Con l'inizio degli anni 80 si conclude la stagione delle riforme per l'urbanistica. Essa aveva preso le mosse circa dieci anni prima e aveva visto un largo movimento (sindacati, partiti, imprenditori) dispiegarsi nel paese per sollecitare una nuova legislazione e l'ammodernamento delle strutture del settore. La legge nazionale “per la casa” è del 22 ottobre 1971; il piano decennale per la casa del 5 agosto 1978; la legge Bucalossi poi, che instaura il nuovo regime per i suoli, è del 28 gennaio 1977: con essa viene messa in piedi una impalcatura che punta ad assicurare uno sviluppo più moderno delle città e un controllo migliore del territorio, imbrigliando la rendita e realizzando un collegamento forte con lo “Stato delle autonomie” in fase di realizzazione da parte del Parlamento.
Questa impalcatura viene di colpo cancellata dalla sentenza della Corte costituzionale del 25 gennaio 1980, che dichiara illegittime le norme per l'indennità di esproprio equiparata al valore agricolo del terreno, e con questo annulla il principio di fondo della nuova legge urbanistica, basato sulla separazione del titolo di proprietà del suolo dal diritto ad edificarvi sopra (quest'ultimo, essendo di fatto reso possibile e attivato dalle scelte di piano operate dal comune e dalle attrezzature realizzate a servizio del territorio, appartiene alla collettività, che sola può concederlo ma a determinate condizioni). Con successive sentenze questo principio fu ribadito, specificando che il valore da riconoscere per l'indennizzo, in caso di esproprio, doveva essere rapportato a quello venale di mercato.
Ma non è tanto a questi pronunciamenti che si vuole qui porre l'attenzione (non è questa la sede ne essi mancano del resto, com'è ovvio, di una loro interna linearità: la nuova legge non essendo priva di forti ambiguità e contraddizioni frutto delle inevitabili spinte e controspinte cui aveva dovuto soggiacere); quanto al fatto che in tutti i dieci anni successivi a quella prima sentenza il paese rimane come attonito e incapace di reagire. Nessuno appare più in grado di proporre un movimento o una iniziativa adeguati, atti a porre di nuovo il problema. Il Parlamento, di fatto impotente, trascina stanchi disegni di legge da una legislatura all'altra e da una commissione all'altra in una sorta di “melina” da tempi supplementari. Viene così lasciato un vuoto di normativa che costituirà nei fatti - oltre che un danno ingentissimo per le finanze dei comuni - il miglior incentivo per le forme alternative dell'urbanistica “contrattata”.
Dieci anni prima invece, come s'è detto, il dibattito si era sviluppato in forme eccezionalmente ampie e articolate. Si erano impegnate a tutto campo forze politiche e organizzazioni culturali; si era svolto persino uno sciopero generale nazionale, il 19 novembre 1969: per la casa, ma anche per i servizi e l'organizzazione del territorio, e per reclamare leggi di riforma per il settore. Tra i protagonisti, in prima linea, settori e rappresentanti del mondo imprenditoriale.
Un dibattito che del resto, in non pochi momenti, acquistò le dimensioni e i lineamenti di una vera e propria iniziativa politica: con la quale alcuni settori - di fronte ai nodi strutturali che affioravano e stringevano il paese, alle difficoltà di integrazione con le altre economie esterne, alle richieste di adeguamenti che salivano dai ceti lavoratori - cercavano “intorno alla parola d'ordine della 'lotta alla rendita', intesa come quell'insieme di posizioni arretrate e parassitarie che intralciano lo sviluppo del sistema economico”, di far “nascere una nuova coalizione, capace di trar fuori la società italiana dalle secche della crisi”, come scrisse allora Stefano Rodotà [1].
Nell'autunno del '72 poi - con una intervista al settimanale Espresso che fece clamore, e successivamente in una conferenza-stampa organizzata all'inaugurazione del Salone internazionale dell'auto e con un documento pubblico mandato al presidente del Consiglio - i due fratelli Agnelli, padroni della Fiat, entrarono direttamente nell'agone, nel quadro dell'iniziativa da essi stessi promossa per provocare un mutamento di linea e di scenario al vertice della Confindustria (Gianni Agnelli venne poi eletto presidente dell'organizzazione il 30 maggio 1974). Afferma Agnelli:
“Il mio convincimento è che oggi in Italia l'area della rendita si sia estesa in modo patologico. E poiché il salario non è comprimibile in una società democratica, quello che ne fa tutte le spese è il profitto d'impresa. Questo è il male del quale soffriamo e contro il quale dobbiamo assolutamente reagire (...) Oggi pertanto è necessaria una svolta netta. Non abbiamo che due sole prospettive: o uno scontro frontale per abbassare i salari o una serie di iniziative coraggiose e di rottura per eliminare i fenomeni più intollerabili di spreco e di inefficienza” [2].
L'iniziativa degli Agnelli suscitò larga eco sui giornali e nella stampa; provocò scompiglio ai vertici dell'organizzazione degli industriali. Essa era certamente mossa da motivi anche strumentali; ma è certo che si collocava in una atmosfera più che pronta a recepirla, come è altrettanto certo che a rileggere oggi alcune delle formulazioni e motivazioni di allora, sembra quasi di esser discesi su di un altro pianeta. Scrive ad esempio un giornale molto vicino agli industriali, pur dimostrando un certo stupore:
“I Giovani Industriali credono di avere le carte in regola e parlano con estrema chiarezza. Per loro, ad esempio, non c'è alcun dubbio che per salvare il profitto, inteso come giusta remunerazione dell'attività imprenditoriale e come misura dell'efficienza produttiva, occorre mollare e gettare in mare le rendite parassitarie e speculative ed anche, al, limite, le classi ad esse più tradizionalmente abbarbicate. (...) Requiem per la rendita fondiaria potrebbe ben intitolarsi la relazione presentata dal prof. Bastianini, assistente al Politecnico di Torino e - mi dicono - liberale. Egli ha in effetti difeso il “diritto di superficie” (“concessione a tempo” l'ha chiamato, definendola anche “una scelta di civiltà che dobbiamo compiere a favore delle generazioni future”) contro il diritto di proprietà. Bastianini ha anche compiuto una stima del costo globale della rendita urbana in Italia rilevando che, nel 1972, in rapporto ad un valore aggiunto nel settore delle abitazioni risultato pari a 3,037 miliardi di lire, la quota pagata alla rendita è stata di 750-800 miliardi” [3].
Preciso nelle sue formulazioni anche l'altro Agnelli, Umberto, l'amministratore delegato della Fiat:
“Per risolvere la crisi dell'edilizia e la carenza degli alloggi non bisogna fare marcia indietro sopprimendo la legge 865 per la politica della casa. La legge non ha dato buona prova, non perché fosse errata nei suoi presupposti, ma perché è risultata carente di strumenti operativi. Occorre quindi emendare con urgenza la legge, senza negarla peraltro nei suoi presupposti e nelle sue motivazioni, così da farne il punto di partenza per una organica politica della casa. In particolare occorre aumentare la responsabilità della Regione dandole un potere generale di surroga dei comuni inadempienti (...) Quanto alla polemica fra proprietà e affitto della casa, riemersa di recente, va chiarito che ammettere la proprietà della casa non è una concessione alla rendita e che questa, combattuta e eliminata nell'esproprio del terreno, non ha possibilità di risorgere a valle, quando la proprietà sia ottenuta nel quadro dell'edilizia convenzionale” [4].
Sostanziale consonanza esprime infine il Presidente del Consiglio dei ministri, il democristiano Mariano Rumor:
“In primo luogo è da dire che l'attuale crisi economica non può essenzialmente essere ricollegata a fattori esterni al nostro sistema, osservando che se l'instabilità monetaria e l'inflazione sono fenomeni del nostro tempo, è anche vero però che da alcuni anni il divario esistente fra i paesi industrializzati e l'Italia si è progressivamente allargato. Basterebbe questo aspetto a dimostrare che le difficoltà italiane non hanno natura congiunturale, non si ricollegano cioè ad un transitorio ristagno del mercato. Le origini della crisi sono essenzialmente altrove, nelle difficoltà strutturali del nostro apparato produttivo, nella stagnazione degli investimenti, nelle persistenti deficienze del nostro sistema fiscale, nelle grande incidenza della rendita parassitaria” [5].
L'iniziativa dei fratelli Agnelli vide allora la sinistra divisa. Una parte la sostenne, trovandovi un riscontro e un supporto al progetto caldeggiato di promuovere una “alleanza fra tutte le forze produttive” (Amendola era fra questi, per il Pci; ma in fondo era su queste posizioni tutto il gruppo berlingueriano, tant'è che il Pci fu tra i più forti sostenitori della legge). Un'altra parte della sinistra la criticò e ridicolizzò, accusando i promotori di scarsa credibilità e di doppiezza (prendendoli quasi “a calci in bocca”, ebbe allora ad osservare l'economista Paolo Sylos Labini) per via dei legami che essi stessi avevano mantenuto e mantenevano con posizioni di rendita e di parassitismo e per i vantaggi che in non pochi casi da queste posizioni continuavano a trarre. Del resto contemporaneamente, dalla stessa fonte, assieme ai proclami contro la rendita promanavano iniziative di segno del tutto opposto, che tendevano chiaramente a contrastare o quanto meno a imbrigliare le riforme in fase di avvio e a svuotare del loro potere le “autonomie locali”.
[1] -Il Giorno, 26 aprile 1973.
[2] Intervista rilasciata all'Espresso, ...
[3] Dal resoconto su Il Globo del convegno su "Rendita parassitaria, profitto e politica industriale" svoltosi il 26 gennaio 1973, indetto dall'associazione dei Giovani Industriali presieduta dal liberale Renato Altissimo.
[4] Umberto Agnelli, dal documento Considerazioni e proposte di politica economica inviato al presidente del Consiglio; si veda il Supplemento finanziario dell'Espresso del 11 marzo 1973.
[5]Mariano Rumor, presidente del Consiglio: ad un convegno nazionale del gruppo "Iniziativa Popolare" della D.C. svoltosi il 17 marzo 1973 in preparazione del congresso.