, benigne stilate dopo il sisma, non è seguita alcuna terapia. E ora che l’evoluzione del male appare – a torto, o a ragione – infausta, ecco che si passa all’eutanasia.

Di questo passo, l’Aquila storica – cioè l’Aquila – non ci sarà più. Prima sono stati fatti sparire i cittadini, deportati nelle cosiddette new town berlusconian-orwelliane, e ora si fa sparire la città: in quello che va delineandosi come il più grave annullamento di una identità storica nell’Europa occidentale postbellica.

Un appello della sezione aquilana di Italia Nostra aveva chiesto di fermare l’abbattimento, definito una barbarie culturale che si aggiunge al disastro naturale. Ma nessuno ha risposto. Questa è forse la cosa più inquietante: nessuno avvisa prima, nessuno spiega ai cittadini il perché, nessuno dice cosa si farà dopo. L’eclissi della città ha fatto eclissare la cittadinanza: gli aquilani sono sudditi di un potere che non risponde a nessuno.

In questi stessi giorni, il Ministero per i Beni culturali sta scegliendo quale delle proprie membra tagliare: per effetto della spending review, deve infatti eliminare sei uffici dirigenziali generali e una trentina circa di uffici dirigenziali non generali, fra soprintendenze, biblioteche ed archivi di Stato. I termini astratti e lineari con i quali è applicato rendono demenziale il provvedimento: e, dal canto suo, il vertice Mibac fa quanto può per applicarlo in modo ancora più demenziale. Invece di falcidiare l’ipertrofico apparato centrale che intasa il Collegio romano, pensa infatti di accorpare gli uffici territoriali: la struttura salvaguarda se stessa, a detrimento della missione. Così, invece di sopprimere l’inutile (anzi dannosa) direzione generale per la valorizzazione, o fondere la direzione per il cinema con quella per gli spettacoli dal vivo, cosa contano di fare, al Ministero? Accorpare la Direzione dei Beni culturali dell’Abruzzo con quella del Molise: un vero colpo di genio, visto che già ora all’Aquila accade ciò che ho appena descritto, e non è difficile immaginare ciò che potrebbe accadere con una struttura di tutela dimezzata. Senza contare che, dal canto suo, la direzione generale del Molise sta combattendo una durissima, ma proficua, battaglia legale contro la devastazione del paesaggio e del patrimonio storico della regione ad opera della cricca dell’eolico selvaggio. Ma al Mibac l’Abruzzo e il Molise sembrano assai meno importanti delle gite mediatiche a Cuba o a Pechino dei nostri esausti Caravaggio o Botticelli.

Il cartello di cantiere della demolizione avvenuta una settimana fa all’Aquila parla, con terrificante cinismo, di ‘sostituzione edilizia’: è il business della trasformazione del cadavere dell’Aquila in un redditizio zombie ad alto rendimento, prima edilizio e poi forse turistico. E se questo è l’obiettivo, cosa c’è di meglio che decimare i pochi, e già stanchi guardiani della memoria e dell’identità di quella che era, e forse non sarà mai più, una città?

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