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Walter Tocci
La lezione di Roma
19 Maggio 2008
Roma
Autocritica severa e puntuale del modello Roma e dell’urbanistica capitolina, ma non solo. Da l’Unità, 18 maggio 2008 (m.p.g.)

Le vicende di cui ha parlato la trasmissione Report possono essere chiarite fin nei dettagli, come sta avvenendo. Una cosa, però, ci tengo a dire: in questi 15 anni le scelte urbanistiche sono state in mano a persone per bene e impegnate a riformare la città, che hanno sempre lavorato per l’interesse generale, sia facendo bene sia sbagliando. E ciò vale per tutti i settori delle nostre amministrazioni la cui dignità è stata sempre integra. Queste polemiche, però, non devono impedirci una riflessione critica. In passato sull’indirizzo urbanistico ho espresso in varie sedi forti riserve, anche se attenuate dalla lealtà verso una comune responsabilità di governo. Dopo la sconfitta però siamo tutti più liberi nell’analisi e nella proposta.

A mio parere non siamo riusciti a modificare la tendenza di fondo che ha dominato lo sviluppo territoriale per l’intero secolo. Si è continuato ad espandere la città nell’agro romano costruendo tanti quartieri isolati tra loro e sempre più lontani dal centro. In 15 anni quasi tutte le nuove edificazioni sono state collocate a ridosso e oltre il Gra, in un territorio già devastato dall’abusivismo e privo di robuste strutture urbane. Ciò ha appesantito la vita quotidiana dei cittadini, sia di quelli che già vi abitavano sia dei nuovi venuti, e ha aumentato il pendolarismo tra una periferia sempre più lontana e i luoghi centrali di lavoro, fino a produrre l’ingorgo permanente sulle consolari. Ciò che banalmente viene chiamato "disagio delle periferie" scaturisce da processi strutturali. Questo dicono i risultati del voto: perdiamo nei municipi all’esterno del Gra, cioè proprio nei vecchi baluardi del centrosinistra.

Molti cittadini, soprattutto giovani, non sono riusciti più a pagare gli altri prezzi di acquisto o di affitto e, in mancanza di politiche di edilizia pubblica abbandonate in Italia ormai da venti anni, sono stati costretti a trasferirsi nell’hinterland. Circa 300 mila persone hanno lasciato i quartieri interni dotati di servizi e di trasporti per andare a vivere in zone che ne erano sprovviste e nelle quali sarà molto più costoso realizzarli. La nostra politica urbanistica non ha contrastato questi processi, anzi li ha assecondati e addirittura li ha proiettati verso il futuro con il nuovo piano regolatore, che persevera nella logica espansiva. Non potrebbe essere altrimenti: è basato sui residui di cubatura del piano precedente, pensato nei primi anni 60 per una città di 5 milioni di abitanti. Si è molto enfatizzato il taglio apportato alle vecchie previsioni edificatorie, operazione certamente lodevole - bisognerà vigilare che non venga messa in discussione da Alemanno - ma meramente quantitativa, che non ha modificato la dinamica urbana, poiché le cubature residue comunque appartengono a quella logica espansiva e quindi continuano a provocare insediamenti sparsi nella campagna. Sono state chiamate centralità ma tendono ad essere i soliti quartieri satelliti addossati a grandi centri commerciali e comportano inevitabilmente basse densità abitative sulla grande scala, il trasporto pubblico li serve male e a costi elevati. Il ché peggiora il traffico: allunga gli spostamenti casa lavoro e dopo la sconfitta sono venuti a galla i nostri difetti: troppa sicumera, troppo sentirsi classe dirigente, troppo Modello Roma, un’autodefinizione imposta ai fatti. Dire abbiamo perso perché è cambiato il vento non è una soluzione al problema, lo sposta solo un po’ più in là; perché allora non siamo riusciti a costruire un edificio tanto solido da resistere anche al cambiamento del vento? Dei meriti del quindicennio abbiamo detto tante cose vere che ormai fanno parte del patrimonio della città. Ora però dobbiamo svolgerne anche un’analisi critica, soprattutto noi che abbiamo avuto responsabilità di governo, mettendone sotto esame tutti gli aspetti: l’amministrazione e le aziende, la mobilità, i servizi pubblici, la sicurezza, perfino la cultura e certo anche l’urbanistica.

Aumenta la dipendenza dall’auto. Si è risposto allungando oltre il Gra le previsioni dei tracciati delle metropolitane, proprio mentre l’amministrazione è meritoriamente impegnata a sanare il vecchio deficit costruendo le metropolitane per la città esistente. Achille rischia di non raggiungere la tartaruga se mentre recuperiamo il ritardo del secolo passato creiamo nuovi insediamenti che aumentano il deficit infrastrutturale. Far discendere da immodificabili localizzazioni di aree fabbricabili l’esigenza di allungare le linee del trasporto è stato un errore. Si è parlato di priorità del ferro, ma è il suo esatto contrario, è la subordinazione dei trasporti alla localizzazione di cubature come variabile indipendente dello sviluppo urbano. Infatti, quasi preso da un senso di colpa a posteriori il piano stabilisce che non si possono attuare le edificazioni senza i necessari trasporti, ma si doveva evitare a monte che nascesse l’esigenza di nuove infrastrutture.

Ciò era possibile seguendo un approccio alternativo: non partire dai residui del piano del ’62, anzi spostare quelle vecchie previsioni espansive, concentrandole sulle stazioni del trasporto esistenti e già in costruzione - quindi senza creare nuovi deficit infrastrutturali - soprattutto quelle interne, per riportare le residenze nella città consolidata. Questo sì, sarebbe stato un piano basato sulla priorità del ferro, in quanto avrebbe scelto i nodi della rete come i luoghi di più intensa trasformazione a discapito di tutti gli altri. Si doveva quindi indirizzare lo sviluppo all’interno della città dove esistono molti margini di trasformazione. Roma è infatti quasi vuota, su una superficie grande come quella di Parigi ha un terzo degli abitanti, anche se ciò è difficilmente percepibile dal senso comune a causa del disordine urbanistico cha ha lasciato zone abbandonate e altre eccessivamente ingolfate. Bisognava operare con grandi progetti di recupero residenziale, anche demolendo parti della cattiva edilizia degli anni Cinquanta. Certo, sarebbe stata una trasformazione complessa, sia nella tecnica sia nella politica, ma solo questa rottura della logica espansiva novecentesca avrebbe davvero meritato l’attributo di nuovo piano del Duemila.

Va però riconosciuto a merito del piano approvato l’aver stabilito le regole per tale trasformazione dei tessuti esistenti e l’aver individuato, attraverso la condivisione dei cittadini, le centralità dei quartieri consolidati, quelle sì davvero utili. Non a caso negli anni passati le cose migliori sono state realizzate nella città esistente mediante gli interventi pubblici, basta vedere come è migliorato l’Ostiense con la nuova università. Gli investimenti privati, invece, sono come l’acqua e vanno dove trovano la strada. Solo bloccando la strada in discesa per l’espansione si possono trovare le energie per la strada più irta della trasformazione interna.

Si è sostenuto che questa svolta non era possibile perché in conflitto con i diritti edificatori dei proprietari delle aree esterne, ma è un argomento inconsistente. Proprio l’innovazione teorica del piano era basata sullo strumento della compensazione finalizzato a spostare una cubatura da una parte all’altra, senza turbare i diritti edificatori, i quali peraltro possono essere modificati proprio quando si fa pianificazione generale. Comunque, anche volendo evitare contenziosi, purtroppo sempre possibili a causa della debole legislazione sui suoli, la compensazione avrebbe consentito di delocalizzare le cubature esterne verso le aree più interne prossime alle stazioni, le quali oltretutto sono spesso di proprietà pubblica.

Invece lo strumento è stato usato nel modo peggiore verso l’espansione: lo conferma perfino la meritoria cancellazione dell’edificazione di Tor Marancia, che ha salvato uno splendido paesaggio a ridosso dell’Appia Antica, ma a prezzo del trasferimento nell’hinterland di più del doppio della cubatura prevista, aggravando così in futuro la mobilità e i servizi. Ciò si è ripetuto in molti altri casi, è prevalso infatti un compromesso al ribasso tra la vecchia domanda di costruire a prescindere dalla qualità localizzativa e la povertà della cultura ambientalista italiana, che capisce solo la tutela della singola area, senza neppure accorgersi dei guasti ambientali prodotti da una struttura urbana mal fatta. Così, gli ambientalisti hanno gioito per i tagli e costruttori per i residui, ma nessuno si è occupato della qualità del sistema, cioè lo scopo di un vero piano urbanistico. Un malinteso sviluppismo e un malinteso ambientalismo hanno deformato il progetto della struttura urbana. Sarebbe stato meglio interrogarsi su questi problemi quando i nostri consensi superavano il 60%. Allora però le analisi critiche erano tabù.

Non è solo un problema romano. È franata la cultura urbanistica italiana negli ultimi venti anni, non solo come disciplina, ma soprattutto come consapevole pratica politica. Usiamo ancora i loro nomi storici - Roma, Milano, Napoli, Palermo - ma sono ormai oggetti geografici di forma e scala completamente diversi dal passato. Senza alcun governo dei processi sono diventate galassie metropolitane, ingestibili pulviscoli di case sparse, capannoni pseudoindustriali, uffici in vetrocemento, centri commerciali e orribili viadotti. Lo sprawl della città contemporanea globalizzata, connotata soprattutto dall’uso dell’auto. In Europa è una tendenza contrastata con il progetto urbanistico, mentre noi abbiamo assunto pedissequamente il modello americano della città infinita, sovrapponendola ai centri storici più delicati del mondo. Con gravi effetti macroeconomici: se rifacessimo i conti del Pil nazionale dell’ultimo decennio sottraendo le voci della febbre immobiliare scopriremmo anche nelle statistiche ufficiali un paese depresso, molto più simile alla percezione del senso comune. A sproposito si parla di mercato: quando un proprietario rivende un’area a un prezzo dieci volte superiore a quello d’acquisto, senza alcun rischio di impresa, si appropria semplicemente di una ricchezza prodotta dalle decisioni pubbliche. Così le rendite sottraggono risorse alla produzione. Perché mai un imprenditore dovrebbe imbarcarsi in complesse innovazioni tecnologiche se può ottenere molto di più acquistando un immobile al momento giusto? Poi arrivano i furbetti del quartierino che tentano la scalata ai salotti buoni del capitalismo italiano e ai loro giornali e allora la politica si accorge del problema, più per gli effetti che per le cause. Avete mai sentito un politico di centrosinistra negli ultimi venti anni andare in tv a parlare di rendita urbana? Avete mai letto in un nostro programma elettorale un accenno alla regolazione della rendita immobiliare? Si è discusso fino all’accanimento della rendita dei Bot, ma non di quella ben più consistente del mattone.

L’urbanistica è una brutta bestia, quando si prendono le decisioni importanti appaiono avvolte in un tecnicismo che allontana, poi a distanza di tempo ci si accorge che lì erano in gioco cose ben più rilevanti di tanti bla-bla televisivi. La crisi della cultura urbana mette in evidenza l’incapacità della politica di governare i tempi lunghi. La nuova politica deve tornare a pensare il futuro della principale risorsa italiana, della città e dei suoi abitanti.

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