Alexander Höbel, Tommaso Nencioni, Donatella Coccoli, Antonio Gramsci.
articolo21, il manifesto, Left , doppiozero. 27 aprile 2017 (c.m.c.)
articolo21
ANTONIO GRAMSCI VIVO, 80 ANNI DOPO
di Alexander Höbel
Come mai, a 80 anni esatti dalla sua scomparsa, la figura di Antonio Gramsci viene celebrata, ricordata e studiata in tutto il mondo? E perché si continua a ritenere la sua opera come un contributo fondante per la cultura politica della contemporaneità? Gramsci viene oggi celebrato e studiato non solo come antagonista irriducibile del fascismo, che lo volle in carcere e lì lo uccise; non solo come fondatore del Partito comunista d’Italia assieme a Bordiga, Terracini, Togliatti, Grieco, Camilla Ravera, e i giovani Longo, Secchia, Teresa Noce; ma anche come colui il quale – dagli scritti giovanili alle Tesi di Lione, dal saggio sulla questione meridionale ai Quaderni del carcere – ha dato un contributo enorme al marxismo novecentesco, e più in generale al pensiero critico contemporaneo.
Le categorie concettuali da lui elaborate costituiscono tuttora una bussola essenziale per orientarsi nel mondo: egemonia, come processo di apprendimento delle classi lavoratrici nel loro porsi e proporsi come nuove classi dirigenti della società e dello Stato; rivoluzione passiva, ossia il modello delle ristrutturazioni operate dalle classi dominanti con la costruzione del consenso dei dominati; intellettuale collettivo e moderno Principe, ossia lo strumento politico e organizzativo – il Partito in primo luogo – che i subalterni si danno per la trasformazione radicale degli assetti sociali.
«Questo miracolo dell’operaio che quotidianamente conquista la propria autonomia spirituale» – scriveva Gramsci nel 1920 –«lottando contro la stanchezza, contro la noia, contro la monotonia del gesto che tende a meccanizzare e quindi a uccidere la vita interiore, questo miracolo si organizza nel Partito comunista». È qui che l’operaio «collabora ‘volontariamente’ alla attività del mondo […] pensa, prevede, ha una responsabilità […] è organizzatore oltre che organizzato», e «sente di costruire un’avanguardia» che trascina con sé «tutta la massa popolare»[1]. Sono parole che ancora oggi emozionano e incoraggiano.
Fondamentale fu poi il lavoro, avviato da Gramsci nel 1924, teso a individuare le “forze motrici” della rivoluzione italiana: operai industriali e salariati agricoli del Centro-Nord e braccianti del Mezzogiorno. Oggi i settori sociali potenziali protagonisti del cambiamento non sono gli stessi, e tuttavia la lezione di metodo fornita da Gramsci rimane attuale, e implica un nuovo sforzo di analisi e di organizzazione.
Anche altre categorie centrali nel suo pensiero sono di estrema attualità: la dimensione molecolare dei processi di trasformazione, l’alternarsi di guerra di movimento e guerra di posizione, la complessità della lotta politica nei paesi a capitalismo avanzato, il ruolo decisivo della battaglia delle idee, la necessità di costruire una nuova intellettualità di massa e quella unità tra struttura e sovrastruttura, forze sociali e idee guida che rappresenta per Gramsci il blocco storico, nel quale – per dirla con Marx – «le idee diventano una forza materiale».
Oggi naturalmente, rispetto ai tempi di Gramsci, molte cose sono cambiate e i legami tra politica e cultura si sono molto allentati. Tuttavia la riflessione del rivoluzionario sardo rimane di estrema attualità. «Non può esserci elaborazione di dirigenti – si legge nei Quaderni – dove manca l’attività teorica, dottrinaria dei partiti […]. Quindi scarsità di uomini di Stato, di governo, miseria della vita parlamentare, facilità di disgregare i partiti», «il giorno per giorno […] invece della politica seria»; ma anche «miseria della vita culturale e angustia meschina dell’alta cultura», sempre più staccata dalla realtà storica. In questo contesto, scrive Gramsci pensando alla Germania del primo dopoguerra, la burocrazia «sostituiva la gerarchia intellettuale e politica»[2]. Oggi basterebbe sostituire la parola “burocrazia” con “tecnocrazia” o “tecnostruttura” per avere un quadro abbastanza simile a quello descritto.
In un altro passo dei Quaderni Gramsci fa un altro ragionamento interessante: «A un certo punto della vita storica i gruppi sociali si staccano dai loro partiti tradizionali», che «non sono più riconosciuti come loro espressione dalla loro classe». A quel punto la situazione «diventa delicata e pericolosa, perché il campo è aperto […] all’attività di potenze oscure rappresentate dagli uomini provvidenziali o carismatici», mentre si rafforza il «potere della burocrazia […] dell’alta finanza». In questa che si configura come una vera e propria «crisi di egemonia, o crisi dello Stato nel suo complesso», la classe dominante «muta uomini e programmi e riassorbe il controllo che le andava sfuggendo»; dunque «mantiene il potere, lo rafforza […] e se ne serve per schiacciare l’avversario e disperderne il personale di direzione», i quadri politici. Ne deriva «il passaggio delle truppe di molti partiti sotto la bandiera di un partito unico [ma possono essere anche due o tre, aggiungerei] che meglio rappresenta e riassume i bisogni dell’intera classe» dominante. Insomma,«non sempre [i partiti] sanno adattarsi ai nuovi compiti e alle nuove epoche», ma le conseguenze del loro disgregarsi sono molto pesanti[3].
Sono parole di grande attualità, che ci rimandano a quella idea di «crisi organica«, nella quale «il vecchio muore e il nuovo non può ancora nascere», che per Gramsci però è anche tipica delle «fasi storiche di transizione»[4]. Ecco perché il pensiero del fondatore del comunismo italiano non solo è ancora fecondo, ma è anche uno strumento prezioso per chi vuole abolire lo stato di cose presente e contrastare la barbarie che avanza.
[1] [A. Gramsci], Il Partito comunista, “L’Ordine Nuovo”, 4 settembre e 9 ottobre 1920, in Id., Scritti politici, a cura di P. Spriano, Editori Riuniti 1978, vol. II, pp. 151-152.
[2] A. Gramsci, Quaderni del carcere, edizione critica dell’Istituto Gramsci, a cura di V. Gerratana, Einaudi 1975, pp. 387-388.
[3] Ivi, pp. 1603-1604.
[4] Ivi, p. 311.
il manifesto
LE ISTITUZIONI NEI PASSAGGI D'EPOCA .
LE LEZIONI DI ANTONIO GRAMSCI.
di Tommaso Nencioni
«80 anni dalla scomparsa. L’anniversario dalla morte coincide con il centenario dell’Ottobre. Un alimento per discutere le istituzioni (europee) nei passaggi d’epoca»
Le celebrazioni per l’ottantesimo anniversario della scomparsa di Antonio Gramsci si saldano quest’anno con il centenario della rivoluzione russa. Una notevole messe di studi ha teso a “depurare” il pensiero del Gramsci maturo – quello dei Quaderni del Carcere – dall’eredità del leninismo.
Tuttavia, senza voler addentrarsi nella querelle che ha appassionato storici e filologi di diverse scuole, l’impatto dell’Ottobre sul politico comunista sardo non può essere rinnegato, e neppure sbiadito, in base a letture contingenti dettate dall’esigenza generale di rimozione dell’evento rivoluzionario dalla storia del XX secolo.
Ciò che particolarmente persiste, della lettura che dell’Ottobre dette Gramsci – del suo tentativo di tradurre in italiano i fatti di Russia, verrebbe da dire con terminologia gramsciana – pare anzitutto una lezione di metodo, che si riflette in due intuizioni preponderanti.
La prima è l’assoluto rifiuto di una visione lineare della storia, come se questa fosse agita da un demone di carattere progressivo. Ogni rivoluzione si presenta come Rivoluzione contro il capitale, come frutto della volontà umana di piegare la modernità ad un esito del conflitto favorevole alle classi subalterne, di per sé non scritto in nessuna legge aurea. La seconda è la ravvisata necessità per i subalterni di creare, nel cuore stesso del conflitto, le istituzioni avvenire, senza attardarsi nella difesa di quelle caratteristiche dell’epoca precedente – fossero anche istituzioni che ne avevano garantito un relativo benessere, quali ne furono effettivamente edificate nell’Italia giolittiana. Se ci si attende l’emancipazione da eventi “esterni”, come se ci si ripara all’ombra di istituti che una nuova condizione storica fa apparire come obsoleti, l’ondata storica è destinata a travolgere le vecchie conquiste e a renderne impossibili di nuove. Di qui lo “spirito di scissione” evocato da Gramsci contro le tradizioni tanto riformiste che massimaliste del socialismo dell’Italia liberale.
Con l’Ottobre historia facit saltus, e una netta discontinuità si instaura nel pensiero gramsciano. Dal punto di vista della storia delle idee, la rivoluzione bolscevica mette concretamente il pensatore sardo di fronte al tema del marxismo, nella misura in cui, con la loro azione vivificatrice, con la loro Rivoluzione contro il capitale, i bolscevichi avevano ‘salvato’ Marx dai suoi esegeti ammalati di positivismo e determinismo.
Ma il saltus dell’Ottobre segna sì una discontinuità nella maniera gramsciana di pensare la lotta politica – mette l’ipotesi rivoluzionaria all’ordine del giorno, pone di fronte alla necessità di pensare la presa del potere da parte del proletariato colui che fino a quel momento aveva teorizzato la funzione di stimolo al progresso borghese proprio della classe operaia – ma in esso allo stesso tempo si intravede una continuità di metodo: col volontarismo di cui è permeato, Gramsci non giudica, alla maniera dei riformisti italiani o degli stessi menscevichi russi, la rivoluzione in base a presunte leggi di sviluppo presenti a priori nella Storia; ma, operando un vero e proprio distacco logico rispetto a tali convinzioni, individua nell’atto rivoluzionario una fonte di norme dell’agire storico. Gramsci non giudica l’Ottobre con le lenti della storia, ma ne fa una lente per giudicare la storia.
C’era prima della rivoluzione un Gramsci anti-giacobino, per il quale il giacobinismo in quanto ideologia democratica trascendente, fuori dalla storia, si risolveva forzatamente in un atto di negazione della libertà; questo Gramsci non a caso celebra la rivoluzione russa come rivoluzione anti-giacobina; e c’è un Gramsci, dopo lo scioglimento dell’Assemblea costituente da parte dei bolscevichi, che accetta le logiche della dittatura (giacobina) nel momento del passaggio dal vecchio al nuovo Stato.
Da queste considerazioni emerge il teorico dello Stato – dell’Ordine – nuovo. Uno Stato/Ordine nuovo che però si forma, in Gramsci, già nella prassi rivoluzionaria, nella dialettica tra conflitto e istituzioni; questa funzione di collegamento sarà individuata nel Soviet, istituzione autonoma della classe operaia già forgiata nel corso della lotta per il potere e successivamente destinata a funzionare da perno dell’Ordine Nuovo. Nel momento in cui il Soviet da contro-potere si fa potere, Gramsci si trasforma insomma da teorico dell’antistato e teorico dello Stato (nuovo). Un omaggio operante alla lezione del Machiavelli dei Discorsi, per il quale «coloro che dannono i tumulti intra i Nobili e la Plebe mi pare che biasimino quelle cose che furono prima causa del tenere libera Roma…».
Anche nella fase attuale, a fronte di un rinnovato protagonismo dei popoli nello scenario politico che si articola in forme nuove e sconosciute, la sinistra storica si fa portavoce del dogma della modernizzazione – dell’espulsione, cioè, del conflitto dalla modernità – e si impantana nella difesa di istituzioni che sono state negli ultimi anni i perni della grande restaurazione neoliberale. In un simile contesto, una riflessione sul legame tra il pensiero di Gramsci e l’irruzione della rivoluzione nella storia umana costituisce un punto necessario da cui ripartire.
Left
GRAMSCI ,
UN PATRIMONIO CHE LA SINISTRA
NON RIESCE A FAR SUO
di Donatella Coccoli
Era il 25 aprile 1937 e il giudice del tribunale di sorveglianza di Roma aveva comunicato a Antonio Gramsci, ricoverato nella clinica Quisisana, che era finalmente un uomo libero. Ma la sera stessa, dopo aver cenato, Gramsci venne colto da una emorragia cerebrale e all’alba del 27 aprile cessò di respirare. Aveva 46 anni e nonostante il carcere e la malattia, aveva realizzato una riflessione politica straordinaria.
Ottant’anni dopo, l’anniversario gramsciano dovrebbe essere l’occasione per riflettere sul pensiero, sulla filosofia della praxis, sul concetto di egemonia culturale dell’autore dei Quaderni. La sinistra dovrebbe attingere a piene mani a un patrimonio inestimabile, come ha accennato anche lo storico Angelo d’Orsi sulle pagine di Left adesso in edicola. D’Orsi, autore per Feltrinelli di una nuova biografia – cinquant’anni dopo quella di Giuseppe Fiori – afferma che è drammaticamente necessaria oggi una figura come quella di Gramsci che per tutta la sua vita ha avuto come stella polare «l’esigenza della liberazione dei ceti subalterni».
Ma oggi non esistono intellettuali come lui, capaci di analisi profonde e originali che nemmeno lo stesso partito comunista di allora riuscì a cogliere. E al tempo stesso, Gramsci, si presenta come un personaggio ingombrante, con cui è difficile identificarsi. Non è un “brand” qualsiasi. Ci ha provato Matteo Renzi con il suo consigliere Tommaso Nannicini a tirare in ballo il concetto di egemonia culturale al Lingotto di Torino. Ma la cosa è davvero poco credibile.
Un presidente del Consiglio che ha voluto una riforma come la Buona scuola cosa ha in comune con chi teorizzava il fatto che tutti gli uomini sono intellettuali e che la scuola è un cardine della lotta per lo sviluppo umano? Cosa c’entra davvero il Pd di oggi con il partito Principe di cui parlava Gramsci? I fatti, cioè le riforme renziane “centraliste”, vanno in direzione contraria rispetto ai concetti espressi nei Quaderni in cui le masse erano comunque sempre protagoniste nella lotta di emancipazione. E non si venga a dire che oggi non c’è bisogno di emancipazione, con i 4 milioni e mezzo di italiani in povertà assoluta, il quasi 40 per cento di disoccupazione giovanile e il record di abbandoni scolastici rispetto all’Europa.
Anche a sinistra del Pd, tuttavia, non si può dire che ci sia una corsa frenetica per prendere o comunque studiare l’opera di Gramsci.
Vedremo cosa uscirà oggi dal convegno Gramsci ottanta anni dopo a Roma (ore 9, Sala Gonzaga, Via della Consolazione 4), promosso da Sinistra italiana e organizzato dal professor Michele Prospero. Tra i partecipanti, Stefano Fassina, Luciana Castellina, Nicola Fratoianni, Claudio De Fiores, Piero Bevilacqua.
Oggi Gramsci verrà commemorato anche alla Camera dei deputati dove, ricordiamo, venne eletto il 6 aprile 1924. Una carica che mantenne fino all’8 novembre 1926 quando venne arrestato. Per lui si sarebbe spalancato il portone di varie carceri italiane dove però con una forza incredibile, pur in condizioni di salute sempre più precarie fino a farsi gravi dal 1935, riuscì a scrivere la grande opera che Mario Lavia su L’unità definisce «una mole inevitabilmente di teoria “disorganica”». In realtà rappresenta una ricerca politica e culturale che non ha precedenti in Italia né prima e né dopo Gramsci. «Non c’è un argomento dello scibile umano di cui lui non si sia occupato», conferma Angelo d’Orsi.
Linguaggio, arte e letteratura, scuola, giornalismo, organizzazione politica, sono solo alcuni temi che si ritrovano nei Quaderni. I libriccini che cominciò a scrivere nel 1929 nel carcere di Turi saranno in mostra nella Sala della Lupa alla Camera fino al 7 giugno a cura della Fondazione Gramsci. Per la prima volta vengono esposti gli originali dei 33 quaderni e di cento volumi, tra libri e riviste, in possesso di Gramsci durante la detenzione. I manoscritti sono esposti accanto alla loro versione digitale e possono essere sfogliati integralmente.
Sempre oggi dalle 18 nella sede della Enciclopedia italiana il doppio evento Passato e presente, con One day exhibition, una installazione di Elisabetta Benassi e l’esecuzione dell’opera di Luigi Nono La fabbrica illuminata.
Quasi a sottolineare il legame con la cultura e l’arte che Gramsci aveva sempre avuto anche come giornalista e di cui si parla ampiamente anche nel numero in edicola di Left. Un’altra prova della grandezza della sua figura, in cui la politica va di pari passo con la cultura. Qualsiasi paragone con l’oggi è assolutamente improponibile.
doppiozero
ANTONIO GRAMSCI : I VERI INTELLETTUALI
di Antonio Gramsci
Quando si distingue tra intellettuali e non intellettuali in realtà ci si riferisce solo alla immediata funzione sociale della categoria professionale degli intellettuali, cioè si tiene conto della direzione in cui grava il peso maggiore dell’attività specifica professionale, se nell’elaborazione intellettuale o nello sforzo muscolare-nervoso. Ciò significa che se si può parlare di intellettuali, non si può parlare di non-intellettuali, perché non intellettuali non esistono. Ma lo stesso rapporto tra sforzo di elaborazione intellettuale cerebrale e sforzo muscolare-nervoso non è sempre uguale, quindi si hanno diversi gradi di attività specifica intellettuale.
Non c’è attività umana da cui si possa escludere ogni intervento intellettuale, non si può separare l’homo faber dall’homo sapiens. Ogni uomo infine, all’infuori della sua professione esplica una qualche attività intellettuale, è cioè un “filosofo”, un artista, un uomo di gusto, partecipa di una concezione de mondo, ha una consapevole linea di condotta morale, quindi contribuisce a sostenere a modificare una concezione del mondo, cioè a suscitare nuovi modi di pensare.
Il problema della creazione di un nuovo ceto intellettuale consiste pertanto nell’elaborare criticamente l’attività intellettuale che in ognuno esiste in un certo grado di sviluppo, modificando il suo rapporto con lo sforzo muscolare-nervoso verso un nuovo equilibrio e ottenendo che lo stesso sforzo muscolare-nervoso, in quanto elemento di un’attività pratica generale, che innova perpetuamente il mondo fisico e sociale, diventi il fondamento di una nuova e integrale concezione del mondo.
Il tipo tradizionale e volgarizzato dell’intellettuale è dato dal letterato, dal filosofo, dall’artista. Perciò i giornalisti, che ritengono di essere letterati, filosofi, artisti, ritengono anche di essere i “veri” intellettuali. Nel mondo moderno l’educazione tecnica, strettamente legata al lavoro industriale anche il più primitivo o squalificato, deve formare la base del nuovo tipo di intellettuale.
Su questa base ha lavorato l’”Ordine Nuovo” settimanale per sviluppare certe forme di nuovo intellettualismo e per determinarne i nuovi concetti, e questa non è stata una delle minori ragioni del suo successo, perché una tale impostazione corrispondeva ad aspirazioni latenti e era conforme allo sviluppo delle forme reali di vita. Il modo di essere del nuovo intellettuale non può più consistere nell’eloquenza, motrice esteriore e momentanea degli affetti e delle passioni, ma nel mescolarsi attivamente alla vita pratica, come costruttore, organizzatore, “persuasore permanentemente” perché non puro oratore – e tuttavia superiore allo spirito astratto matematico; dalla tecnica-lavoro giunge alla tecnica-scienza e alla concezione umanistica storica, senza la quale si rimane “specialista” e non si diventa “dirigente” (specialista + politico).
Tratto da : A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, vol. III.