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Paolo Rumiz
La marcia in pace del popolo esiliato
24 Novembre 2015
2015-La guerra diffusa
Per far vincere l'alleanza tra il terrorismo jihadista e il rigurgito neonazista non c'è di meglio che mescolare nella mistificazione dei racconti gli scherani del Daesh con il popolo dell'Esodo.
Per far vincere l'alleanza tra il terrorismo jihadista e il rigurgito neonazista non c'è di meglio che mescolare nella mistificazione dei racconti gli scherani del Daesh con il popolo dell'Esodo.

La Repubblica, 24 novembre 2015

Secondo l’Is 4000 jihadisti stanno entrando in Europa assieme ai rifugiati. Quattromila carnefici in cammino con le vittime. È un’immagine biblica sulla quale mi permetto di esprimere dei dubbi. Finora si sa solo di un passaporto siriano fra gli attentatori di Parigi. Ma soprattutto: i carnefici hanno davvero bisogno di camminare coi profughi? Hanno modi più spicci per arrivare. Abitano in casa nostra. Sono frutto del nostro mondo. Ci conoscono meglio di quanto noi conosciamo loro. Usano Twitter e Facebook. Ci fanno credere quello che vogliono. Vogliono sollevare odio verso gli inermi e creare un clima da pogrom. E le nostre destre populiste, dalla Francia alla Polonia fanno da docili agenti dei loro veleni.

Essi vogliono che l’Europa si riempia di reticolati e sbatta la porta in faccia agli esiliati, la cui fuga incarna la sconfitta totale della loro cultura di morte. Se succederà, avranno vinto loro. Essi vogliono che noi ci si chiuda, invece di intervenire sul campo a difesa degli inermi in Medio Oriente. Ci illudono di poter rispondere ancora con i missili, perché sanno che i missili fanno vittime civili (distruzione della base di Médecins sans frontières) e alimentano altri rancori. Ma ecco che la reazione della Francia all’attacco su Parigi è iniziata proprio con bombe a distanza. “Raid” contro il cervello dell’Is. Il che pone una domanda collaterale. Se si sapeva dov’era quel cervello, perché non si è intervenuto prima? Quali sono le tempistiche della nostra reazione? Militari o elettorali?

Da camminatore, oso dire che le guerre non si vincono con i droni ma con le scarpe, scendendo in campo. Quando, lungo la via Appia, ho chiesto a un vecchio contadino pugliese se facevo bene ad andare a piedi, costui mi ha risposto che facevo “bene eccome”, e mi ha spiegato che il disordine mondiale, così come la criminalità, nasceva dal fatto che più nessuno, né eserciti né polizia, pattugliava a piedi. Il vecchio era perfettamente conscio che nel Sud le cosche controllano il territorio e lo Stato no. Vedeva nelle bombe intelligenti null’altro che un’ammissione di impotenza. Il fatto è che oggi nemmeno la politica scende più tra le gente. Campa di tv e non sa nulla dei suoi cittadini. Per questo non conosce il nemico.

Dalla mia città, Trieste, vedo passare rifugiati a piedi dal tempo della mia nascita. Gente che è stata sempre circondata da pregiudizi negativi. Chi cammina è sempre un’anomalia. E poi, si sa, come conforta supporre che il male venga solo da fuori! Ho visto gli istriani in fuga da Tito, i curdi in fuga dalla repressione turca, i croati e i bosniaci in fuga dal massacro jugoslavo, i serbi in fuga dalle truppe croate, poi gli albanesi in fuga dalla repressione serba. Oggi i siriani e gli afghani. Sembrano cose diverse, e invece no: è lo stesso film! Dietro allo scontro etnico, religioso o nazionale, c’è sempre la guerra sociale. Quella di una cosca di “primitivi” bene armati contro un popolo di “evoluti” inermi.

L’Is vuole distruggerci non solo perché interveniamo in Siria, ma per ciò che rappresentiamo: una società plurale. Ma anche la Bosnia, la Siria e l’Iraq sono state distrutte per ciò che rappresentavano. Terre dove abitava un Islam tollerante, in coabitazione con i cristiani. Da anni assisto all’indifferenza dell’Occidente di fronte allo smantellamento di queste isole di pluralismo sulla mappa mondiale. Abbiamo ignorato le primavere arabe. Abbiamo alimentato i Taliban perché ci serviva qualcuno che avesse il fegato di affrontare i russi on the ground, salvo poi bombardarli. Ci genuflettiamo davanti agli emiri finanziatori del terrorismo. Abbiamo eliminato Gheddafi e Saddam in nome del denaro, non di un’idea.

Si vince con le scarpe, dicevo. Ma allora mi permetto di dire che, proprio per questo, gli esiliati in cammino troveranno un approdo. Lo troveranno nonostante gli attentati, nonostante eventuali infiltrati che possono averli seguiti, nonostante le mafie che li sfruttano, i nostri reticolati e le nostre paure. L’immigrazione è un destino ineluttabile che possiamo solo subire o governare. Millenni di evoluzione lo dimostrano. La storia non la fanno gli stanziali ma “i piedi instancabili dell’homo sapiens” (folgorante definizione di Ceronetti), quelli di chi supera il dolore del distacco e la paura del mare nero. Vince chi brucia le navi sulla battigia per non cadere nella tentazione del ritorno, chi si taglia i ponti alle spalle per cercare una vita migliore. Nulla può fermare un ventenne che ha lo stomaco vuoto e la testa piena di sogni. Gli occhi dei rifugiati sono spesso più vitali dei nostri. I loro figli più svegli e affamati di vita. Anche per questo abbiamo paura di loro. Temiamo di esserne dominati.

Viviamo in un mondo di uomini soli incollati a Twitter, dove a qualsiasi arruffapopoli basta urlare la parola “sicurezza” per essere eletto. Ma è osceno che sui rifugiati si costruiscano consensi elettorali. Osceno che populismi vigliacchi smantellino spensieratamente l’Europa e se la prendano con i deboli anziché con gli assassini. Mi inquietano coloro che hanno stravolto il paesaggio della nostra Italia con fabbriche piene di immigrati a basso costo e ora urlano contro questi disperati. Mi fa spavento il cinismo di tante organizzazioni umanitarie che sui rifugiati campano alla grande. Vedo popoli che in nome della cristianità respingerebbero anche Cristo alla frontiere. Vedo la sudditanza culturale di troppa Sinistra rispetto a chi urla le ragioni della pancia. Mi fanno paura gli intellettuali che tacciono o, peggio, snobbano la legittima paura della gente.

Io sto con gli esiliati in cammino. Come loro, esercito coi piedi il mio diritto primordiale di accesso allo spazio e apro varchi negli sbarramenti che mi tagliano la strada. Come loro, ho sete di attraversare frontiere e so che chi viaggia rasoterra penetra nei territori e li comprende meglio di chiunque. L’anno scorso su un treno dei Carpazi in compagnia di alcune badanti ho capito dove andava l’Ucraina meglio che dai giornali. A Budapest nel 1986 ho intuito la caduta del comunismo passeggiando fra la gente lungo il Viale dei Martiri prima che intervistando nomenclatura. Nei Balcani prossimi alla disintegrazione è stata la stessa cosa. L’homo erectus che va, capisce il mondo prima di qualsiasi Dipartimento di Stato.

Gli esiliati scappano da Sudest? Io invece ci vado. Sulla via Appia, sudando per 600 chilometri da Roma a Brindisi, ero ben conscio di marciare controcorrente, verso le terre che l’Europa smarrita vede allontanarsi da sé: Grecia e Medio Oriente. Gli stessi mondi che Roma aveva fatto suoi, pacificandoli con i piedi delle sue legioni. Roma, che ha accolto e assimilato i barbari alle frontiere. Roma, che ha avuto imperatori spagnoli, dalmati, nordafricani. Sull’Appia ogni mio passo calpestava le macerie di un equilibrio infranto, di una koinè perduta, di una centralità strategica che il Sud Italia, oggi prossimo a sparire dalle mappe, non sospetta nemmeno di avere avuto. Ogni miglio indicava la direzione mediterranea perduta della nostra politica estera.

L'icona nel sommario è la riduzione dell'immagine qui sopra, che è è tratta dalla rivista online Cultura+

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