Il manifesto, 6 maggio 2014
Un preciso quadro ideale viene presentato e discusso a questo scopo – esso parte «dalla priorità del comune come principio di trasformazione del sociale, affermata prima di stabilire l’opposizione di un nuovo diritto d’uso al diritto di proprietà». Di seguito, si stabilisce che «il comune è principio di liberazione del lavoro, poi che l’impresa comune e l’associazione debbono prevalere nella sfera dell’economia». Si afferma inoltre «la necessità di rifondare la democrazia sociale, così come il bisogno di trasformare i servizi pubblici in una vera istituzione del comune. Infine, è stabilita la necessità di formare dei comuni mondiali e a questo fine di inventare una federazione globale dei comuni».
Una visione idealistica
Questa esplicitazione politica del principio del «comune» è preceduta da un lungo lavoro di analisi critica e costruttiva che si sviluppa in due tempi. Un primo — «L’emergenza del comune» — consiste nel ricostruire il contesto storico che ha visto affermarsi il nuovo principio del comune e nel criticare i limiti delle concezioni che ne sono state date in questi ultimi anni, tanto da economisti, filosofi e giuristi, quanto da militanti. Una seconda parte — «Diritto e istituzione del comune» — vuole più direttamente rifondare il concetto del comune situandolo sul terreno del diritto e dell’istituzione. Il libro, che nasce dall’attraversamento di un seminario — «Du public au commun» (sviluppatosi in maniera ampia e contraddittoria nel Collège International de Philosophie dal 2011 al 2013) – approfondisce l’idea di comune riferendosi fondamentalmente a quella corrente del «socialismo associazionista» che da Proudhon risale a Jean Jaurès e a Maxim Leroy, e va poi fino a Mauss e Gurvitch, e infine all’ultimo Castoriadis (quello della «Institution imaginaire du social») — senza mai sottrarsi al tentativo di assorbire qualche tratto del pensiero marxiano dentro questo sviluppo «idealistico» della progettazione di un socialismo prossimo venturo.
Su questa scena idealista tira un gelido vento – un pessimismo forte, quasi una rassegnata constatazione che la produzione di soggettività da parte capitalista sia materialmente implacabile e storicamente irresistibile. Di fronte, stanno la sottomissione dei lavoratori e l’interiorizzazione del comando, sempre più dura nell’epoca del capitale cognitivo – come vorrebbe l’attuale scienza del management e come testimonierebbe la nuova sofferenza provata dai lavoratori stessi (psicologia del lavoro adjuvante). Allora, «comune» che cos’è più? Una comunanza di sofferenza? Oppure un dio che deve salvarci?
A mio parere, per riagganciare il concetto di «comune», occorre indubbiamente cominciare seguendo una via analoga a quella percorsa da Dardot-Laval. La critica che essi conducono della nozione di «comune» nella figura teologica, giuridica, ecologica – insomma in tutte le forme di oggettivazione/reificazione che si ripetono instancabilmente a questo proposito – ed anche di quella filosofica che tende a banalizzare il «comune» nell’«universale» — è una giusta via. Un vero concetto di «comune» può darsi solamente come prodotto di una praxis politica cosciente e quindi comporsi in un processo istituente, in un dispositivo di «istituzioni del comune». Il «comune» trova la sua origine non in oggetti o condizioni metafisiche ma solo in attività.
Oltre la tragedia dei commons
In questo quadro la critica che Dardot-Laval conducono della ecologia dei commons di Elinor Ostrom è indubbiamente magistrale poiché ne chiarisce la natura liberale e individualistica – dove un sistema di norme è posto per far fronte alla «tragedia dei commons», per salvaguardarne cioè l’accessibilità e la preservazione, da parte capitalista, in quanto supposti «beni naturali». Seguendo la via indicata da Dardot-Laval ci si trova tuttavia presto davanti ad un bivio – che si apre quando si avverte che il comune non è semplicemente prodotto di attività generica (antropologica e sociologica) ma prodotto di attività produttiva. Qui il confronto con Marx diviene inevitabile e decisivo. Dardot-Laval sembrano tuttavia essere travolti dalla complessità della questione. Da un lato infatti sono sospinti dalla loro ipotesi radicalmente de-sostanzializzatrice (idealista?) del comune, a sottovalutare la stessa dimensione «sociale» del «comune» — anche di quella proposta da Proudhon; dall’altro ad accusare i marxisti che hanno affrontato il tema del «comune» (tenendo ben presente la nuova figura «sociale» dello sfruttamento) di essere «inconsciamente» proudhoniani. Vediamo come si pone il problema con qualche appunto che vada oltre questa confusione. È a tutti evidente (e senza dubbio anche a Dardot-Laval) che lo sviluppo capitalistico ha attinto un livello di «astrazione» (nel senso marxiano della definizione del valore) e, quindi, una capacità di sfruttamento che si estende sulla società intera. Dentro questa dimensione dello sfruttamento si costruisce una sorta di «comune perverso», quello di uno sfruttamento che si esercita sopra e contro l’intera società. Sulla vita intera. Il capitale è divenuto un biopotere globale. A Dardot-Laval, l’avvertire questa globalità ed invasività del biopotere, ovvero la potenza del «comune perverso», richiama le ragioni della critica della teleologia denunciata nel socialismo marxista, quasi che il dato del biopotere costituisse una nuova deriva teleologica – ma la corretta sottolineatura del limite marxiano nell’analisi dialettica dello sviluppo capitalistico, può forse cancellare o farci dimenticare le dimensioni attuali del biopotere capitalista?
La critica che Dardot-Laval fanno dello «sfruttamento per depossessione» di David Harvey e di tutte le analisi neo-marxiste che hanno intravisto nel modello marxiano del «accumulazione originaria» analogie con quanto sta avvenendo ora a livello globale – cioè uno «sfruttamento estrattivo» — è equivoca perché nega il problema, nel mentre ne critica la soluzione. E lo è tanto più perché ignora totalmente la funzione del capitale finanziario (o addirittura la funzione produttiva di denaro, interesse e rendita) quando accusa altri autori marxisti – attenti alla ricomposizione della rendita come strumento di sfruttamento e nuova figura del profitto – di aver ridotto (proudhonianamente) il profitto a «furto» di un comune sostanzializzato, «cosale».
Un furto di pluslavoro
Qui la posizione di Dardot-Laval sembra dimenticare, nel fuoco della critica, i lineamenti più elementari del pensiero marxiano – ed in particolare che il capitale non è un’essenza indipendente, un Leviatano, ma un rapporto produttivo di sfruttamento. E che, nella condizione attuale, il capitale finanziario investe un mondo produttivo socialmente organizzato, accumulando nelle trafile dell’estrazione di plusvalore sia lo sfruttamento diretto del lavoro operaio, sia la depossessione dei beni naturali, dei territori e delle strutture del Welfare state, sia l’estrazione indiretta di plusvalore sociale, attraverso l’esercizio della dominazione monetaria. Se si vuole chiamare «furto» tutto ciò, non mi scandalizzerei – non si è proudhoniani perché si usa quella parola, quando si dà ad essa il significato che oggi il capitale le dà: cioè un modo di accumulazione direttamente innestato sulle nuove forme del processo lavorativo e della sua socializzazione – sia nella dimensione individuale sia nella sua figura associativa. Quando Marx dice che il capitalista si appropria dell’eccedenza di valore che la cooperazione fra due o più lavoratori determina, non nega di certo che nello stesso tempo il capitale si sia appropriato anche del pluslavoro dei singoli lavoratori. Il «furto» integra lo sfruttamento di pluslavoro e rende il capitale ancor più indecente di quanto sia sempre stato nello sviluppare la produzione.
Nel Marx di Dardot-Laval si sentiva correre una vena foucaultiana (intendo con ciò un approccio storico attraversato dall’attenzione alle soggettività agenti). Ora, questa vena è sfiorita – sfiorendo, essa si è portata via anche il frutto, che era una considerazione vivace e dinamica della storia del capitalismo. Qui c’è – in assenza di una metodologia storicamente riflessiva – un approccio senz’altro durkheimiano (forse addirittura categoriale, kantiano) allo sviluppo capitalista. Il capitale sembra una macchina atemporale e onnipotente. La «sussunzione reale» non è vista come conclusione di un processo storico ma considerata solamente come figura del processo di «riproduzione allargata» del capitale.
Senza la classe e il capitale
Accanto a ciò, tuttavia, una certa storicità è reintrodotta nel considerare – in maniera storicamente distesa – l’efficacia distruttiva (sempre più realizzata) nella produzione capitalista delle/sulle soggettività al lavoro. La lotta di classe non esisterebbe più. Questa sembra essere l’ipotesi conclusiva di una concezione che ha cominciato con l’escludere la lotta di classe – marxianamente intesa – dalla costituzione del concetto di capitale. Sembra che la de-materializzazione del «comune», così pesantemente condotta (e l’esclusiva definizione del «comune» come «azione», come principio di attività), implichi in maniera corrispettiva la de-materializzazione della «lotta di classe» — come se anche l’esasperata insistenza su una produzione capitalista di soggettività lavorative, interiormente assoggettate al comando, implicasse la negazione della soggettività produttiva come tale.
Ma senza soggettività produttiva non c’è neppure concetto di capitale. Così va a finire che davanti al mutamento storico dello sfruttamento (qui incompreso); di fronte al definirsi del capitale sempre più come «potere sociale» (qui negato); di fronte ad una così estesa emergenza del «comune», imposta dal realizzarsi di un nuovo modo di produzione (e si noti che quest’emergenza ha già determinato nuove forme del processo lavorativo) – dinnanzi a tutto ciò si dimentica che solo il «lavoro vivo» è produttivo. Che solo la soggettività è resistente. Che solo la cooperazione è potente. Che il comune non è, dunque, semplicemente «attività», ma attività produttiva di ricchezza e di vita – e trasformatrice del lavoro. Il comune non è un ideale (può anche esserlo) ma è la forma stessa nella quale la lotta di classe oggi si definisce. Chiediamo a Dardot e Laval: se il comune non è oggi un desiderio impiantato nella critica dell’attività produttiva, e se solo brilla davanti alla nostra coscienza rincitrullita dalla violenta penetrazione del biopotere, se è semplicemente un «principio» – che cosa mai ci impone di lottare? Dardot e Laval sembrano rispondere che il principio del comune è una categoria dell’attività, dell’istituzione – esso non si fonda sul reale ma fonda il reale – non lo si conquista ma (essi lungamente argomentano – ed il concetto andrà altrove ripreso) eventualmente lo si amministra. Perché dunque lottare?
Oltre ogni critica, questo libro riapre il dibattito sul comune e nessuno stupirà che così si sia riaperto anche il dibattito sul comunismo